L’invenzione dell’identità italiana
- Tomaso Montanari
- Comunicazione
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«'Identità' è una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che sia rispettabile». L’ammonizione dello storico inglese Tony Judt (2010) era stata avanzata, poco prima e in termini ancora più espliciti, dall’economista indiano Amartya Sen in Identità e violenza. Recensendo quel libro, Mario Vargas Llosa ha scritto che la domanda che sorge di fronte all’affermazione, assai spesso violenta, delle identità nazionali e religiose è riassunta in un verso di Pablo Neruda: «E l’uomo dov’era?».
«Prima gli italiani», «dove metterete quei 100 che vi siete accollati?», «difendiamo le nostre radici cristiane»: ebbene, l’uomo dov’è? Che ne è della comune identità umana, unica fonte dei diritti fondamentali dell’individuo? È la domanda cruciale, in questa orrenda stagione del discorso pubblico italiano sfigurato dal veleno della retorica identitaria. Siamo al punto che su uno stesso giornale (il «Corriere della sera» del 28 agosto) si può trovare, a pagina 5, il resoconto di una ricerca dell’Istituto Cattaneo che dimostra come sia l’ignoranza a far parlare di “invasione” di migranti (che sono il 7 per cento della popolazione, e sono ritenuti invece quasi il 30 per cento da chi ha solo la terza media), e poi leggere, a pagina 28, un editoriale che toglie a Matteo Salvini, per dare a Marco Minniti, il merito «del duro lavoro in Libia con cui pose fine ai flussi che ci stavano seppellendo». Una frase che colpisce per il silenzio circa il fatto che quel “lavoro” era duro soprattutto per i migranti: chiusi in campi di concentramento i cui allucinanti video sono arrivati fino al papa. Ma che sconcerta non meno per il lessico irresponsabilmente apocalittico: perché afferma senza remore che, se non avessimo chiuso i migranti in campi di tortura, ne saremmo stati «seppelliti».
“Noi” seppelliti da “loro”: è questo il nucleo identitario, dichiarato o meno, su cui si fonda ogni dottrina del respingimento. Un’opposizione, questa tra “noi” e “loro”, abbracciata senza riserve anche dal Partito Democratico, come dimostra il Matteo Renzi cripto-razzista dell’ormai famoso «aiutiamoli a casa loro». Da qua discende quel terrore identitario che non ha alcuna giustificazione nei numeri, attuali o futuri: perché l’Africa non vuole venire in Occidente, tantomeno in Italia (l’87 per cento delle migrazioni è intra-africano), e meno del 10 per cento dei rifugiati medio-orientali è arrivato in Europa. Un terrore tuttavia diffusissimo, e perfettamente intercettato da Matteo Salvini, capace di riassumerlo in un tweet esemplare: «L’immigrazione è invasione, è pulizia etnica al contrario» (7 settembre 2016).
Ha scritto Primo Levi:«A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al temine della catena sta il Lager. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». Ora, dovrebbe apparire con drammatica chiarezza che i campi di concentramento in Libia sono conseguenza diretta del fatto che il dogma dello straniero come nemico è tornato a essere, in Europa, la premessa del sillogismo su cui poggia il consenso dei partiti “sovranisti”. E se il leader xenofobo e razzista di uno di questi partiti e il primo giornale italiano si trovano a usare lo stesso vocabolario, abbiamo un serio problema culturale.
È precisamente su questo che dovrebbero concentrarsi gli intellettuali italiani (non certo sull’improbabile tentativo di prendere il potere dentro il Pd, come singolarmente li esorta a fare un noto filosofo): occuparsi del conflitto tra identità nazionali e diritti umani è il dovere più urgente. Perché «nei libri di storia che non asseconderanno la narrazione egemonica si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi, l’ospite potenziale è stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti e di quelle vite porterà il peso e la responsabilità». Questa è la portata della sfida, e Matteo Salvini sa perfettamente che la si vince o la si perde innanzitutto sul piano delle idee: uno dei suoi primi atti da ministro dell’Interno è stato infatti la revoca della scorta all’autrice di queste righe, la filosofa teoretica Donatella Di Cesare, minacciata dai neonazisti per i suoi studi (il cui ultimo frutto è Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, 2017).
Dunque, prendiamo sul serio Matteo Salvini. Perché, è vero: il “ministro della paura” (secondo la lungimirante definizione di Antonello Caporale) è solo un cialtrone superficiale, per comprendere il quale è esagerato scomodare categorie come il fascismo. Ma la paura, i paradigmi culturali, e le credenze che egli abilmente evoca e strumentalizza, quelli, invece, sono profondi e pericolosi, e indubbiamente connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista. Salvini non è serio: ma tutto questo lo è, terribilmente. «I migranti sono un costo», «portano via il lavoro agli italiani», «delinquono più degli italiani», «aiutarli impedisce di aiutare gli italiani poveri», «i migranti distruggono la nostra cultura e minacciano la nostra identità nazionale»: come tutti gli altri “argomenti” della retorica dell’invasione, anche questi sono falsi, e tutti sono infatti falsificati da imponenti quantità di dati elaborati e discussi in vaste bibliografie scientifiche e divulgative.
Quello di cui si parla meno, perché più difficile da decostruire, è proprio l’ultimo: quello identitario. Eppure non è un argomento secondario. Dal 2008 lo statuto leghista impone alla regione Lombardia di perseguire «sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili il riconoscimento e la valorizzazione delle identità», e in questo agosto 2018 «Primato Nazionale», il «quotidiano sovranista» di Casa Pound, ha dedicato molto spazio a una “inchiesta” in più puntate su «Italia arcana, alle radici della nostra identità nazionale».
Per preparare risposte a chi urla «prima gli italiani» bisogna porre l’interrogativo etico fondamentale: per quale ragione l’essere italiano – «perché qui ti ha partorito una fica», come canta l’eloquente Caparezza descrivendo una condizione puramente casuale, priva di ogni merito – dovrebbe dare una precedenza nel diritto alla sopravvivenza? Ma non basta: è cruciale contestare la possibilità di usare come una clava la categoria di «italiani». Davvero esiste una “Italia arcana” con una identità pura, definita una volta per tutte? C’è un DNA che ci determina italiani? Esiste, è mai esistita, l’Italia cantata da Manzoni: «una d’arme, di lingua, d’altare. Di memorie, di sangue e di cor»?
Ebbene, se «identità» significa – etimologicamente – uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta, bisogna dire con chiarezza: no, questa “identità italiana” non esiste. Quando fu pronto il primo volume del Dizionario biografico degli italiani si constatò l’enorme quantità di voci che si aprivano con il patronimico «al»: arabi, dunque, e italiani. Come ha ben spiegato Eric Hobsbawm ne L’invenzione della tradizione (1983) le identità nazionali sono definite a posteriori, spesso inventate di sana pianta.
Restiamo a Manzoni. Il sangue: nessun popolo europeo è meticcio quanto gli italiani, frutto di infinite fusioni che lasciano traccia in ogni manifestazione culturale. E ogni tentativo di costruire, retrospettivamente una purezza anche in ambiti più ristretti è destinato a scadere nel ridicolo: nelle scorse settimane il Consiglio regionale della Toscana ha, per esempio, indetto una Giornata degli Etruschi (!) tracciando una genealogia della «identità toscana» tutta appiattita sulla propaganda cinquecentesca di Cosimo de’ Medici, e affermando che la costituzione del Granducato di quest’ultimo «ha di fatto prefigurato l’attuale configurazione della Regione Toscana». Un marchiano errore, che dimentica, da un lato, l’esistenza di Stati autonomi toscani come il principato di Piombino, lo Stato dei Presidi, il ducato di Massa, la Repubblica di Lucca e, dall’altro, il fatto che gli etruschi non vivevano affatto solo in Toscana, proprio come i longobardi non solo in Lombardia. La scala italiana amplifica la portata di simili sciocchezze: e basterebbe pensare alla tormentata storia dell’invenzione della lingua italiana per liquidare ogni idea di un’italianità data a priori e dunque intangibile. Quanto alla cucina, Massimo Montanari ha dimostrato che «non esiste una cucina italiana»: esiste invece una straordinaria varietà locale, la stessa che fa diverse le tradizioni popolari e le stesse arti figurative. Come ha scritto Piero Bevilacqua in Felicità d’Italia (Laterza 2017), «giova ricordare che l’identità della cultura italiana fa tutt’uno con la sua multiforme varietà e in un certo senso con la sua stessa mancanza di una identità unitaria». Non c’è spazio per analizzare la strumentalizzazione delle cosiddette “radici cristiane”: ma basterà ricordare che, finita la troppo lunga stagione dell’alleanza tra trono e altare, il Novecento italiano ha saputo ridare un significato all’etimo della parola “cattolico” (che significa “universale”: perché – scrive san Paolo – «non c’è più giudeo o greco…»). Ed è stato don Lorenzo Milani a opporre una volta per tutte le ragioni del Vangelo a quelle degli Stati-nazione: «se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che … io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi e privilegiati e oppressori. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri» (1965).
Naturalmente, tutto questo serve a dire non che “gli italiani non esistono”, ma invece che “gli italiani sono multiculturali per storia e cultura”. Non ha senso opporre “noi” a “loro” perché il nostro “noi” si è formato grazie a una somma di “loro” accolti e fusi in questa terra: una coabitazione senza selezione che dura fin dalla mitica fondazione di Roma da parte della discendenza di Enea, rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano.
L’unico dei princìpi fondamentali della Costituzione che usi la parola “nazione” è l’articolo 9, che mette in strettissima connessione «lo sviluppo della cultura e la ricerca» e la tutela del «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»: in altri termini, il riconoscimento costituzionale della nazione avviene in relazione alla conoscenza, e non al sangue o alla stirpe, alla fede religiosa o alla lingua. La Repubblica, cioè, prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale, il suo sistematico nesso col territorio e il suo incessante rinnovamento attraverso la ricerca hanno nella definizione e nel continuo rinnovamento della nazione italiana. Un rapporto non proprietario: di tutela, e non di consumo insostenibile. Un rapporto in cui tutti siamo provvisori, migranti e stranieri: perché nessuno è padrone assoluto della terra. Chiunque abbia oggi un figlio che frequenti una scuola pubblica (quella scuola che Concetto Marchesi definisce in Costituente il «solo presidio della Nazione») vede come bambini di ogni provenienza divengano, giorno per giorno, italiani: accettando di prendere parte a un patto, ma anche rinnovandolo con la loro diversità. La nostra è un’identità non solo aperta a tutti coloro che vengono in pace, ma anche aperta ai cambiamenti anche sostanziali che i nuovi italiani porteranno: una nazione per via di cultura è per definizione multiculturale.
In questo senso, la storia d’Italia risponde in modo profetico alle aspettative di chi – come per esempio Habermas nel saggio su Cittadinanza politica e identità nazionale (1992) – indica la necessità di una democrazia che sappia separare il popolo dall’etnia, suggerendo che il nazionalismo possa essere rimpiazzato da un patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica: come quella che avrebbe potuto darsi l’Unione europea, in una delle grandi occasioni mancate di cui ora paghiamo il conto. In ogni caso, la Costituzione italiana del 1948 ha un’idea di nazione radicalmente diversa da quella, chiusa e guerresca, nutrita dai grandi nazionalismi: tanto che all’articolo 10 progetta un’Italia che accolga «lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio dei diritti derivanti da libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana». Per questo ogni dottrina del respingimento è incompatibile, da noi, con un vero patriottismo costituzionale.
La spaventosa diseguaglianza, le dimensioni della povertà, il tradimento della sinistra e la rimozione della necessità di un conflitto sociale tra italiani (cioè tra ricchi e poveri) hanno messo in ombra tutto questo, e rendono molti nostri concittadini sensibili alla sirene del neo-nazionalismo di Salvini. Ma è anche vero che la retorica per gli “italiani” appare sempre più strumentale, perché è sempre più chiaro che «c’è differenza tra il senso della propria identità e quello che ne ha il potere che ci domina, il quale … sostituisce la conoscenza effettiva delle differenze, storiche, culturali, ambientali per degenerare in un duplice abuso: quello di concepire la distinzione come barriera da alzare tra un gruppo umano e un altro, e quello di ignorare la dimensione del mutamento, che appartiene alla storia» (Adriano Prosperi, Identità. L’altra faccia della storia, Laterza, 2016). In fondo sappiamo tutti benissimo che l’Italia del 2100 sarà multietnica e dunque multiculturale, o non sarà: si tratta di capire che, in realtà, lo è sempre stata. Chi oggi lo nega sta solo cercando di mettere a reddito la paura dello straniero sventolando le false bandiere di una identità inventata: senza passato, e senza futuro.