Nella foto i delegati al VIII Congresso nazionale dell Fiom (Roma, 29 ottobre – 4 novembre 1918) Bruno Buozzi è al centro del gruppo, in basso.
Il 4 giugno 2024 ricorrono gli ottant’anni dell’assassinio di Bruno Buozzi (e di altri 13 antifascisti, aderenti in particolare al Partito socialista e al Fronte militare clandestino) da parte delle SS in fuga da Roma, proprio nelle ore in cui gli Alleati facevano il loro ingresso nella Capitale.
Come Fiom nazionale saremo al Museo della Liberazione di Roma in via Tasso che, durante i mesi dell’occupazione nazifascista della città, fu la sede del Servizio di Sicurezza delle SS, sotto la guida del colonnello Kappler, e nel quale vennero detenuti e barbaramente torturati circa 2.000 antifascisti. Bruno Buozzi e i suoi 13 compagni furono prelevati proprio da lì nel corso della notte tra il 3 e 4 giugno e, dopo essere stati caricati su un camion, furono portati in località La Storta al km 14 della via Cassia, poco fuori Roma (1).
Dopo aver passato la giornata detenuti e controllati a vista in un fienile, il pomeriggio del 4 giugno vennero condotti in un boschetto adiacente e fucilati dalle SS.
Tra loro, appunto, anche Bruno Buozzi (2), Segretario generale della Fiom dal 1909, nel dicembre 1925 – tra i pochi dirigenti nazionali a non voler scendere a patti col fascismo – assunse la carica di Segretario generale della Cgdl (Confederazione Generale del Lavoro). Nel febbraio 1927, mentre Buozzi era all’estero, alcuni membri del Direttivo della Confederazione ne decretano lo scioglimento. Da quel momento e fino alla seconda metà degli anni Trenta quando si riunirono, convissero due Cgdl: una in esilio a Parigi, guidata da Buozzi, d’ispirazione socialista e punto di riferimento per le migliaia di fuoriusciti italiani; l’altra in Italia con cellule clandestine nelle fabbriche, d’ispirazione comunista e nella quale emerse la figura dell’ex sindacalista rivoluzionario Giuseppe Di Vittorio.
Dopo aver attraversato una profonda crisi nel 1907-1908 (crisi che aveva riguardato anche il gruppo dirigente della Federazione), la Fiom con la nuova guida del ventottenne ferrarese di nascita ma milanese di adozione Bruno Buozzi, spostò la propria sede nazionale da Milano a Torino. Tra le prime iniziative ci fu quella della revisione della cassa di resistenza (che aveva funzionato poco), dell’innalzamento della quota tessera e del proselitismo: la Fiom nei primi anni della Segreteria Buozzi crebbe di circa mille unità all’anno, a partire dai 7.000 del 1909 ai 13.800 del 1915, concentrandosi in particolare su una “affiliazione qualificata” (3).
Il 1913 fu un anno molto importante per i metalmeccanici e per Torino, perché in quel frangente la Fiom di Buozzi divenne il sindacato di riferimento dei lavoratori delle fabbriche automobilistiche, settore che a breve (anche con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915) divenne sempre più trainante per l’economia italiana. Già nel 1912 gli operai dell’auto erano scesi in sciopero a Torino ma la protesta, guidata dai sindacalisti rivoluzionari, portò alla serrata delle aziende e dopo due mesi di dure lotte si concluse di fatto con una sconfitta. Le mobilitazioni ripresero nel 1913 e, questa volta guidate dalla Fiom, durarono ben 196 giorni (di cui 93 di sciopero) e si conclusero con una importante vittoria: il riconoscimento delle Commissioni Interne (ancora organismi paritetici), la riduzione di 3 ore dell’orario settimanale, la revisione dei cottimi e la limitazione del lavoro straordinario (4).
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e l’entrata dell’Italia nel conflitto, al fianco dei Paesi dell’Intesa, il 24 maggio 1915 la Cgdl e il Psi si attennero alla linea neutralista ma la Fiom - pur mantenendo fede all’ideale internazionalista di contrarietà alla guerra, nella quale “il proletariato versa il proprio sangue prezioso nell’interesse della borghesia” (5) - decise la propria partecipazione ai Comitati di Mobilitazione Industriale. Le fabbriche, riconvertite allo sforzo bellico, vennero sottoposte ad un controllo militare volto a implementare la produttività e a limitare mobilitazioni di carattere sindacale, anche attraverso l’abolizione del diritto di sciopero. La scelta della Fiom, di partecipare con propri rappresentanti ai Comitati Regionali di Mobilitazione Industriale (lo stesso Buozzi fece parte di quello lombardo) fu una scelta assai saggia dal punto di vista del riconoscimento da parte dei lavoratori. Se da un lato la mobilitazione industriale voleva dire maggior autoritarismo in fabbrica, dall’altro lato non diminuirono certo le controversie e le rivendicazioni operaie, che proprio all’interno dei Comitati andavano risolte. In questa fase, se allo sciopero corrispondeva l’arresto e l’invio punitivo al fronte, furono anche le donne (entrate in fabbrica in grandi numeri per sopperire agli operai mandati in guerra) ad assumere protagonismo e a guidare le proteste, soprattutto quelle contro l’aumento del caro-viveri (6). A tal proposito Buozzi dirà: “ la nostra presenza e il nostro controllo nei Comitati di mobilitazione hanno impedito innumerevoli e ignobili speculazioni politiche ed altrettanti innumerevoli sfruttamenti economici. […] Sin dalle loro prime sedute i Comitati di mobilitazione si trovarono di fronte i nostri memoriali e li dovettero discutere. La nostra azione non tollerava sopraffazioni e la nostra presenza impose riguardi verso le nostre organizzazioni che altrimenti sarebbe stato vano sperare. Tutto ciò diede modo di difendere il nostro movimento e di contribuire al suo sviluppo.” (7)
É indubbio, quindi, che la partecipazione dei rappresentanti della Fiom ai Comitati consentì, da un lato, la difesa (se pur parziale) dei salari e dei ritmi produttivi e, dall’altro, il consistente aumento del numero degli iscritti: 22.500 nel 1916 e 32.400 nel 1917. Ma fu tutto il settore metalmeccanico a crescere vertiginosamente durante la guerra: i profitti del settore auto crebbero dall’8 al 30 % e la sola industria meccanica arrivò a toccare il mezzo milione di addetti.
È in questo quadro che la Fiom tenne il suo Congresso nel 1918, proprio nei giorni della vittoria nella Prima guerra Mondiale, contando a quel punto su 47.000 iscritti e ponendo le basi per le future rivendicazioni. Dopo gli sforzi e le sofferenze sostenute dagli operai italiani nel corso della Mobilitazione Industriale una chiara richiesta usciva da quel Congresso: era arrivata l’ora di aprire una vertenza con la controparte per ottenere un concordato nazionale, che prevedesse l’orario di lavoro a 8 ore giornaliere e il riconoscimento del ruolo del sindacato attraverso le Commissioni Interne in ogni stabilimento. Obiettivi importantissimi, addirittura la richiesta delle 8 ore era un elemento centrale sin dalle prime grandi mobilitazioni operaie di fine Ottocento, promosse dalla Seconda Internazionale con il Congresso di Parigi del 1889, che portarono all’affermazione del Primo Maggio come data di lotta e di astensione dal lavoro. Ma nulla sembrava impossibile per la Fiom di quei giorni, che lo stesso Buozzi definiva: “la più forte e la più temuta [organizzazione] d’Italia” (8).
Tale affermazione di potenza dell’organizzazione si materializzò con il Concordato del 20 febbraio 1919 (9) (ottenuto senza un’ora di sciopero) comprendente tutte le officine meccaniche, siderurgiche e navali italiane. Nel testo - firmato per la componente sindacale da Ludovico D’Aragona per la Cgdl, Bruno Buozzi e Emilio Colombino per la Fiom - venne sancito il passaggio da 55-60 ore settimanali per quanto riguardava le officine meccaniche e navali a 48, mentre nelle aziende siderurgiche, che lavoravano cioè a ciclo continuo, si passava da 72 ore settimanali a 48, stabilendo così i tre turni da 8 ore nel settore. Venne stabilito un aumento delle paghe del 16%; il lavoro festivo venne pagato il 50% in più, il lavoro notturno il 25% in più; venne stabilito (tenendo conto dei turni) il riposo settimanale la domenica e altre 4 giornate di festività all’anno. Vennero inoltre riconosciute le Commissioni Interne (dopo la loro affermazione nel 1913 a Torino per il settore auto). Venne infine stabilita una commissione congiunta per adeguare le paghe al caro vita. Su questo aspetto però le richieste operaie furono ampiamente disattese e già nell’estate del 1919 ci furono imponenti mobilitazioni, in particolare in Emilia e Lombardia, regioni nelle quali gli industriali si rifiutarono di partecipare alle commissioni congiunte.
Il 1919 fu anche l’anno delle elezioni politiche, le prime con un forte allargamento del diritto di voto: il Partito Socialista si affermò come primo gruppo parlamentare con 156 deputati eletti su 508. Lo stesso Buozzi entrò in Parlamento tra le fila del Psi, venendo poi riconfermato nel 1921 e nel 1924 quando, aderendo al Partito Socialista Unitario di Matteotti, partecipò – a seguito del sequestro e dell’uccisione di quest’ultimo – alla scissione dell’Aventino, abbandonando le aule parlamentari.
Ma tornando al 1919, questo il quadro del periodo che ci fornisce Piero Boni: “l’influenza socialista si estendeva a 2.800 comuni (il 24% del totale) e 29 province, cui si aggiungevano 8.000 cooperative e ben 2.000 sezioni. La Cgdl raggiungeva 1.930.000 iscritti e la Fiom 157.000 federati in 221 sezioni.” (10)
Al Congresso straordinario di Genova del 20-25 maggio 1920 venne varata la piattaforma (presentata poi in forma di Memoriale il 18 giugno) (11) con importanti richieste economiche per adeguare le paghe al caro-viveri. La Fiom nel 1920 toccava l’apice degli iscritti dal momento della sua fondazione nel 1901, arrivando a 195.000 lavoratori organizzati. La controparte tentò di ritardare l’avvio della trattativa, invitando al tavolo anche i sindacalisti rivoluzionari dell’Usi (Unione Sindacale Italiana) e i nazionalisti della Uil (Unione Italiana del Lavoro), per presentare le rispettive piattaforme. Il 21 agosto la Fiom passò alla mobilitazione, dando avvio all’ostruzionismo in fabbrica per rallentare il ciclo produttivo; il 30 agosto la fabbrica Romeo di Milano attuò la serrata, rimandando tutti i dipendenti a casa senza salario. A quel punto la Fiom ordinò l’occupazione degli stabilimenti per impedire altre serrate: dal 1 al 4 settembre tutti i principali stabilimenti industriali italiani vennero occupati. Si stima siano stati intorno ai 400.000 i partecipanti al movimento di occupazione delle fabbriche, al cui interno si svilupparono i consigli di fabbrica sul modello dei soviet e si diffuse la pratica delle guardie rosse, operai armati che difendevano gli stabilimenti autogestiti dai lavoratori.
Ci si inizò a chiedere quale: sbocco dare alla mobilitazione? La rivoluzione fu messa ai voti, nel corso di una celebre riunione congiunta dei gruppi dirigenti della Cgdl e del Psi, il 4 settembre a Milano: la maggioranza, “anche per la incapacità e la fiacca volontà del Partito di assumersi una così pesante responsabilità”(12), votò per mantenere la lotta all’interno del quadro rivendicativo sindacale. La Fiom per bocca di Buozzi si astenne, pur rivendicando fermamente la giustezza delle occupazioni di fabbrica.
Dopo più di due settimane di mobilitazione, il 19 settembre venne firmato l’accordo che poneva fine alle occupazioni. All’interno della Fiom questo accordo passò a maggioranza, con 18 sezioni (capeggiate dai torinesi) per il no e 117 sezioni (capeggiate dai milanesi) per sì. Il referendum, che si tenne il 24 settembre, vide 148.000 voti a favore, 42.000 contrari e 5.000 astenuti. Nel testo dell’accordo del 19 settembre gli industriali pretesero venisse scritto: “Si da atto che la rappresentanza industriale non può, per esplicito mandato ricevuto, accedere alla proposta del Presidente del Consiglio, relativa alle condizioni di riammissione al lavoro del personale e dichiara che essa sarà subìta solo come atto di imperio di cui lascia piena responsabilità al Capo del Governo”.(13)
Il concordato nazionale, sottoscritto in via definitiva il 1 ottobre 1920 (14), con in calce le firme del Prefetto di Milano Lusignoli, di Federico Jarach per gli industriali e di Bruno Buozzi per la Fiom, prevedeva: aumenti salariali, in particolar modo per quanto riguarda gli straordinari; il lavoro notturno che era pagato il 25% in più fu elevato al 30%, il lavoro festivo che era pagato al 50% fu elevato al 60%; vennero istituiti 6 giorni di ferie all’anno; venne istituita un’indennità di licenziamento (sopra i tre anni, per ogni anno lavorato 2 giorni di paga, solo se non si trattava di un licenziamento disciplinare); venne pagato agli operai anche il salario relativo ai giorni di occupazione. Il 19 settembre, oltre all’accordo sopracitato, il Presidente del Consiglio Giolitti emise inoltre uno specifico Decreto che recitava: “Viene costituita una commissione paritetica formata da 6 membri nominati dalla Confederazione generale dell’Industria e 6 membri nominati dalla Confederazione generale del Lavoro, tra cui due tecnici impiegati per parte, la quale formuli quelle proposte che possano servire al Governo per la presentazione di un progetto di legge allo scopo di organizzare le industrie sulla base dell’intervento degli operai al controllo tecnico, finanziario e all’amministrazione delle aziende”.(15)
Un passo avanti molto esplicito verso la gestione diretta dei lavoratori sulle imprese e, contemporaneamente, la consacrazione del ruolo del sindacato come guida del movimento operaio. Peccato che la commissione in questione non venne mai convocata e, invece, da quel momento gli industriali, seguendo l’esempio degli agrari della Val Padana e della Puglia, iniziarono sistematicamente a finanziare e a utilizzare lo squadrismo fascista per reprimere le mobilitazioni operaie. Dopo due anni di violenze, omicidi e assalti (come quello alla Camera del Lavoro di Torino del dicembre 1922, nel quale fu barbaramente trucidato il Segretario della Fiom Pietro Ferrero) si assisteva alla marcia su Roma e all’affermazione al potere del fascismo. Mussolini nel 1925, con il Patto di Palazzo Vidoni e la corresponsabilità di Confindustria, pose fine alle libertà sindacali, garantendo la titolarità contrattuale al solo sindacato fascista. Al primo biennio rosso seguì, purtroppo, un lunghissimo ventennio nero.
Nell’aprile del 1924 si tenne a Milano l’ultimo Congresso della Fiom prima del suo scioglimento forzato. Bruno Buozzi, Segretario di una Federazione ridotta a meno di 15.000 iscritti, nel corso della relazione, affermò: “Noi non abbiamo quindi bisogno di enunciare ampi programmi per vendere del fumo. Il nostro programma è questo: rimanere noi stessi in mezzo a tutte le avversità. […] L’equivoco potrà durare ancora a lungo, perché chi dispone degli aiuti governativi e padronali di cui godono oggi le Corporazioni [fasciste], può vivere relativamente a lungo; ma l’equivoco è destinato a scomparire per lasciare il posto al movimento sindacale che aspira alla completa emancipazione del proletariato. Ne siamo sicuri. (16)”
Buozzi, pur avendo contribuito tenacemente alla sconfitta del fascismo e alla rinascita del movimento sindacale, a partire dagli scioperi operai del marzo 1943 e del marzo 1944, non riuscirà a vederne i frutti attraverso la rinascita della Cgil unitaria con il Patto di Roma tra comunisti, socialisti e cattolici. Patto che – per volere di tutte le componenti - porterà comunque per sempre la sua firma postuma.
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1) Avanti!, 7 giugno 1944;
2) Gabriele Mammarella, Bruno Buozzi (1881-1944). Una storia operaia di lotte, conquiste e sacrifici, Ediesse 2014;
3) Aldo Forbice, La forza tranquilla. Bruno Buozzi, sindacalista riformista, Franco Angeli 1984, p. 25;
4) Fondazione Bruno Buozzi (a cura di), Bruno Buozzi. Ricordi, immagini, pensieri, tra cronaca e storia, DataUfficio Editrice 2004, p. 13;
5) Il Metallurgico, 19 settembre 1914;
6) Stefano Gallo, Fabrizio Loreto, Storia del lavoro nell’Italia contemporanea, Il Mulino 2023, p. 132;
7) Bruno Bezza, Maurizio Antonioli, La Fiom dalle origini al fascismo 1901-1924, De Donato 1978, p. 447;
8) Vittorio Gianangeli, Storia degli operai metallurgici, dalle origini all’avvento del fascismo, Editrice Dibattito Sindacale 1968, p. 146;
9) “Verbale di accorodo per gli stabiliemnti meccanici navali e siderurgici. Milano, 20 febbraio 1919”, in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale pubblica sicurezza (1861-1981). Divisione affari generali e riservati. Archivio generale 1901-1925, Documenti sequestrati alla sede centrale della Fiom a Torino, b.13, fasc. 143 “Concordati nazionali”;
10) Piero Boni, Fiom 100 anni di un sindacato industriale, Meta Edizioni-Ediesse 1993, p. 92;
11) “Memoriale presentato il 18 giugno 1920 alla Federazione Nazionale Sindacale dell’Industria Meccanica e Metallurgica”, in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale pubblica sicurezza (1861-1981). Divisione affari generali e riservati. Archivio generale 1901-1925, Documenti sequestrati alla sede centrale della Fiom a Torino, b.13, fasc. 143 “Concordati nazionali”;
12) Vittorio Gianangeli, op. cit., p. 172;
13) “Accordo 19 settembre 1920”, in ibidem;
14) “Concordato nazionale 1 ottobre 1920”, in ibidem;
15) “Decreto del Presidente del Consiglio G. Giolitti, 19 settembre 1920”, in ibidem;
16) Bruno Bezza, Maurizio Antonioli, La Fiom dalle origini al fascismo 1901-1924, De Donato 1978, p. 709.