«Alle ore 9 e mezzo di stamani, dalla sede della Camera del lavoro, preceduti dalla bandiera sociale, si partirono i delegati delle varie sedi venuti a Livorno per prender parte al primo Congresso nazionale degli operai metallurgici»: così la “Gazzetta livornese” del 16 giugno 1901 raccontava la nascita della Fiom, che allora si chiamava Federazione italiana operai metallurgici. Dietro quella bandiera, più bordeaux che rossa, con le insegne del mestiere al centro, erano raccolti poco più di 18.000 iscritti, organizzati in 60 sezioni - quasi tutte al nord. In quell'anno gli operai metallurgici erano circa 120.000. Lavoravano 10-12 ore al giorno, per sei giorni la settimana, non avevano diritti, la paga era un po' a discrezione del padrone e un po' frutto di consuetudini, rincorrevano il cottimo, erano un coacervo di mestieri in rapida trasformazione, un misto di professionalizzati e manovali. Il loro primo segretario fu Ernesto Verzi, incisore di metalli, fiorentino e autodidatta.
Quell'atto fondativo non era solo un inizio, ma anche un traguardo. Le radici stavano nelle società di muto soccorso, nelle leghe di resistenza, in quel percorso ottocentesco che aveva accompagnato la prima industrializzazione del paese, intrecciandosi con la nascita del Partito operaio prima e del Psi poi. La natura di questo movimento era magmatica ed eterogenea quanto l'Italia post-unitaria, ma nel mestiere e nei suoi scontri con il capitalismo definiva la propria esistenza, sempre in contrapposizione con una trasformazione dall'alto che violentava artigiani in operai, che si nutriva delle culture politiche radicali (mazziniana, repubblicana, marxista, anarchica), che chiedeva risposte alla «questione sociale» prodotta dalla rivoluzione industriale. Un magma che ogni tanto emergeva prepotentemente, come nello sciopero dei metallurgici milanesi del settembre 1891, vero atto fondativo dell'organizzazione sindacale dei lavoratori del settore, contro l'abbassamento dei salari, l'aumento dei cottimi, i regolamenti di disciplina voluti dai padroni: la vera costante di tutta la storia dell'industria nostrana, la necessità capitalistica di dominare la forza lavoro, controllare il processo produttivo e renderlo il meno costoso possibile. Una lotta, quella partita dalla fabbrica di macchine utensili Elvetica, conclusasi con una sonora sconfitta, senza ottenere nulla dopo un mese di sciopero generale. Gli operai milanesi rientravano nelle fabbriche, ma da lì nasceva la Lega dei metallurgici del capoluogo lombardo con la sua cassa di resistenza come base materiale e il giornale Il Metallurgico come bandiera. E proprio da un appello del Metallurgico partiva la convocazione del primo congresso Fiom.
Mestieri e categorie
Di Leghe operaie ne esistevano già altre: i tipografi, gli edili, i panettieri, i ferrovieri, ma era la nascita della Fiom a segnare una svolta, perché l'organizzazione economica del paese era già definita, il suo percorso segnato dalla preminenza dell'industria pesante che presto si articolerà nella produzione di massa. Dai mestieri si passava alla categoria, la base comune era individuata nella necessità di un percorso comune, di regole uguali per tutti, per far sì che la resistenza (evitare i licenziamenti o la compressione salariale) e i conflitti offensivi (la riduzione d'orario, gli aumenti salariali o la rappresentanza operaia in fabbrica) si saldassero in un percorso unitario, la chiave del «sindacato generale», del senso politico del conflitto di classe. Era la base del «contratto», dell'istituzione di una «legge» utile a contenere il predominio del potere padronale, che istituzionalizzasse ciò che la lotta conquistava. Riformisti e rivoluzionari lo consideravano in maniera diversa: manifestazione di una trasformazione «progressiva» già in corso per i primi, base per il potere dei lavoratori e la trasformazione radicale dei rapporti di produzione e di proprietà per i secondi; un'ambivalenza che - in successive articolazioni - sarebbe continuata per tutto il Novecento. Chi non era politicizzato si muoveva tra queste due polarità, sceglieva il suo campo, risentiva dei rapporti di forza; e nel corso della propria vita cambiava se stesso e gli altri, adeguandosi o diventando protagonista, comunque soggetto: il vero sale del conflitto politico del Novecento italiano, il valore aggiunto delle battaglie per la democrazia e il potere.
Esordi difficili
Da quegli esordi livornesi il percorso della Fiom non è stato lineare, ha conosciuto un andamento «pendolare», dal dirigere il conflitto a doverlo rincorrere, ma la sua composizione sociale l'ha sempre salvata dal pericolo di diventare un corpo impermeabile, un organismo burocratico e solo istituzionale. Così nei primi anni del secolo il sindacato metallurgico ha dovuto inseguire il radicalismo operaio nei punti alti del conflitto, dove la trasformazione capitalistica produceva gli sconquassi più evidenti: a Torino nel 1911 la Fiom è spiazzata da uno sciopero di massa dei lavoratori dell'auto contro il protocollo firmato con gli industriali che scambiava la riduzione d'orario (a 56 ore dalle 60 precedenti) e aumenti salariali con il divieto di sciopero per tutta la durata del contratto. Un nuovo conflitto generale - guidato da un sindacato autonomo diretto dalla corrente rivoluzionaria del sindacalismo che considerava dei traditori i riformisti della Cgl - chiuso con la sconfitta totale. Ma, poi, due anni dopo la Fiom riesce a riconquistare quella riduzione d'orario senza la moratoria del conflitto. Il «pendolo» cambia direzione e nascono le commissioni interne - a partire dalla fabbrica d'automobili Itala - perché il sindacato esiste solo se vive nella fabbrica e lì si dà forme di rappresentanza diretta degli operai, che corrispondono all'organizzazione del lavoro e dello sfruttamento. E' da queste commissioni che nasce l'esperienza consiliare, la forma organizzata del conflitto del biennio rosso in fabbrica. Ma il peso della prospettiva politica e la controffensiva padronale sono troppo forti, così il «pendolo» ritorna indietro e la Fiom si trova a frenare l'iniziativa consiliare, considerando quasi una fuga in avanti l'occupazione delle fabbriche in risposta alla serrata padronale, un pericolo per gli stessi assetti contrattuali. La composizione della classe operaia è così articolata - così distante il bedeaux, anticipo del taylorismo, della Fiat dal mestiere dei cantieri navali - che le punte alte del conflitto finiscono per essere spiazzate dalla loro gestione politica e il compromesso finale si traduce in una sonora sconfitta. Che la direzione riformista del sindacato non comprende e che gli ordinovisti spiegano solo con la mancanza di un'organizzazione politica, il partito.
Inizia l'era della preminenza della politica e delle sue strutture sulla contraddizione di classe, sindacalisti e lavoratori si dividono soprattutto sulla «strada per il potere». Il fascismo arriva puntuale e feroce e apre una lunga parentesi di cancellazione dell'organizzazione di classe. Dal '26 al 44 (il patto di Roma) la Fiom, come la Cgl, non esiste più, nella fabbriche l'orario aumenta o diminuisce a seconda delle esigenze padronali, i salari precipitano, l'autonomia dei lavoratori scompare. E quando riemerge il conflitto è preminentemente politico: «pane, pace e libertà», è lo slogan degli scioperi del '43 e '44. L'uscita dal tunnel del fascismo e della guerra segue le linee che avevano segnato l'avvento della dittatura: i comitati di gestione delle fabbriche liberate sono una breve parentesi, segnata dall'estrema politicizzazione (sulla falsariga dei Cln) e conclusa con la mancata epurazione; i vecchi padroni tornano a controllare la fabbrica, i metalmeccanici si misurano con una ricostruzione segnata dal primato della riconversione einaudiana e dalla ristrutturazione che chiude le imprese pubbliche e privilegia l'industria privata.
Gli anni duri
L'esordio degli anni '50 è quello delle grandi lotte di resistenza contro i licenziamenti e l'identità viene fornita dall'appartenenza politica, perché la guerra fredda semplifica i fronti ma restringe il campo d'azione: più che il sindacato è il partito il punto di riferimento. La scissione sindacale del '48 ridisegna il terreno d'azione, la Fiom unitaria finisce, nascono Uilm e Fim: ognuno al suo posto. È una rapida discesa verso la sconfitta alla Fiat nelle elezioni per le commissioni interne del 1955: la Fiom passa dal 63 al 36% dei voti. La repressione di Valletta, i reparti confino e i licenziamenti politici ne sono la ragione più facile da individuare, ma più nel profondo c'è la trasformazione della composizione di classe con cui il taylorismo ha cambiato la grande fabbrica e a cui non corrisponde un'azione sindacale adeguata. L'appartenenza politica e le rivendicazioni generali non bastano più a dare coesione e prospettive, bisogna cambiare tutto. «Tornare in fabbrica» è la parola d'ordine con cui la Fiom decide il proprio rinnovamento per risalire la china che, nel '59, la porta al minimo degli iscritti dal dopoguerra (185.000 contro i 637.000 del '49). Così il «pendolo» ricomincia la sua corsa: sono gli anni di una lunga preparazione, in cui si conquista la contrattazione aziendale e i premi collettivi per dare un istituto a una composizione di classe ormai segnata dalla produzione di serie. Il fordismo e il taylorismo vanno verso la loro maturità; le città del nord si riempiono di immigrati, ex braccianti meridionali che si accalcano alle linee di montaggio, che a loro sembrano una traduzione industriale del latifondo. Le condizioni di lavoro peggiorano, le officine assomigliano a gironi danteschi, i salari salgono troppo lentamente, l'Italia conosce il boom economico, ma il prezzo per chi sta in fabbrica è altissimo. La Fiom è isolata dalle altre organizzazioni sindacali e perseguitata dai padroni, ma mettendo al centro le condizioni di lavoro e legando il salario alla prestazione e alla professionalità riacquista credito tra i lavoratori. Spesso indice gli scioperi in solitudine e non sempre con successo. È la condizione necessaria - ma non sufficiente - per smuovere le acque stagnanti: gli scontri di piazza Statuto a Torino - l'assalto alla sede della Uil - nel '62 è un segnale. L'altro sarà la vertenza contrattuale del '66: Fim, Fiom e Uilm, spinte dal basso, ricominciano a dialogare, alle rivendicazioni salariali si affiancano quelle sull'orario e i diritti sindacali.
Il secondo biennio rosso
Quando la pressione del taylorismo sulle condizioni di lavoro non è più sopportabile i «nuovi operai» entrano decisamente in scena trovando al loro fianco un soggetto inedito, gli studenti. Inizia il secondo biennio rosso e il sindacato ne viene stravolto: nelle fabbriche esplode un conflitto per nulla tradizionale, l'egualitarismo oppressivo della catena di montaggio si rivolta in quello liberatorio della lotta contro la gerarchia di fabbrica. Aumenti uguali per tutti, centralità delle condizioni di lavoro, riduzione dell'orario, tutela della salute, compongono un quadro rivendicativo che l'organizzazione sindacale fa fatica a gestire. A Valdagno gli operai rovesciano la statua del conte Marzotto, a Marghera si scontrano con la polizia, a Monfalcone occupano il municipio e la città, Milano ribolle un po' ovunque, a Mirafiori si sciopera in continuazione e ogni accordo firmato viene sconfessato con nuove richieste. Il «pendolo» della Fiom è tornato indietro, l'organizzazione rincorre la conflittualità operaia e se vuole rinascere deve cambiare. I «nuovi operai» rompono con la tradizione del movimento operaio e chiedono «tutto e subito»: per riconquistarli a una dimensione generale e politica il sindacato dei metalmeccanici deve farsi attraversare e stravolgere dalla loro cultura Così nascono i consigli e si apre la stagione più feconda del sindacalismo italiano del '900. Per tutti gli anni Settanta sono quegli operai il centro dell'azione politica, investono tutti gli ambiti dell'organizzazione sociale, strappano contratti prima impensabili che mettono al centro il controllo dell'organizzazione e dei ritmi di lavoro e l’aumento del salario reale, impongono un rinnovamento istituzionale e con loro devono fare i conti financo i governi. Il sindacato sarà innanzi tutto il sindacato di fabbrica da lì deve scaturire la linea contrattuale e politica, lì si misura ogni giorno (contrattazione per contrattazione) il peso del lavoro e la sua collocazione nel mondo. Il recupero del consenso operaio per la Fiom è difficile ma è l'unico banco di prova possibile e riesce anche attraverso una rivoluzione politico-organizzativa: nasce l'Flm, il sindacato unitario dei meccanici, un'occasione straordinaria di ritrovata unità del lavoro dipendente, per molti quasi una costrizione prodotta dall'azione dei consigli. Il «pendolo» ritorna in «attivo».
Restaurazione italiana
Per il capitalismo italiano è una situazione intollerabile: la controffensiva parte con le sperimentazioni tecnologiche e la finanziarizzazione dell'impresa ma per ribaltare i rapporti di forza serve una battaglia campale e un trauma. I 35 giorni dell'autunno '80 alla Fiat sono la controrivoluzione che annuncia l'era del liberismo: l'impresa riconquista il pieno dominio sulla forza lavoro, il «potere operaio» è cancellato come i consigli di fabbrica che l'incarnavano, le condizioni di sfruttamento riprecipitano al livello precedente il '68-69, gli anni Settanta sono archiviati. Per il sindacato è una sconfitta clamorosa ma sono in molti a non vederla o ad accettare con malcelato sollievo la rimozione politica di quegli operai conflittuali che pretendevano di dirigere tutto. Qualche anno dopo l'Flm si dissolve in una nuova divisione sindacale. Contemporaneamente tutta la società italiana ripiega su se stessa e accetta il primato del mercato. Il pendolo è bruscamente tornato indietro, per l’industria è l'era delle grandi ristrutturazioni: si annunciano gli esuberi, si chiudono gli impianti, la cassa integrazione dilaga. Gli operai non hanno più un ruolo generale, la politica li dimentica in fretta con la stessa velocità con cui li aveva votati a massa di manovra o consenso. Le istituzioni guardano principalmente alla finanza, per tutti c’è l'illusione della borsa. E' l'era del «siamo tutti imprenditori». Il sindacato si salva solo aggrappandosi al proprio ruolo istituzionale, accettando le compatibilità d'impresa (ne era stato preludio l'Eur e la politica dei sacrifici del 77), la logica della mobilità e quella dell'efficienza competitiva. Ma negli anni '90 si scopre lentamente che nemmeno il ruolo istituzionale basta a salvare l'organizzazione: il liberismo impone vincoli monetari strettissimi, i bilanci si risanano tagliando il welfare, il lavoro deve essere sempre più precario e flessibile: sono le imprese, ora, a volere tutto. Gli accordi sulla politica dei redditi sembrano l'unico salvagente possibile per le confederazioni sindacali, ma il prezzo per il mondo del lavoro è altissimo, dal punto di vista salariale come sui diritti. La Fiom ne è come scombussolata, entra in un nuovo tunnel buio da cui esce a metà degli anni '90 – il «sindacato indipendente e democratico» - rimettendo la condizione del lavoro al centro della propria azione. Un'operazione complessa perché i vincoli sono tanti, il sindacato diviso, la cultura aziendalista ha conquistato quasi tutta la sinistra. E perché il lavoro si è frammentato, non solo è più precario ma meno controllabile da chi lo fa. L'ancora di salvezza è ancora una volta la permeabilità, la capacità d'ascolto e di relazione con i lavoratori in carne e ossa il partire dalle loro condizioni, come è stato fatto alla Zanussi e alla Fiat, nella battaglia sul contratto nazionale anche a costo della separazione da Fim e Uilm, nello schierarsi contro la guerra in Kosovo o contro il G8 di Genova.
Tenere assieme in una sorta di confederazione dell'industria i ragazzi dei call center con i siderurgici, gli operatori informatici con gli operai dell'auto è impresa ardua. Come è arduo trovare un'unità d'azione con i nuovi soggetti del conflitto, opporsi alla portata distruttiva del liberismo; ma è l'unica possibilità per continuare a far risalire il «pendolo» ed essere ancora un soggetto «generale». Buon compleanno.
*Pubblicato sul manifesto del 16 giugno 2001