Lavoro: l'Italia è sempre più Neet
- Eleonora Maglia*
- Comunicazione
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In Italia, secondo le ultime rilevazioni Istat sulla forza di lavoro, gli under 29 non occupati e non in formazione, i NEET (Not in Education, Employment or Training) , sono pari al 24,1 per cento della popolazione giovanile, 2,2 milioni di individui (prima della crisi economica ammontavano ad 1 milione e 850 mila). Si tratta di un fenomeno che risente di forti differenze territoriali (al Nord e al Centro, la percentuale si attesta rispettivamente al 16,7% e al 19,7%, mentre al Sud supera il 34%) e di genere (è una situazione più diffusa tra le donne, per il 34,4% dei casi).
In questa situazione disfunzionale, il cui costo in perdita di produttività raggiunge quota 21 miliardi di euro (l’1,3% del Pil), è la famiglia a svolgere un generale ruolo di fattore di protezione per risorse e opportunità e sono soprattutto le reti informali ad avere un ruolo di rilievo nel processo (matching function) di ricerca (search) e di collocazione (match), con valori medi nell’intorno dell’80% e oltre al 90% quando l’età è superiore a 50 anni (90,3% dei casi), il titolo di studio posseduto è la licenza media (91,5%) e la cittadinanza è straniera (91,0%). Sono queste le variabili che incidono anche sulla probabilità di affrancarsi dalla condizione di NEET, che è maggiore (ma comunque pari solo al 26,7% dei casi) per il segmento di popolazione dei ragazzi laureati e residenti al Nord (Istat, 2018).
Risulta così che, tra i giovani, per un verso, vengano accettati impieghi che richiedono competenze inferiori a quelle possedute (sovra-istruzione), con i susseguenti rischi di insoddisfazione (“Il 38,5% dei diplomati e dei laureati dichiara che per svolgere adeguatamente il proprio lavoro sarebbe sufficiente un livello di istruzione più basso rispetto a quello posseduto: quattro giovani diplomati e tre giovani laureati su dieci”, Istat, p.113, op.cit.) e di svalutazione complessiva delle capacità iniziali. Per un altro verso, aumenti la propensione alla mobilità internazionale, come dimostra negli ultimi sei anni il triplicare dei flussi oltre confine rilevato dall’Istat, in percorsi di emigrazione che hanno inizio dopo i 20 anni di età e raggiungono picchi massimi dopo i 30, per fattori sostanzialmente economici: all’estero infatti i lavori sono più qualificati nel 6,8% dei casi e offrono migliori opportunità di carriera per il 21%. Dato che i nuovi posti di occupazione creati riguardano, l’accompagnamento all’uscita dal mondo del lavoro e interessano prevalentemente la classe di età 54-65 anni e visto l’aumento del ricorso a forme di lavoro flessibili e precarie, infatti, sono i più giovani a ricevere i trattamenti peggiorativi finalizzati a incentivare le assunzioni e l’allocazione lavorativa da parte delle imprese: “le imprese quando riducono il personale innanzitutto non confermano i rapporti a scadenza e quando non assumono quasi sempre utilizzano rapporti instabili“ (Reyneri, 2017).
A ciò si aggiunge, nel mercato del lavoro in Italia, la mancanza di dinamismo e di politiche industriali espansive dei settori competitivi e valorizzanti il capitale umano, nonché di investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione. In Italia, difatti, “la domanda di lavoro dei tre settori connotati da forte presenza di professioni intellettuali e tecniche (Pubblica Amministrazione, Istruzione e Sanità) è scarsa” (Reyneri, op.cit.) e, secondo l’Ocse, la percentuale di occupazione altamente qualificata italiana è attualmente il 4,78% del totale (quando in paesi come l’Irlanda supera il 14%).
Considerato che l’elemento caratterizzante della fase giovane della vita è la transizione, attraverso un percorso volto alla conquista dell’autonomia e dell’assunzione di responsabilità, in Italia l’attuale modello di passaggio all’età adulta è molto rallentato e, alle difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro dette sopra, si aggiungono i problemi di accesso ad una abitazione indipendente in un sistema di welfare nazionale complessivamente carente, in cui sono le famiglie stesse a integrare le politiche di attivazione, di sostegno al reddito e dei servizi di conciliazione tra lavoro e vita privata (Istat, op.cit). Il modello di uscita da casa che prevale nell’area europea mediterranea e continentale vede i giovani affrancarsi dall’abitazione dei genitori al momento del matrimonio e avere figli in un momento successivo a tale unione e, per la ricerca di una preventiva stabilità e le difficoltà nel raggiungerla argomentate, la permanenza dei giovani con i genitori si protrae.
L’Italia, relativamente all’occupazione giovanile descritta, si colloca agli ultimi posti nel panorama europeo, dove il fenomeno NEET è affrontato a livello sovranazionale con iniziative e strategie per l’occupazione e lo sviluppo (Europa 2020 e Youth on the Move) e la riduzione per gli inattivi over 15 si è ridotta di 793 mila unità nell’ultimo biennio (Istat, op.cit.). La situazione italiana risulta generalmente preoccupante, posto che, al di là delle specificità dei singoli Paesi, è comune il rischio di esclusione e di compromissione del benessere sociale.
La condizione di NEET rappresenta, difatti, un costo sociale, dal momento che lo spreco di capitale umano altamente qualificato riduce le prospettive di crescita, genera minori entrate fiscali e alimenta una più alta spesa sociale. A riguardo, si usa distinguere tra costi diretti, attinenti le spese sostenute a scopo ripartivo dalle istituzioni pubbliche (come la cassa integrazione), e costi indiretti, legati alla maggiore probabilità tra i NEET dell’assunzione di comportamenti deviati con ricadute anche sui livelli di salute e sulla spesa in protezione sociale.
Per diminuire i rischi di cronicizzazione di effetti multi-dimensionali (motivazionali, psicologici e relazionali) evidenti nella condizione di NEET, posto che “la disoccupazione di lunga durata è certamente la condizione che ha effetti più negativi sulle persone [..], nella letteratura si parla di effetti che lasciano cicatrici duratura (scarring effects) [..], le esperienze in età giovanile di disoccupazione di lunga durata hanno effetti negativi per tutta la vita sulle prospettive di guadagno, sul sentimento di soddisfazione generale per la propria vita e aumentano il rischio di esclusione sociale, diminuendo anche l’ottimismo per il futuro, [..], la vocazione civile” (Vitale, p.165, 2018), occorrono interventi preventivi, sia dal lato del mercato del lavoro, con un miglioramento della qualità dell’offerta e della domanda di lavoro e del loro incontro, sia sul lato educativo, con percorsi formativi e di apprendimento che colgano gli sviluppi tecnologici in atto.
In merito, in letteratura, una recente analisi sul tema (Corallino, 2018) propone un nuovo approccio, fondato sul cambiamento generativo e su una visione educativa ecologica che favorisca “un incontro favorevole e produttivo per tutte le parti sociali, quali, soprattutto, giovani e adulti, istituzioni e comunità” (p.262), posto che “i giovani chiedono un approccio che li renda capaci e liberi di separare e interconnettere, di analizzare e fare discernimento tra le conoscenze acquisite e davanti a quelle nuove” (p.265). Questo tipo di prospettiva –basata su “figure professionali disponibili al potenziamento; una leadership delle possibilità; un cambio di azione dai bisogni alle passioni” (p.274) –, integrando diverse identità e progettualità che muovano dal basso e prospettando così un cambiamento nel modo di far fronte a realtà, sembra particolarmente promettente per delineare una nuova organizzazione sociale adatta a sostenere processi di innovazione e più in sintonia con la nuove necessità sociali manifestati dalla fascia più giovane della società.
L’opportunità di un approccio così strutturato risulta promettente, soprattutto riflettendo sulla diversificazione operata dalla crisi economica dei rischi e dei bisogni, anche considerate le evidenze positive documentate in letteratura del ricorso a integrazioni del sistema di protezione sociale, in ottica cooperativa, con l’attivazione di una platea ampia e diversificata di attori sociali (tra cui il sistema imprenditoriale, le fondazioni, gli enti del Terzo settore e le forme di cittadinanza attiva), la cui spinta può incidere in modo favorevole anche sulla pesante situazione giovanile i cui contorni sono stati illustrati in questo articolo.
Propositivamente, nel tema in esame, si tratterebbe dunque di promuovere l’occupazione giovanile investendo sulle reti territoriali che promuovono progetti di investimento sociale, definibili di innovazione sociale (non tanto di prodotto, quanto di processo) e ritenuti rilevanti ed incoraggiati a livello comunitario (Sabato et al., 2015), in virtù della funzione fondamentale che svolgono, nei casi di fallimento del Mercato e dello Stato, per soddisfare bisogni altrimenti insoddisfatti e creare valore aggiunto altrimenti impossibile, migliorando la situazione dei beneficiari in termini di maggiore resilienza. Questo aspetto risulta, in effetti, particolarmente centrale nei processi di innovazione sociale, dove la teoria della resilienza, focalizzandosi sull’importanza di una analisi sistematica delle criticità emergenti, degli interventi possibili e degli effetti ottenibili, pone l’accento sulle esigenze di monitoraggio e di valutazione e gli studi correlati individuano come fattori facilitanti i sistemi di governance poco gerarchici, la partecipazione e il coinvolgimento in ottica multi-stakeholder, l’attitudine all’apprendimento e alla sperimentazione e gli elementi di affidabilità, leadership e capacità relazionali tra gli attori.
*Sbilanciamoci.info