Domenica, 22 Dicembre 2024

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Auto, 24mila esuberi. Gli operai al governo . Un piano per l’elettrico

«II Common Rail lo abbiamo industrializzato per primi noi alla Bosch di Bari. Erano gli anni Novanta e stavamo all'avanguardia nel mondo. Oggi facciamo ancora diesel, un prodotto finito. Senza un piano, una visione verso il futuro la fabbrica nel giro di poco avrà almeno 600 esuberi su un totale di 1.800 dipendenti». Vito Piazza è tra i primi a intervenire nella sala Di Vittorio del palazzone Cgil. È uno degli oltre 170 delegati Fiom del settore auto che partecipano all'assemblea nazionale. Dove un tempo, immersi nella nebbia delle sigarette, si discuteva di contratti oggi si parla di come "guidare il cambiamento".

Operaie e operai arrivati a Roma da tutto il Paese per guardarsi negli occhi e ragionare sul loro futuro. Uno scenario da brividi narrato perfettamente dalla "parabola" della Bosch di Bari, fucina appunto del rivoluzionario sistema di alimentazione dei motori diesel, e da altre decine di storie: le incognite negli stabilimenti Fca per la fusione con Psa, le multinazionali "mordi e fuggi", aziende come la Blutec di Termini Imerese o la Iia di Avellino che non riescono a rialzare la testa, l'indotto emarginato. O dai numeri che Michele De Palma, segretario nazionale Fiom, snocciola nella relazione introduttiva: «A tutto novembre 2019 le ore di cassa integrazione nel solo settore della produzione auto sono arrivate a un totale di 42 milioni che, in assenza di un'inversione di tendenza, si trasformeranno in 24 mila esuberi sui 270 mila addetti complessivi (1,2 milioni considerando l'indotto, ndr)». Una crisi non esclusivamente italiana, visto che le previsioni sul mercato europeo danno per scontata, bene che vada, una ulteriore perdita del 2% nel 2020 dopo le precedenti frenate.

Ma proprio il nostro Paese è una enclave del declino. O, se vogliamo, del "ritardo" nella transizione verso il futuro, con il diesel che rappresenta ancora il 40% del parco auto circolante mentre, per dire, in Germania la crescita del mercato delle vetture elettriche cresce a ritmi del 68%. Sempre in Germania il 70% delle vetture immatricolate è di produzione tedesca, in Francia la produzione nazionale copre il 57%, in Italia circa il 25%. Il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, ha convocato per febbraio e marzo i gruppi di lavoro del Tavolo Automotive: politica, parti sociali e università si confronteranno su «sostegno alla domanda di mezzi di trasporto orienta ti sui nuovi standard tecnologici, energetici e di mobilità sostenibile», «supporto per lo sviluppo delle reti infrastrutturali», «sostegno all'offerta di mobilità e alla transizione tecnologica della filiera».

La rituale apertura di tavoli su tavoli. La risposta tardiva e di facciata agli allarmi lanciati da sindacati e imprese. «Mentre la Baviera, da sola, ha stanziato 50 miliardi per contribuire al progresso della produzione di batterie elettriche, il nostro governo è arrivato a mala pena a 100 milioni», evidenzia il presidente degli industriali di Vicenza, Luciano Vescovi. «Finalmente anche l'Acea, l'associazione dei costruttori europei, chiede interventi pubblici per sostenere la transazione. Era ora. Noi lo diciamo da molto tempo, oggi ancora manca una discussione pubblica sui cambiamenti della mobilità.

A cominciare dagli effetti sul mondo del lavoro», spiega De Palma riferendosi a Mike Manley, l'ad di Fca e presidente di Acea, che nei giorni scorsi ha auspicato dalla Uè agevolazioni per le colonnine di ricarica e incentivi per il rinnovo parco auto. «Il passaggio al motore elettrico che ha meno componenti di quello tradizionale - ha avvertito Manley - avrà un impatto significativo sull'occupazione (per ogni 100 addetti necessari a costruire un motore a scoppio, ne bastano 25 per l'elettrico, cioè il 75% in meno, ndr}.

E non è un problema dell'industria in sé, ma una questione ben più ampia». Colmare quel deficit occupazionale del 75% sarà impresa ciclopica, soprattutto per un Paese, come il nostro, alla ricerca della politica industriale perduta. «Pesano le mancanze dei governi e i ritardi tecnologici dell'unico produttore nazionale, la Fca - dice De Palma -. Allora sfidiamo noi politica e imprese chiedendo la riforma degli ammortizzatori sociali, una riduzione degli orari di lavoro per l'utilizzo dell'intera capacità produttiva installata, un investimento serio e consistente nella formazione».

Quando sul palco sale Lucia Selmi, felpa rossa della Fiom, a raccontare le preoccupazioni dei lavoratori della Meta System, il cerchio si chiude: dopo le fabbriche del Sud e gli stabilimenti Fca, l'allarme arriva anche dalla "meravigliosa" Motor Valley emiliana. «Tra Reggio e Varese siamo in 750 e produciamo componentistica elettronica. Nell'ultimo decennio siamo passati dal fondatore reggiano ai fondi finanziari e, infine, alla proprietà cinese. Riforniamo Porsche, Psa, Bmw e Fca, però da tre anni chiudiamo i bilanci sempre più in rosso, mentre in Cina la proprietà ha costruito un capannone esteso un chilometro quadrato per la pro- dazione di caricabatteria. Il futuro ci preoccupa, ma non molliamo la lotta».

L'assemblea era iniziata con un minuto di silenzio per Guido Rossa, il sindacalista di Italsider ucciso dalle Br 41 anni prima, e con la citazione di una frase di Bruno Trentin: «Dobbiamo rilanciare un grande progetto per nuovi vettori elettrici ed altri ad emissioni zero, per reti di mobilità pubblico-privata, insomma per una città mobile al posto della troglodita ed arcaica auto-mobile».

Il leader Cgil lo diceva nel 1994 e l'attualità di quelle parole visionarie è la misura degli incolmabili ritardi italiani.

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La Fiom è il sindacato delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Cgil

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