Il lavoro ha sempre riempito di sé il mondo reale. Cionondimeno, in età pre-industriale il lavoro non incontrava il diritto se non confondendosi con la povertà laboriosa che, se e quando ce ne fosse l’opportunità, era gratificata dall’attenzione caritatevole di beati possidentes benpensanti; mentre la povertà oziosa e pericolosa, come quella dei mendicanti e vagabondi, era castigata con la forca. Infatti, il processo di formazione storica del diritto del lavoro non ha potuto avviarsi anteriormente alla comparsa della razza degli uomini cui viene riconosciuta la libertà di gestire i propri interessi esercitando l’autonomia negoziale. Quegli uomini erano liberi nel senso che avevano la libertà di cessare di esserlo. Per soddisfare i bisogni primari della sopravvivenza, acconsentivano di trasformare la propria esistenza in un’unità temporale quantificata vendibile sul mercato. Pertanto, nella prima modernità il lavoro entra stabilmente in contatto col diritto per essere mercificato come entità distinta e separata dal soggetto che lo esegue; e vi entra nel momento stesso in cui la morale corrente smette di tollerare la mercificazione del prestatore in carne ed ossa, schiavo o servo della gleba che fosse, ma aderisce al principio per cui “tutti i redditi devono derivare dalla vendita di qualcosa”. Secondo Karl Polanyi, nei suoi effetti il cambio di passo è simile al gesto di Eva, dopo il quale il mondo non sarebbe stato più lo stesso.
Il contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato traumatizzò intere generazioni di artigiani non più del tutto artigiani: dopotutto, un uomo, prima di essere un produttore, è un uomo, è un marito, è un padre. Santa innocenza: non sapevano che la prospettiva occupazionale di massa aperta dall’avvento dell’industria sarebbe stata la sola in grado di soddisfare una domanda di sicurezza che aumenta via via che appare impossibile procurarsi da vivere onestamente se non, per l’appunto, lavorando all’altrui servizio. Tant’è che, proprio il consolidarsi della percezione che il contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato era la scialuppa di salvataggio su cui salire porterà l’homme de travail a reclamare garanzie d’inaffondabilità del natante, pretendendo meccanismi di difesa contro il rischio di essere licenziato ad nutum. Per questo, il senso di smarrimento d’allora colpisce oggi milioni di individui alle prese con la crescente difficoltà di poter lavorare all’altrui servizio in base ad un vincolo consensuale di durata virtualmente illimitata.
Completamente diverso, tuttavia, è l’originario orizzonte di senso del contratto di lavoro dipendente sine die. Quest’ultimo è diretto a soddisfare l’esigenza, che il capitalismo industriale considera irrinunciabile, di pianificare l’impiego di forza lavoro all’interno di macro-strutture della produzione di serie. Un’esigenza, però, che lo ius conditum non asseconda. I codici civili dell’epoca, infatti, vietano l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato senza un termine prefissato e puniscono la violazione del divieto con la più drastica delle sanzioni conosciute dal diritto dei privati: la nullità del contratto che li istituiva. Questa specie di anatema laico non sarebbe stato lanciato se non ci fosse stata in giro la paura, se non del ritorno della schiavitù, di una rifeudalizzazione strisciante dei rapporti sociali: dopotutto, era ancora fresco il ricordo del perché la Bastiglia era stata assaltata e conquistata.
E’ stato un madornale errore trascurare che il corpus delle regole del lavoro necessario per far funzionare l’impresa industriale è figlio di una trasgressione generalizzata. Questo dato empirico, infatti, costituisce la prova inconfutabile che il minuscolo corpus normativo nasce dal basso. Nasce dalla concretezza dei bisogni e dal loro manifestarsi con l’imprevedibilità e l’irresistibilità dei movimenti tellurici. Per questo è corretto rappresentarsi l’apparire del germe del diritto che dal lavoro prenderà il nome come l’emergere di un isolotto in mezzo ad un fiume in piena. Ormai, è mia abitudine farlo, perché l’accostamento descrive bene come siano andate le cose.
Come l’insula in flumine nata è acquistata a titolo originario dal proprietario del fondo, così l’incontro del lavoro col diritto si risolve in un accrescimento per accessione del preesistente diritto comune dei contratti tra privati.
Difatti, per nulla intimidita dalla plateale illegalità del contratto che stava calamitando l’interesse degli operatori economici più intraprendenti, la giusprivatistica se ne occupa senza avere il più pallido sospetto che sia una forzatura imbullonarlo al diritto dei contratti. Sarebbe tuttavia da superficiali dedurne che fosse indifferente al costo sociale del passaggio alla modernità: lo sconvolgimento di modelli e stili di vita quotidiana di una quantità incalcolabile di persone; niente di più, ma neanche niente di meno. Tutt’al contrario, è presumibile che lo giudicasse non solo inevitabile, ma anche salvifico presagendo (o scommettendo) che avrebbe procurato benefici a tutti nel medio-lungo periodo. Per certo, se non l’impassibilità davanti alle cronache del presente, la fiducia nel progresso raggiunge il top quando, incurante che il licenziamento possa essere un capriccio del suo autore, mentre per il licenziato è per ovvie ragioni sempre un dramma, la giusprivatistica non esita ad equiparare la libertà personale dell’operaio alla libertà economica dell’industriale. “Sta in diritto”, dicevano gli operatori giuridici dell’epoca, che il lavoratore può essere licenziato con la sola remora del preavviso. Ma non era vero. Era vero, invece, che il legislatore tutelava l’interesse dell’homme de travail alla durata predeterminata dell’obbligazione di lavorare alle dipendenze dell’homme d’argent. Alla fin dei conti, “chi si fa servire non serve”; ergo, “la legge non è scritta per lui”. L’obiezione è assennata e qualcuno l’aveva formulata, ma restò isolata e alla fine venne espulsa anche dal senso comune. Eppure, per realizzare il principio della temporaneità del rapporto di lavoro dipendente non è indispensabile assegnare ad entrambe le parti la facoltà di recesso unilaterale: è sufficiente che ce l’abbia la parte a vantaggio della quale il principio viene sancito. La verità è che il nascente sistema industriale era vitalmente interessato a disporre di una cassetta degli attrezzi provvista di quello che non si è mai smesso di considerare come il più efficace sostegno del potere di comando nei luoghi di lavoro: la licenza di licenziare.
Sebbene la situazione fin qui descritta sia ascrivibile all’epoca in cui la principale fonte regolativa del rapporto di lavoro era l’autonomia negoziale privato-individuale, essa non subirà modifiche radicali in seguito né alle ottocentesche legislazioni sociali d’ispirazione bismarckiana né ai primi concordati di tariffa.
Anche nei suoi periodi più felici, l’autonomia negoziale privato-collettiva delle coalizioni operaie è stata largamente influenzata dall’egemonia d’un orientamento di pensiero che riconosce prioritario il soddisfacimento d’un’aspettativa che, nel linguaggio corrente, si definirebbe un sogno proibito siccome roba dell’altro mondo o troppo bello per essere credibile. L’aspettativa, condivisa dalla generalità dei datori di lavoro, è quella di poter contare su di una manodopera non solo docile, ma anche pronta a identificare il proprio interesse in quello dell’impresa secondo l’insindacabile valutazione che ne dà il titolare della stessa e, sempre nel segno di questo superiore interesse, licenziabile a costo-zero o a modico costo. L’aspettativa non solo trova comprensione tra gli stessi lavoratori e i loro sindacati più di quanto si possa immaginare. E’ anche protetta da governi e parlamenti. Infatti, il principio-base più funzionale al sistema del profitto d’impresa che in Italia sarà codificato nel 1942 fa del lavoratore un soggetto che può perdere il posto anche senza giustificato motivo, ma in costanza di rapporto è tenuto a collaborare con l’imprenditore e ad ubbidirgli, a non tradirne la fiducia ed essergli fedele.
Da parte sua, la legislazione “crocerossina” delle origini è la contro-scarpa etica del rude primitivismo delle regole del lavoro comunemente praticate. E’ una legislazione di soccorso, animata dal proposito di incivilire lo scambio tra lavoro e retribuzione. Muove sì dal presupposto che, mentre il contratto di lavoro riguarda l’avere dell’imprenditore, per il lavoratore riguarda il suo essere. Però, la consapevolezza che l’impatto delle regole del lavoro sulla vita delle persone eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto di scambio tra privati è messa impropriamente al servizio della finalità di governare la conflittualità sociale. Una finalità che si realizzerà compiutamente nel tempo della Guerra Fredda, della contrapposizione cioè tra paesi occidentali e Urss. Toccherà perciò al costituzionalismo del secondo dopo-guerra – soprattutto alle costituzioni dei “vinti”, quella italiana del 1948 e il Grundgesetz del 1949 – sviluppare in forma articolata e in termini vincolanti la formula ad elevato tasso etico-politico “il lavoro non è una merce”.
Era stata la Dichiarazione di Filadelfia del 1944 a lanciarla nel firmamento delle idee giuridiche. Ma, se non fosse stata sponsorizzata dall’ormai secolare istituzione ginevrina, che ne ha fatto la bussola del suo agire a livello internazionale e del suo stesso essere, e – soprattutto – se gli Stati-nazione non l’avessero sostanzialmente recepita nelle loro costituzioni per solennizzare l’obbligo di garantirne l’effettività, sarebbe rimasta un masso erratico e l’età della demercificazione del lavoro non sarebbe nemmeno iniziata.
Dunque, il passato racconta che il lavoro non bussò alla porta della storia giuridica soltanto per farsi incartare nel cellophane delle categorie logico-concettuali del diritto dei contratti. Anzi, il diritto cui darà il nome non sarebbe diventato uno dei pochi esempi del progresso della cultura giuridica del ‘900 senza le leggi, le sentenze e i contratti collettivi che hanno dato attuazione come hanno potuto ai progetti costituzionali di una società meno diseguale e più giusta.
Tuttavia, il tempo dei festeggiamenti è finito da un pezzo. Anzi, si cadrebbe senz’altro nell’agiografia se si trascurasse che la cultura giuridica ha seguitato fino ai nostri giorni ad esprimersi con un linguaggio che conserva vistose tracce del preesistente dominio della concezione mercantile del lavoro.
E’ l’indizio meno controvertibile che il passato non vuole passare e il rimosso può ritornare.
Quando si dice (e si ripete) che il lavoro dedotto in contratto è un bene economico il cui valore è ragguagliabile in moneta, può darsi che si ritenga in buona fede di usare parole innocue. Viceversa, sono pietre. Di fatto, si stabilisce esplicitamente una interconnessione con la sfera dell’economia dove il lavoro è oggetto di sfruttamento per ricavarne un profitto in conformità con le regole di funzionamento del mercato cui è assegnato il ruolo di principio ordinante della vita economica. Quindi – anche se non ne percepiscono l’ambiguità – i parlanti si servono di modi di dire dai quali traspare una rappresentazione della realtà appiattita su quella evocata. Il che significa che usano metafore culturali che, rivelando la porosità del confine tra il mondo dell’economia e il mondo del diritto, retro-agiscono sulla sostanza. Proprio per questo, può dirsi che era scritto che potesse accadere quel che sta accadendo oggi. E, oggi, il lavoro ripropone di sé l’immagine esibita per millenni, come se all’evoluzione normativa che lo ha interessato nel ‘900 avesse reagito come una lastra di marmo all’acqua che le scorre sopra.
Culturalmente sbiadito nella stessa misura in cui era stato mitizzato come mezzo di emancipazione, è finito nella centrifuga della flessibilità e della precarietà che gli toglie persino l’attitudine a servire come mezzo di difesa contro la povertà.
Da quando destra e sinistra sono diventate categorie del pensiero da codice della strada, è ridiventato politicamente ininfluente.
Giuridicamente è deregolato.
Non che siano diminuite le occasioni di suoi incontri col diritto. Deregolazione, infatti, non significa minore quantità di regole giuridiche: “significa”, come ha scritto Stefano Rodotà, “meno regole di provenienza pubblica”. Significa più libertà di auto-determinazione a livello individuale e meno controllo da parte dei poteri dello Stato, incluso quello giurisdizionale. Significa subire l’instaurarsi di un clima di ricatto generalizzato dove lo scandalo del non-lavoro rende attraente anche il lavoro più scandalosamente sfruttato. Significa rilegittimare le tradizionali asimmetrie che fanno del rapporto di lavoro un rapporto tra diseguali e crearne di nuove.
Una delle più frequenti che altera profondamente la dinamica della formazione degli standard protettivi è quella tra la crescente mobilità delle imprese e la persistente limitata mobilità del lavoro. Mentre in precedenza l’impresa non poteva non patteggiare le condizioni d’uso del lavoro, perché la fisicità dei suoi legami col territorio esercitava una forma di coazione a negoziare e siglare accordi cui poteva sfuggire solo praticando il crumiraggio, che si dovrà mettere fuori legge, adesso se ne sottrae spostandosi nei paesi dove il lavoro crea meno problemi: costa meno ed ha meno diritti. Vero è che anche là si fanno e si faranno scioperi, si firmano e si firmeranno accordi, si rivendicano e si conquisteranno diritti sia individuali che collettivi. Tuttavia, l’an e il quomodo del processo evolutivo non sono affatto scontati e nessuno è in grado di prevederli con precisione. Nel frattempo, i paesi di vecchia industrializzazione vengono trascinati nello psico-dramma del darwinismo normativo che premia il sistema giuridico più competitivo ovvero più avaro nel trattamento della manodopera.
In queste condizioni, si comprende perché al giorno d’oggi non ci sia statista dell’UE che, ad imitazione del collega francese di parecchi anni fa, abbia la faccia tosta di dichiarare con accenti degni della migliore arte oratoria: “La justification de l’Europe c’est sa différence”. Adesso che i suoi imprenditori hanno la libertà si scegliere nel mazzo dei tipi contrattuali in cui è deducibile una prestazione lavorativa quello più redditizio e alle imprese globalizzate è consentito amare non tanto le regole di mercato quanto piuttosto il mercato delle regole, è lecito chiedersi se il lavoro sia ancora il valore fondativo che è stato nell’Occidente. Soltanto papa Francesco se ne dichiara ancora convinto.
Passaggi d’epoca
Da almeno un trentennio è in corso un mutamento di paradigma del diritto del lavoro, dove al riequilibrio della diseguaglianza verticale tra chi sta in alto e chi sta in basso, è preferita la tutela dell’uguaglianza orizzontale tra insiders e outsiders da perseguire attraverso una riduzione di tutele per gli occupati. C’è chi condanna il cambiamento di rotta in ragione della de-valorizzazione del lavoro che implica, ma c’è anche chi lo giustifica. Se fino a ieri ad un sistema produttivo rigido corrispondeva un diritto del lavoro provvisto di altrettanta rigidità, non si vede perché alla lean production non debba corrispondere un diritto del lavoro altrettanto snello. Come dire: l’attuale Grande Trasformazione si concluderà come quella precedente, ossia con una giuridificazione delle regole del lavoro coerente col principio di razionalità materiale incorporato nelle strutture della produzione.
C’è qualcosa che non quadra in questo ragionamento o bisogna rassegnarsi al fatto che la storia non si può esorcizzare?
Nell’arco di un secolo, o giù di lì, il sistema produttivo ha sprigionato coercizioni di segno opposto: uniformante l’una, deflagrante l’altra. Entrambe hanno gettato un’infinità di uomini e donne privi di fonti di sostentamento diverse dalla capacità di lavoro nella condizione di aggirarsi in un mondo divenuto improvvisamente ostile con mappe invecchiate.
La prima si dispiegò in presenza delle codificazioni dell’800, manifestandosi attraverso la Grande Trasgressione da cui tutto iniziò, quando il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato si appropriò di quella centralità che oggi sta perdendo. Dopo avere travolto il divieto di obbligarsi ex contractu a “svolgere la propria opera all’altrui servizio” senza limiti di durata, la coercizione uniformante è stata legalizzata dal codice civile del 1942 là dove stabiliva che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”. Il che ha potuto accadere perché questo contratto di lavoro si era già guadagnata la desiderabilità sociale che non aveva agli occhi di artigiani (o discendenti da artigiani) che, ammassati nelle manifatture, idealizzavano il lavoro libero-professionale di cui avevano memorizzato i vantaggi che ne facevano un’aristocrazia senza quarti di nobiltà. Il fatto è che in ogni evento, anche il più negativo, è dato cogliere risvolti positivi ed anche l’homme de travail aveva un poco alla volta imparato ad apprezzare la prassi delle assunzioni sine die, per quanto illegale. Infatti, se l’imprenditore arricchiva la cassetta degli attrezzi per governare le maestranze in conformità a regole che normalizzavano l’uso standardizzato della forza-lavoro nelle macro-strutture della produzione, il dipendente trovava motivi di soddisfazione nella ricompensa che riceveva per i sacrifici della libertà personale imposti dall’obbligo di metabolizzare l’imperativo della regolarità dei ritmi del lavoro della fabbrica. La ricompensa consisteva nell’insieme dei benefici ricollegabili alla tendenziale stabilità del rapporto contrattuale, a cominciare dalla continuità del reddito. Non per caso, la coercizione uniformante si dispiegò in un contesto che non era caratterizzato solamente dalla passiva assuefazione ai mutamenti delle condizioni di vita che irretisce l’essere umano quando vede che tutti vivono nello stesso modo. Anzi, va detto che alla creazione del nuovo ordine parteciparono attivamente coalizioni degli stessi individui che non potevano fare altro che subirlo. Diversamente, non si spiegherebbe come mai il contratto collettivo sia stato la creatura giuridica più coccolata dai governanti della prima metà del ’900. Il fatto è che essi avevano lucidamente intuito come una regolazione di matrice consensuale che mimava la legge e ne mutuava la sostanza autoritaria fosse proprio ciò che occorreva per promuovere la diffusione di un modello di contratto/rapporto di lavoro afflitto, all’inizio, da un esteso deficit di condivisione sociale. In questa maniera si semplificavano i problemi della gestione della manodopera, comprandone il consenso, e nel contempo la si metteva nelle condizioni di verificare come una sciagura potesse trasformarsi in un’opportunità.
La coercizione di segno opposto, quella deflagrante, ha cominciato a manifestarsi nella lunga fine-secolo che abbiamo alle spalle e non ha ancora raggiunto il suo esito conclusivo. Intanto, però, è stata legalizzata e anche lo smisurato sventagliamento per via legislativa di forme di rapporto di lavoro distanti anni-luce dal modello standard si è giovato di quote di consenso incassate per via collettivo-sindacale. E ciò, per quanto non sia risolutivo, costituisce di per sé un solido sostegno della tesi secondo la quale, se l’indesiderabilità sociale del contratto a tempo indeterminato ha potuto soltanto ritardarne il successo, la desiderabilità sociale della sua durata virtualmente illimitata potrebbe alla lunga non bastare ad impedirne il calo statistico.
Comunque, il cambiamento di scenari è ancora in corso. La revisione dei diritti nazionali del lavoro procede a strappi, con la cautela necessaria non solo per soddisfare l’esigenza del “politicamente corretto”, ma anche per concedere il tempo dell’adattamento che i comuni mortali non smettono di richiedere. Il che però costringe i governanti a comportarsi in maniera contraddittoria, almeno in apparenza. Non smettono infatti di promettere una prospettiva occupazionale come quella aperta dal capitalismo industriale, ma al tempo stesso ne promuovono la disaffezione popolare escludendo che la stabilità reale sia un predicato dell’indeterminatezza della durata del rapporto. Il fatto è che, per poter catturare consensi elettorali, ma anche per ragioni d’ordine pubblico, devono sforzarsi di calmierare il panico delle aspettative calanti che afferrerebbe la gente sentendosi dire che si volta pagina, perché le basi materiali della cultura del lavoro possibile in una società industriale si stanno sgretolando. Preferiscono sentirsi dire che cicli avversi si sono presentati anche in passato, ma la catastrofe non c’è stata. Qui ed ora, esistono milioni di dipendenti over 40-45 anni, cioè il grosso della popolazione attiva, che l’attaccamento alla routine – per logorante che possa essere – ha reso ostili a pratiche di flessibilità. Per questo, bisogna aspettare che nell’immaginario collettivo non siano più considerate un disvalore da demonizzare, bisogna assecondare un colossale processo di mutazione antropologico-culturale, bisogna guadagnare tempo e intanto fare un po’ di pedagogia di massa.
Come dire: la transizione è davvero in-finita e, poiché gli effetti del passaggio dall’economia di scala all’economia di scopo hanno cominciato a mordere, i governanti devono ricorrere anche a stratagemmi. Infatti, quantunque la flessibilità coi suoi sinonimi o derivati padroneggi il discorso pubblico e privato, il fraseggio comune ai legislatori del tempo presente ripropone il mantra del “rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro”. La cosa si spiega. Il fatto è che in una visione di breve periodo – l’unica, per lo più, ad avere significato per i comuni mortali – ai governanti conviene occultare che, come calcolò Luciano Gallino, la coercizione deflagrante ridurrà l’agibilità dei contratti di lavoro sine die fino a farne un “numero chiuso”.
La percezione delle difficoltà di questa natura deve essere condivisa anche negli ambienti comunitari se è lì che la formula della flexi-security ha trovato la più autorevole sponsorship.
L’espressione linguistica, dico subito, non rimanda affatto ad una prospettiva demenziale. Anzi, muove dalla lodevole premessa che la relazione tra lavoro e cittadinanza può mettere a rischio diritti che non riguardano il lavoratore in quanto tale, bensì il cittadino che dal lavoro si aspetta un reddito dignitoso e, se un dio lo assiste, anche auto-stima e considerazione sociale. Ciononostante, in molti paesi dell’UE la flexi-security è più virtuale che virtuosa. Condanna all’obsolescenza larga parte delle tradizionali garanzie nel rapporto con onere a carico delle imprese in cambio di tutele nel mercato con onere a carico della fiscalità generale (il lascia balenare l’idea di una massiccia ridistribuzione del reddito magari preceduta da un inasprimento della progressività fiscale).
Come dire: la flessibilizzazione del lavoro si fa oggi; per la security, invece, si vedrà. Domani.
Insomma, siamo di fronte ad una trasformazione paragonabile, per entità e conseguenze stranianti, a quella cui diede origine il sistema produttivo che si sarebbe perfezionato col fordismo e da cui trassero origine gli istituti giuridici che ne costituirono la sovrastruttura servente. Come ogni grande trasformazione, quella odierna è accompagnata da una grande trasgressione e, come è già capitato, anche stavolta l’establishment ha dei problemi. Nondimeno, farebbe meglio a smetterla di banalizzarli, colpevolizzando il disoccupato: “se hai voglia di lavorare, un posto lo trovi sempre”. Di sicuro, già oggi e nel prevedibile futuro molto più che in passato, il moraleggiante discorsetto si scontra con la realtà. Per fare un esempio: i NEET (Not in Education Employment or training) non sono fantasmi. In Italia, sono quasi due milioni e mezzo. Un quarto della popolazione compresa tra i 15 e i 29 anni, pari al 24% dei coetanei (contro il 14% della media europea). Non studiano. Non hanno lavoro né lo cercano o hanno smesso di cercarlo, scoraggiati da paghe troppo basse o turni massacranti di 12 ore.
Non per caso miete consensi la proposta d’ispirazione beveridgiana di passare dalla garanzia del reddito di chi il lavoro ce l’ha alla garanzia del reddito spettante al cittadino che il lavoro lo ha perduto o lo cerca e non lo trova. Infatti, dato che nel post-industriale non basta accrescere gli investimenti di capitale per incrementare l’occupazione, ciò che deve cambiare è il modo di rapportarsi alla scarsità di lavoro . Come dire: poiché crescita economica, della produttività e dell’occupazione non vanno a braccetto, il problema non è soltanto il lavoro che cambia. E’ soprattutto il lavoro che manca: non più congiunturale, la disoccupazione rischia di trasformarsi in un dato strutturale.
Certo, è causa di sconcerto che le cose si siano messe in modo da incrinare la credenza che il lavoro dipendente sia l’unico strumento di riscatto possibile per moltitudini di comuni mortali e la promessa della piena occupazione non possa essere mantenuta. Sconcertati, del resto, erano anche i tolemaici, quando s’insinuò il dubbio che il pianeta terrestre non avesse mai avuto il privilegio di collocarsi al centro dell’universo. Né meno contrariati erano i creazionisti, quando si sparse la voce che l’uomo si è evoluto da progenitori comuni ad altre specie viventi attraverso processi di selezione naturale. Ma, alla fine, sia i tolemaici che i creazionisti hanno dovuto rassegnarsi. Oppure, come fecero i più vispi e intelligenti, si sono impegnati ad imparare a disimparare ciò che avevano appreso dai testi che avevano studiato. Lo faranno anche quanti, trascurando un’infinità di dati empirici, giudicano nichilista la tesi secondo la quale il passaggio al post-industriale ridisegna la società del lavoro e in particolare, nella misura in cui annuncia il tramonto della forma di lavoro imposta dal capitalismo industriale, ne mette in discussione la centralità nella scala dei valori condivisi dalla cultura, dalla religione, dallo stesso senso comune e, nel secondo dopoguerra, dallo stesso costituzionalismo democratico.
Ritorno al futuro
Diritto del lavoro è un insieme di parole che dice troppo e, al tempo stesso, troppo poco.
Dice troppo, perché il genitivo è provvisto di forza mitopoietica sufficiente per leggervi la sintesi descrittiva di un’epopea sociale che si sarebbe chiusa con la nascita di un diritto cui il lavoro darebbe nome e ragione. Un’epopea che, viceversa, non c’è mai stata.
Diritto del lavoro, però, è anche un’espressione reticente. Per molto tempo, infatti, ai miei studenti ho insegnato che quello del lavoro è il diritto dei lavoratori dipendenti tendenzialmente stabili. Per questo, del lavoro autonomo mi occupavo soltanto per segnalare come gli esclusi dalla tutela premessero sulle frontiere del diritto del lavoro dipendente. Peraltro, non senza successo.
E’ dalla metà degli anni ’80 che i contenuti dei miei corsi sono mutati e agli studenti è toccato ascoltare la narrazione degli effetti del passaggio al post-industriale. Infatti, è a loro che ho trasmesso nozioni sempre meno univoche e nitide via via che si consolidava un diverso modo di organizzare il sistema produttivo e si espandeva l’egemonia politico-culturale che esso era in grado di esercitare. Il fatto è che al diritto del lavoro, cresciuto avvitandosi su se stesso, veniva tolta la soddisfazione di godersi in pace la stagione della maturità. Una maturità che aveva raggiunto allorché aveva potuto esibire di sé l’immagine di un sistema normativo che, ribadita la marginalità del lavoro autonomo, esprimeva una pronunciata ostilità nei confronti della precarietà a vantaggio della stabilità, della flessibilità a vantaggio della rigidità, dell’individuale a vantaggio del collettivo. In questa maniera, era riuscito con passabile coerenza ad ispirarsi al principio generale per cui ogni contratto tipico ha la sua disciplina tipica. Infatti, il contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, sottoposto a regole tendenzialmente uniformi e sindacalmente protetto, veniva considerato il prototipo delle discipline dei rapporti contrattuali in cui si effettua lo scambio tra lavoro e retribuzione. In breve, era la stella polare del diritto del lavoro legificato, giurisprudenziale e negoziato in sede sindacale.
E’stato bello, ma è durato poco.
Infatti, il diritto che dal lavoro prende il nome ha smesso presto di prodigarsi per la soppressione di uno dei termini delle antitesi a beneficio dell’altro, ossia per la dominanza dei valori evocati dal termine privilegiato (subordinazione, stabilità, rigidità, collettivo). Il fatto è che i suoi concetti-base si erano logorati, perdendo la nettezza che ne generava l’antinomia e – saltati, uno ad uno, i restanti riferimenti culturali che ne determinavano l’identità – ha visto allargarsi l’area dei rapporti di lavoro d’incerta qualificazione giuridica. Non che si sia smarrita la nozione di bianco e di nero. Prevale il grigio, ecco tutto. Come dire: si è venuto formando uno spazio intermedio ricco di sfumature che spiazza la logica ultimativa delle dicotomie. Persino subordinazione e autonomia compongono una diadi che, se una volta rinviava a totalità contrapposte tendenti ad elidersi a vicenda, con crescente frequenza rinvia a situazioni che si collocano lungo una medesima linea continua.
Il fatto è che è cambiato il mondo del lavoro. Un mondo dove inimmaginabili sviluppi del progresso tecnologico generano discontinuità qualitative (del tipo: tramonto dell’operaio addetto al tornio o alla catena di montaggio come figura-simbolo di una stagione che pareva destinata a non finire mai) e quantitative (in termini di riduzione della rilevanza materiale del lavoro umano nei processi produttivi) che non vanno enfatizzate, ma nemmeno sottostimate. Un mondo dove il lavoro si declina al plurale. E questo è l’esito senz’altro meno prevedibile e più paradossale del gigantesco sforzo collettivo compiuto nel secolo XX per creare – diceva Antonio Gramsci – “con una coscienza del fine mai vista nella storia, e con ostinazione feroce, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo”. Fatto sta che, in Italia, i lavoratori del settore terziario, che oggi si attestano intorno al 70% degli occupati, sorpassano per la prima volta nel 1973 gli addetti all’industria e, tra questi, gli operai non sono più in larga maggioranza: ma tutto ciò era successo negli Usa con una ventina d’anni d’anticipo.
Ciononostante, si mantiene alta anche la visibilità del gap culturale di un sindacato che deve imparare ad agire sul diverso, sul disomogeneo, sul disperso. E, per riuscirci, anche lui deve imparare a disimparare. Disimparare che il sistema economico è stato per più di due secoli basato sulle strutture della produzione industriale standardizzata e massificata. Disimparare che possa resistere all’usura del tempo il predominio politico-culturale del soggetto sociale che funzionò come referente privilegiato tanto della legislazione sociale ottocentesca quanto delle codificazioni civili e delle stesse costituzioni post-liberali.
Durante il passaggio alla società post-industriale e dopo il crollo del Muro di Berlino che segnò la sconfitta del socialismo sovietico; in seguito alla finanziarizzazione del capitalismo e alla trasformazione dell’economia di scala in economia di scopo in un mercato globalizzato, uno sciame sismico ha sconvolto il panorama dei diritti del lavoro vigenti nei paesi dell’UE e, come fanno di solito i terremoti, ha lanciato una sfida. E’ la sfida della ricostruzione. Sennonché, l’idea di ricostruire il diritto del lavoro dov’era e com’era è meta-storica: dà per scontato ciò che non lo è affatto. Presuppone che tutti i discorsi (quello giuridico incluso) presto o tardi riprenderanno là dove si sono interrotti, come se il virtuoso rapporto d’interazione tra economia e democrazia praticato per alcuni decenni nella seconda metà del ‘900 fosse caduto in uno stato di latenza provvisoria. Presuppone che, una volta cessato uno sciopero degli investimenti di durata senza precedenti che ha fiaccato il sistema produttivo anche dei paesi europei dove il diritto del lavoro è nato, all’economia reale sarà restituita la centralità che aveva. Presuppone che il volume di produzione aumenterà creando nuova occupazione, mentre nel medio-lungo periodo la prospettiva è, se non la decrescita, una crescita contenuta e il progresso tecnologico creerà nuovi posti di lavoro in misura minore dei vecchi che distrugge. Presuppone che il lavoro occasionale, usa-e-getta, a chiamata sia un fenomeno transitorio e l’ascesa dell’Uber economy o dell’economia basata sul voucher possa essere arrestata con divieti legali, per eticamente doverosi che possano apparire.
Stando così le cose, l’alternativa che inchioda il pensiero giuridico-politico si profila con sufficiente chiarezza. O si accontenta di razionalizzare la regressione del diritto che dal lavoro ha preso il nome allo stadio di diritto di una transazione di mercato; e in questo caso aderirà ad una concezione parentetica dell’intervallo di tempo che separa la sua fine dal suo inizio, quando c’era soltanto il diritto del contratto di lavoro. Oppure, si propone di non disperdere gli effetti del formidabile cortocircuito determinato dall’incontro del lavoro con le costituzioni del secondo dopoguerra affinché possano continuare a prodursi per vie e con modalità consone ai radicali cambiamenti subiti dalla società nel suo complesso. In questo caso, però, è indispensabile che il pensiero giuridico-politico si procuri fin d’ora le antenne che gli permettano di elaborare la strategia necessaria.
Il dato da cui ripartire è che il diritto del lavoro del ‘900 ha consegnato alla storia delle idee giuridiche un referente sociale che si distingue nettamente da quello del diritto del contratto di lavoro. Non è il capite deminutus dell’età pre-industriale né l’eroe controvoglia dell’industrializzazione simboleggiato dal proletario. Non è l’artigiano espropriato della libertà di decidere cosa, come e quanto produrre né il produttore deresponsabilizzato a cui si richiede più obbedienza che consenso. E’ il cittadino che si obbliga per contratto a vestirsi da produttore per poter acquistare il pacco-standard di beni e servizi il cui possesso gli permette di essere o (il che è lo stesso) credersi un cittadino nella pienezza delle sue prerogative.
Questo c’era nella valigia del diritto del lavoro che si presentava alla dogana del nuovo secolo e questo gli hanno permesso di portare con sé. Il che equivale ad ammettere la possibilità di interventi dello Stato-provvidenza (nella forma che spetta ai decisori politici scegliere) a favore del cittadino che si trovi in una situazione di povertà assoluta o relativa.
In effetti, col suo insieme di premi e sanzioni, promesse e minacce, aveva contribuito a fare della povertà laboriosa la condizione subordinatamente alla quale lo Stato monoclasse avrebbe accettato che gli uomini col colletto blu e le mani callose si trasformassero da sudditi in cittadini, raggiungendo l’apogeo allorché le leggi fondative delle democrazie occidentali hanno identificato nel lavoro la fonte di legittimazione della cittadinanza. Per questo, nella società dei lavori i diritti di cittadinanza non possono non appartenere anche a chi cerca lavoro e non lo trova, a chi lo perde e a chi, più per necessità che per scelta, ne fa tanti e tutti diversi.
Insomma, non tutto è reversibile e sarebbe giusto riconoscere che il punto di non ritorno lo stabilì proprio il diritto del lavoro del ‘900.
Viceversa, con la complicità della cultura giuridica si è seguitato a non percepire che il riposizionamento del lavoro nelle zone alpine del diritto costituzionale aveva spezzato la tradizione di pensiero formatasi “nella prima modernità” durante la quale, come scrive Ulrich Beck, “dominava la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto sul lavoratore. Tutto era legato al posto di lavoro retribuito. Il lavoro salariato costituiva la cruna dell’ago attraverso la quale tutti dovevano passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo. La condizione di cittadino derivava da quella di lavoratore”.
Non che il lavoro non sia tuttora il passaporto per la cittadinanza. Però, la correlazione biunivoca tra lavoro e cittadinanza non può continuare ad avere l’instabilità di una barca con dentro un elefante. Adesso, cioè, l’homme situé – come direbbe Alain Supiot – non può più sovrastare il citoyen, rubargli spazio o cacciarlo nell’ombra.
Pertanto, come il lavoro industriale ha raggiunto il culmine della sua emancipazione allorché è diventato la fonte di legittimazione sociale dei diritti di cittadinanza, così – adesso che la fabbrica non è più uno dei grandi laboratori della socializzazione, l’informatica ha rivoluzionato la comunicazione di massa, la scolarizzazione è più diffusa e il progresso tecnologico ha diversificato la composizione qualitativa della forza lavoro cancellando vecchi profili professionali o creandone di nuovi – è alla cittadinanza che tocca riscoprirsi come il collante della società dei lavori. Insomma, poiché ogni paradigma scientifico in definitiva non è che “la finestra con la quale si guarda al mondo”, quella in cui si affacciano i giuslavoristi va perlomeno aggiornata. In effetti, non sanno immaginare i confini della protezione sociale se non ragionando in termini giuridico-formali di modalità di svolgimento della prestazione di lavoro dedotta in contratto. Dunque, è soltanto perché separano la subordinazione del prestatore dalla sua matrice sociologica (una volta si sarebbe detto: classista) che possono argomentare e giustificare la sotto-protezione del lavoro autonomo. Però, bisogna riconoscere che il prezzo della sua incontaminata purezza è uno strabismo che lo ha portato precocemente a concedere tutela a chi non ne ha bisogno e negarla a chi invece ne avrebbe. Il difetto è congenito, ma non è incurabile. Infatti, il costituzionalismo contemporaneo non conosce la summa divisio lavoro subordinato-lavoro autonomo. Piuttosto, si preoccupa di rimuovere situazioni soggettive di debolezza e disuguaglianza sostanziale comunque e dovunque si manifestino. Per questo, è un indizio di pigrizia intellettuale seguitare ad enfatizzare la centralità del lavoro dipendente nella forma standard ereditata dal Novecento, prolungandone la funzione di fulcro dell’insieme delle garanzie che danno corpo alla nozione di cittadinanza nel XXI secolo. Una cittadinanza, ormai, più industriosa che industriale.
Pertanto, il ritorno al futuro è raffigurabile graficamente come un contro-movimento, perché – esaurita la transizione dallo status al contratto, di cui Henry S. Maine colse per primo la portata rivoluzionaria, e incassato ciò che essa poteva dare – si dovrà tornare allo status. Uno status che, non potendo più coincidere con lo stato occupazional-professionale caratteristico dell’industrialismo, nemmeno può dipenderne. E’ lo status di cittadinanza riconosciuto e protetto da una democrazia costituzionale in una società post-industriale. Al tempo stesso, tenuto conto che “on restera nécessairement industrieux, si non industriel”, il diritto del lavoro dovrà “avventurarsi oltre le colonne d’Ercole fin qui assegnategli, confrontandosi con le attività lavorative di tipo squisitamente imprenditoriale, senza lasciarsi intimorire da tale qualificazione fin qui estranea alla sua prospettiva”.
Tutto ciò significa, in primo luogo, che la cultura giuridica del lavoro dovrà riallacciare discorsi, peraltro mai iniziati sul serio, col diritto del welfare pubblico finora modellato sul prototipo del lavoro culturalmente e politicamente egemone nella società industriale. Quello che verrà dovrà intensificare la protezione dello status di cittadinanza indipendentemente dallo svolgimento del lavoro “regolare” la nozione del quale è stata memorizzata da intere generazioni nell’arco di due secoli di esperienza industriale. Anzi, indipendentemente dalla stessa occupabilità.
In secondo luogo, il diritto “del” lavoro che, nella sua versione novecentesca, è stato il diritto della cittadinanza che venne definita industriale – perché (mi piace supporre) odorava di petrolio, sudore, vapore di macchine – dovrà inglobare il diritto “per il” lavoro inteso come il diritto della cittadinanza industriosa. Non è mai successo che il diritto del lavoro – né quello legificato né quello giurisprudenziale né quello di cui è artefice il sindacato – fosse sospinto a ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino. Sarebbe cioè la prima volta che, più attento ai valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali del cittadino, finirebbe per essere meno polarizzato sullo scambio contrattuale di utilità economiche e meno dominato dall’esigenza di disciplinare i comportamenti del lavoratore dipendente in conformità con gli standard di prestazione imposti al lavoro organizzato. Finora, infatti, ci ha abituato a vedere la dimensione mercatistica dello stato occupazional-professionale acquisibile per contratto che schiaccia la dimensione politico-istituzionale dello status di cittadinanza acquisibile secondo i principi del diritto pubblico. Le eccezioni non mancano. Ma sono eccezioni, per l’appunto.
Alludo alla concessione dei congedi parentali legislativamente disciplinati. Alludo alla vittoriosa rivendicazione sindacale, risalente alla prima metà degli anni ’70, delle “150 ore”. Alludo al negoziato concluso di recente dall’IG Metal. Unitamente ad un aumento retributivo del 4,2%, l’accordo valevole per le aziende metalmeccaniche concede ai lavoratori che hanno bisogno di maggiore tempo libero per accudire i figli o per risolvere altri problemi familiari la facoltà di adottare un orario settimanale di 28 ore. Un accordo che si presta ad una chiave di lettura estranea alla dimensione dello scambio. Se l’istituto contrattuale italiano delle “150 ore” riconosce ai lavoratori giovani e adulti in qualità di cittadini il diritto ad usare la scuola magari per immettervi contenuti formativi rapportati alla propria esperienza lavorativa, l’accordo tedesco riaccende la resistenza a vendere pezzi di vita di cui è sempre stata espressione la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro.
Si tratta di episodi che, per quanto significativi, fanno capire che siamo soltanto all’inizio degli scavi alla ricerca di quel che sta raggomitolato nel sottosuolo dell’età post-industriale per farne il calco sul quale rimodellare lo statuto giuridico del cittadino-lavoratore. Probabilmente, i materiali finora estratti non sono pregiati. Questa, però, non è una buona ragione per desistere. Anzi, se non avremo il testardo ottimismo del cercatore d’oro che setacciava l’acqua dei torrenti dell’Alaska per trovare nella fanghiglia una scheggia di metallo giallo, ci attarderemo per chissà quanto tempo a rimpiangere la cittadinanza industriale, senza sapere quel che la cittadinanza industriosa può dare.
*Relazione presentata alle XXII Xornadas de outuno de direito social
Il lavoro non è una merce, ma il “suo mercato” esiste
- Umberto Romagnoli*
- Comunicazione
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