Nel discutere della vita e del significato dell’opera sindacale e politica di Sabattini, la scorsa volta ho preso spunto dagli anni terminali, quelli tra la fine del’900 e l’inizio del nuovo millennio, quando insieme lavorammo alla possibile idea di una sinistra nuova. Eravamo stati su posizioni opposte pochi anni prima, al tempo della metamorfosi del Pci in altro da se. Sabattini aveva sperato che il superamento della logica leninista (giunta nella versione staliniana a concepire il nucleo dirigente come possessore della verità assoluta, con le conseguenze di una nuova Inquisizione) portasse a una maggiore capacità di ascolto della classe operaia e delle classi lavoratrici. Altri, tra cui anch’io, temevano, al contrario, che dietro il cambiamento di nome vi fosse una resa al sistema vincente e alle sue logiche. Quando Sabattini vide qual era il corso reale preso dal nuovo partito non esitò a cercare, fuori da ogni nostalgia, una strada nuova e perciò ci incontrammo e lavorammo insieme a un’associazione che voleva essere un invito a immaginare una forza politica a partire dalle classi lavoratrici organizzate in sindacato. Idea che gli valse dalla destra e dalla sinistra sindacale del tempo (ognuna convinta delle sorti magnifiche dei propri partiti di riferimento) quegli attacchi grossolani che lo feriranno profondamente, come ha ricordato Gianni Rinaldini.
Ma oggi vorrei partire dall’inizio, da quando durante gli studi universitari inizierà a frequentare il pensiero comunista critico della Luxemburg su cui, poi, scriverà la sua tesi di laurea. La tesi è successiva al ’68, perché Sabattini era già precocemente divenuto un dirigente politico, ma la passione per un pensiero diverso da quello della ufficialità di partito risaliva all’inizio degli anni ’60, ai tempi dei primi approfondimenti sulla storia del movimento operaio. Con l’interesse per la Luxemburg, si pose subito controcorrente rispetto alle vulgate di tipo marxista presenti a sinistra, leniniste o turatiane che fossero, il che segnava un bisogno di non fermarsi a ciò che pareva scontato. In quell’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, la guerra fredda - proclamata un decennio prima da Churchill con il consenso di un presidente americano (Truman) non più roosveltiano - pareva volgere a vantaggio del blocco sovietico: come si ricorda del ‘49 era stata la vittoria dei comunisti cinesi, del ’59 il successo della rivoluzione castrista, il monopolio atomico americano era finito, i sovietici erano i primi nello spazio e il loro mondo pareva capace di rigenerarsi con la rottura dello stalinismo operata da Krusciov. E gli Stati Uniti parevano riformare se stessi con il kennedismo anche per questi successi degli antagonisti. Dunque, pur se Sabattini non fu il solo tra i giovani, non era consueto, allora, e non era facile volgere l’attenzione a quelli che parevano gli sconfitti entro il movimento rivoluzionario del primo dopoguerra, come era stata la Luxemburg, partecipe e vittima della disfatta dell’insurrezione di Berlino.
Ci voleva passione e capacità non comuni per un giovane comunista vedere la fragilità e le storture di una costruzione che sembrava vincente, e per criticare indirettamente la stessa linea del Pci, senza cadere nella pura accettazione del contrapposto sistema capitalistico, senza aderire a estremismi sterili e senza rinunciare alla volontà di creare un mondo più giusto, come è invece avvenuto – sia detto in parentesi - alla maggioranza dei dirigenti della sinistra trenta anni dopo. quando venne la sconfitta e il crollo. Trent’anni prima ci voleva spirito critico e voglia di capire per prevedere che i successi nascondevano un guasto che minava le fondamenta. Nasce di qui e dalle conseguenze che egli ne veniva traendo nella materia dei rapporti di lavoro e dei rapporti sociali la tormentata vicenda di Sabattini nel mondo sindacale e la lezione che egli lascia e che dura. I contrasti che segnarono la sua storia furono quelli di chi cerca una prospettiva nuova per il sindacato, per il movimento operaio, per le idee di trasformazione sociale.
L’originario interesse per la Luxemburg richiamava innanzitutto alla sua preveggente critica alla soppressione della Costituente russa voluta da Lenin ma in pari modo gradita ai membri non solo bolscevichi dei soviet che diverranno, così, l’unico potere. Dal carcere tedesco in cui era rinchiusa lei vede che la soppressione della discussione tra diversi partiti corrisponde all’idea del comando di un partito unico entro i soviet formalmente al potere, il che avrebbe portato a un prevalere burocratico e alla rovina dei soviet, del partito e dello stato allora nascente – com’è puntualmente accaduto seppure nel lungo periodo e dopo prove indimenticabili, come quella della guerra mondiale, che furono utili all’umanità intera. In quello stesso tempo lontano del primo dopoguerra, però, anche la logica della democrazia diretta e della spontaneità rivoluzionaria delle classi oppresse avrà una prova catastrofica con la trasformazione di uno sciopero generale a Berlino in una insurrezione la cui sanguinosa sconfitta fu seguita dalla decapitazione del nascente partito comunista con l’assassinio della Luxemburg e di Liebnecht e rappresentò la fine dell’ipotesi di una rivoluzione tedesca.
Occuparsi politicamente di queste cose antiche sembrava allora, e ancor più adesso può apparire, un attardarsi su memorie polverose e inutili se non si pone mente al fatto che oggi, un secolo dopo, la crisi della liberal-democrazia fa ritornare con prepotenza quei temi su cui si affannarono i rivoluzionari di allora. Tanto che, qui da noi, si afferma elettoralmente un movimento che, usando strumentalmente le possibilità offerte dalla tecnologia, impugna la bandiera della democrazia diretta – sia pure con l’inganno delle presunte consultazioni continue in cui una minoranza esigua, ed esposta al controllo padronale sul sito di consultazione, dovrebbe significare la volontà dell’elettorato. In tal modo il parlamento in cui si siede in maggioranza viene considerato cassa di risonanza del capo santificato dal web, e ogni obiezione viene bollata come tradimento. E’ stato, sia detto di passaggio, un altro penoso errore di chi ne aveva commesso già molti rifiutarsi di discutere, come ha fatto il Pd, con questo movimento che mima la sinistra e che contiene tanti voti già di sinistra, almeno per fare emergere le cause della impossibilità di un accordo. Ed è stato un errore anche perché la somiglianza, notata da molti, con il tempo passato è completata dall’altro movimento vittorioso, formalmente opposto, ma insieme governante, che non fa mistero di riprendere temi come il nazionalismo sciovinista, l’ordine armato e il razzismo che furono cari al fascismo a partire dagli anni Venti e Trenta del ‘900. Dovrebbe essere chiaro che una saldatura di lungo periodo tra queste forze porterebbe, seppure con modalità differenti, a un avvenire, di cui già si vedono i segnali, simile al passato, che costò pene grandissime.
Non si tratta di un fatale ritorno storico ma degli esiti di una sconfitta delle forze, a partire da quelle che si dicono di sinistra, che per difendere la democrazia avrebbero dovuto avere la capacità di farla vivere secondo la sua letterale funzione che è quella di essere un governo del popolo e cioè uno strumento per la difesa di chi non ha potere, vale a dire per la difesa delle classi destinate alla subalternità in un regime a dominanza del capitale finanziario.
La lezione di Sabattini rimane attuale in primo luogo perché più che mai si è confermata come vera la prima esigenza che egli poneva al sindacato – ma non solo al sindacato – e cioè quella di conoscere a fondo le condizioni reali della classe operaia e delle classi lavoratrici e di far vivere il sindacato – ma non solo il sindacato – attraverso la verifica costante dei propri atti da parte di coloro che il sindacato vuol rappresentare. Il tema della consultazione prima e del referendum poi per la validazione contrattuale esprimeva questa esigenza che in termini astratti possono essere riassunti non solo come lo sforzo per un rapporto efficace tra rappresentanza e rappresentati, ma come metodo di saldatura tra democrazia delegata e democrazia diretta. Un metodo che nel campo sindacale sarà osteggiato dalle altre confederazioni sindacali maggiori ma che costituiva una smentita delle vecchie impostazioni che erano state proprie anche della Cgil.
Ma se il tema della verifica democratica procede con difficoltà estrema persino per quanto concerne l’accertamento della rappresentatività dei sindacati, esso fu ed è comunque presente nella discussione sindacale, mentre nella discussione dei partiti maggiori e minori che pure originariamente dichiaravano di voler rappresentare lavoratrici e lavoratori esso è scomparso del tutto, sostituito - con esiti spesso aberranti - dal dibattito sulle forme di elezione dei dirigenti anziché sul modo in cui i dirigenti comunque eletti si sforzano di conoscere la volontà, i desideri, le aspirazioni di coloro che vorrebbero rappresentare e sottopongono le loro scelte a verifiche democratiche non solo ogni quattro o cinque anni. L’organizzazione, l’ascolto diretto, la vicinanza alle lavoratrici e ai lavoratori vengono sostituiti dai sondaggi, ma è in tal modo che la maggioranza delle forze di sinistra comunque collocate, e non solo in Italia, sono venute perdendo il rapporto con il proprio stesso popolo fino a ignorare le conseguenze della crisi economica e della mondializzazione sulle classi lavoratrici, ivi compreso gran parte del ceto medio.
Qui da noi quella parte della sinistra che si credeva vincente, perché aveva immaginato il doveroso rinnovamento come incondizionata adesione al modello capitalistico, e si dimostrava la più solerte nell’applicazione delle norme neoliberiste, assunse come obiettivo addirittura quello di stravolgere le garanzie costituzionali per accentrare ancor più un potere ormai vessatorio (il jobs act e non solo) verso le classi lavoratrici, dato che l’idea stessa della esistenza delle classi era ormai considerata un vecchiume. E dato che la funzione dei corpi intermedi, innanzitutto il sindacato, veniva considerata obsoleta se non dannosa. Immaginiamoci cosa sarebbe oggi il potere politico dei vincitori delle ultime elezioni se quella aberrante idea, combattuta anche dalla Cgil, non fosse stata battuta.
Sabattini ha avuto le più alte funzioni nella confederazione e nella Fiom, come si sa, proprio quando, con la Thatcher e con Reagan, iniziava o meglio si veniva completando la controrivoluzione conservatrice che aveva come bersaglio Roosevelt e Keynes ancor più dell’idea socialista, identificata nell’avversario storico che stava tramontando. Egli veniva vedendo e sperimentando di persona il continuo arretramento delle conquiste e dei diritti sociali e capiva che una nuova fase durissima stava iniziando con la mondializzazione. Vede che la parcellizzazione del lavoro può portare alla crisi del sindacato e addirittura alla sua fine. Parve a molti una esagerazione la sua reiterata denuncia del fatto che si andavano ripristinando rapporti di lavoro ottocenteschi con una totale dominanza padronale. Ci si chiedeva come si potesse affermare una simile tesi quando, tra la fine del 900 e l’inizio del nuovo millennio, le sinistre moderate o i progressisti erano al governo dei maggiori paesi capitalistici dagli Stati Uniti all’Italia. Ma Clinton governava assumendosi la responsabilità di distruggere le ultime regolamentazioni sul potere finanziario imposte da Roosevelt dopo la crisi del 29, l’ideologo di Blair affermava che ormai le rivendicazioni avevano da essere puramente immateriali, Schroeder teorizzava la Spd come nuovo centro e governava di conseguenza, il centro sinistra italiano privatizzava e si accodava, assieme a Cossiga, alla guerra alla Serbia in nome degli albanesi perseguitati ma, in realtà, per aprire nel Kosovo strappato alla Serbia la più grande base militare americana del sud Europa.
La tesi dell’autonomia del sindacato non poteva bastare più. Auto-nomia vuol dire fissare da soli i propri obiettivi. Ma per lunga tradizione il sindacato, i sindacati, pur nell’autonomia delle loro scelte, avevano fatto parte di progetti collettivi di diversa ispirazione. Sabattini vede lucidamente che nella fase nuova il progetto collettivo cui si riferiva la Cgil e la Fiom stessa non teneva più. In Italia la caduta non solo del Pci, ma di tutti i partiti autori della Resistenza e della Costituzione creava un vuoto evidente. Ma anche dove i nomi rimanevano il quadro cambiava. In Gran Bretagna, ad esempio, le Trade Unions erano state all’origine di un partito, quello laburista, che aveva scritto nel proprio statuto l’obiettivo della proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, obiettivo cancellato sotto Blair. Una rottura non solo formale. In Germania il nuovo centro di Schroeder veniva picconando lo stato sociale. La realtà data dalla nuova fase creata dalla rivoluzione tecnologica e dalla globalizzazione, oltre che dai mutamenti soggettivi dei protagonisti della dinamica politica e sociale, chiedeva un sindacato ormai capace di definire un proprio progetto di società proprio al fine di mantenere la propria funzione di soggetto che afferma i diritti prioritari del lavoro in tutte le sue forme, a partire dal lavoro operaio. Ecco l’indipendenza del sindacato: che non ha niente a che fare con le meschinità polemiche che volevano interpretare la parola come separazione dalla Cgil. Al contrario era, come si vide, una proposta non solo per la Fiom ma per la Cgil e per il sindacato in quanto tale nel suo essere parte della società e nel definire in essa il ruolo del lavoro. Ruolo fissato in Italia dalla stessa Costituzione come fondativo della Repubblica, ma ormai svilito al punto che i lavoratori vengono nuovamente concepiti come una merce tanto più vile quanto più abbondante.
La promozione della Fiom diretta da Sabattini del movimento critico della globalizzazione diretta dal capitale finanziario era conseguente alla previsione che il mercato unico dei capitali - reso possibile dalla vittoria planetaria del modello capitalistico - senza alcun programma di distribuzione internazionale del lavoro e di salvaguardia dell’ambiente avrebbe portato, come ha portato, all’ulteriore arricchimento di pochi, all’immiserimento di molti nei paesi sviluppati, al supersfruttamento dei lavoratori dei paesi emergenti oltre che a una maggiore rovina ambientale. La demonizzazione di quel movimento, per conto suo informe, privo di una volontà e di un cervello comune nelle sue molte anime, esposto alle provocazioni, fu un danno grave: perché l’idea che il mercato aggiustasse tutto da solo ha generato una crisi economica devastante, ha separato grandi masse di lavoratrici e di lavoratori dalle idee di liberazione sociale, ha aperto le porte ai Trump e ai loro epigoni europei che rischiano di trascinare l’Europa, come è nella logica nazionalistica, nelle peggiori avventure. E’ con questa realtà che oggi tutti dobbiamo misurarci, singole persone e organizzazioni. Il ritorno all’indietro evidente nella svolta americana e nelle tendenze europee dette populiste ma cariche di autoritarismo e di razzismo è il segnale di una crisi di civiltà. Pensarne un’altra fondata sulla giustizia e sulla fratellanza e lottare per realizzarla è doveroso. Sabattini com’è ovvio appartiene al suo tempo. Ma la vitalità del suo sforzo di pensiero e l’esempio della sua passione per la causa lavoro è oggi più necessario che mai per resistere e andare avanti.
*Testo dell’intervento svolto all’iniziativa “Indipendenza, democrazia, Europa, nel pensiero di Claudio Sabattini”, tenuto a Roma il 17 novembre 2018
La preveggente indipendenza di Claudio Sabattini
- Aldo Tortorella*
- Comunicazione
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