Il dibattito economico e politico riporta l’attenzione sulla previdenza, sui suoi bilanci e sulle connessioni con le tendenze demografiche e i flussi migratori.
Poiché il compito dei sistemi pensionistici è trasferire agli anziani parte del reddito prodotto dagli attivi, è normale che l’aumento del rapporto numerico tra i primi e i secondi connesso all’invecchiamento della popolazione faccia crescere l’onerosità di questo trasferimento. Lo stesso accade se la quota di popolazione occupata e la produttività diminuiscono. Il fatto è che nell’ultimo quarto di secolo, specialmente in Italia, le politiche economico-sociali improntate alla piena libertà dei mercati e all’austerità dei conti pubblici hanno contribuito a tenere bassi sia il tasso di occupazione sia la dinamica della produttività.
Per quanto riguarda le tendenze demografiche, le nascite degli italiani, che negli anni Sessanta avevano superato il milione annuo, attualmente sono scese fino a meno della metà. Questo forte calo è stato parzialmente attenuato dal flusso degli immigrati che, peraltro, non è tra i più elevati in Europa: in base agli ultimi dati Eurostat riferiti al gennaio 2016, l’incidenza della popolazione straniera su quella totale è dell’8,3% in Italia, del 10,5% in Germania, del 9,5% in Spagna, dell’8,6% in Gran Bretagna e del 6,6% in Francia.
Fino al 2014, l’ingresso di stranieri è riuscito a impedire la decrescita della nostra popolazione, ma successivamente è iniziato il declino dei residenti, alimentato anche dalla ripresa delle nostre emigrazioni che includono molti giovani laureati. Il complessivo calo demografico contribuisce ad accentuare l’aumento del rapporto tra anziani e occupati e riduce le potenzialità della crescita economica. Le prospettive sono ulteriormente appesantite dal fatto che le previsioni economiche e previdenziali, finora basate sull’attesa – tra il 2015 e il 2020 – di un flusso annuo di immigrati oscillante tra i 270.000 e i 240.000, dovranno essere riviste in peggio se diventeranno permanenti le nuove barriere all’entrata che vanno affermandosi anche nel nostro Paese.
L’offerta di lavoro degli stranieri entra poco in concorrenza con quella degli italiani poiché corrisponde a mansioni, specialmente nei servizi, per le quali c’è poca disponibilità nella nostra popolazione attiva. Il calo degli immigrati potrebbe lasciare scoperte quelle funzioni con conseguenze negative sia per il sistema produttivo sia per le esigenze domestico-assistenziali delle nostre famiglie.
Effetti negativi sulla finanza pubblica e sulla qualità degli equilibri nel mercato del lavoro possono invece derivare dall’impiego irregolare dei lavoratori stranieri: per il venir meno dei contributi sociali e per il rischio che si diffondano un più generale degrado delle condizioni lavorative e un peggioramento delle relazioni contrattuali. Per contrastare questi rischi che interessano l’intero sistema economico-sociale, si rende necessario un forte e lungimirante impegno non solo da parte delle organizzazioni delle forze produttive, ma anche e soprattutto da parte delle istituzioni pubbliche tramite incentivi, regolamentazioni e controlli.
Sul piano specifico degli equilibri previdenziali, va tenuto presente che gli immigrati (regolarizzati) al momento versano contributi ben superiori alle prestazioni ricevute e il saldo netto positivo, intorno ai cinque miliardi di euro annui, è utilizzato per finanziare le pensioni degli italiani.
Data la loro composizione per età, che si concentra nella fascia lavorativa, gli immigrati pensionati attualmente sono pochissimi e se quelli attivi rimarranno nel nostro Paese fino all’età della pensione, in base alle regole vigenti, la riceveranno solo se riusciranno ad accumulare contributi lavorativi per almeno 20 anni e per un ammontare complessivo sufficiente a maturare una prestazione pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale.
Oltre a quella tra lavoratori italiani e immigrati, un’altra falsa e deleteria contrapposizione costantemente riproposta nel dibattito economico e politico è quella tra giovani e anziani, fondata sull’idea che le pensioni ricevute dai primi sarebbero un ostacolo alle prospettive di vita dei secondi. Questo contrasto d’interessi sarebbe evidenziato dagli squilibri finanziari attribuiti al sistema pensionistico e dai costi che richiederebbero alcune modifiche proposte per migliorare il suo attuale assetto. Questa contrapposizione non c’è; invece, avrebbe effetti negativi se fosse ritenuta vera.
Nell’ultimo quarto di secolo, la torta del PIL prodotto annualmente è cresciuta poco e specialmente nell’ultimo decennio, dominato dalla Grande recessione, è diminuita a causa dell’affermazione di tendenze (globalizzazione non regolamentata) e politiche (funzionali all’autonomizzazione dei mercati) che hanno penalizzato l’intera collettività a prescindere dall’età.
Ma specialmente quando il PIL cresce poco o addirittura si riduce, il mantenimento della coesione sociale e le politiche per la ripresa economica richiederebbero che il reddito disponibile fosse distribuito meglio (non peggio come invece sta accadendo). Meno che mai andrebbe penalizzata (come invece sta avvenendo) larga parte delle giovani generazioni entrate in età da lavoro già da un paio di decenni, alle quali non solo si è riservata la “sorpresa” di poter accedere solo a lavori precari e mal retributivi (pensavano che sarebbero stati meglio, non peggio, dei genitori), ma si prospetta loro per la vecchiaia un tenore di vita corrispondentemente compromesso.
Il rapporto tra pensione media IVS e salario medio è previsto in calo di circa dodici punti nel prossimo ventennio rispetto al valore attuale che, in base ai dati ufficiali convalidati dall’Istat per il 2013, è pari a circa il 50%.
Va notato che questo valore è molto inferiore all’85% indicato nella recente Relazione del Presidente dell’Inps alla presentazione del XII Rapporto annuale dell’Ente; peraltro, anche utilizzando i dati di base del Rapporto Inps, riferiti al 2017, il rapporto tra il valore medio delle pensioni IVS e la retribuzione media dei lavoratori di imprese private e pubbliche extra agricole risulta pari al 57%. In ogni caso, si continuano a sostenere politiche restrittive per il sistema pubblico (ma incentivando la previdenza privata), millantando una condizione deficitaria del suo bilancio (che, invece, dal 1996 presenta stabilmente un saldo tra contributi e prestazioni nette consistentemente attivo, pari a 39 miliardi di euro nel 2016).
Contemporaneamente vengono sopravvalutati i costi di possibili interventi che avrebbero effetti migliorativi sia per gli anziani che per l’occupazione dei giovani. Ad esempio, l’onere finanziario immediato derivante dall’abbassamento a 64 anni dell’età di pensionamento viene valutato in 18 miliardi nella Relazione INPS; tuttavia, in base alle proiezioni del Centro di Politica Economica e Sociale operante in “Sapienza”, anche se tutti gli aventi diritto decidessero di anticipare il pensionamento, quell’onere si attesterebbe intorno alla metà di quella cifra; comunque, il costo immediato derivante dall’anticipo di spesa sarebbe compensato negli anni successivi dal minor importo della prestazione liquidata ad un’età inferiore.
Le posizioni restrittive vengono giustificate nell’interesse dei giovani quando invece sarebbe necessario riformare le parti dell’assetto attuale da cui dipendono le (loro) pensioni future. Ad esempio, riconoscere contributi figurativi per gli anni di disoccupazione involontaria sperimentati nella vita lavorativa attenuerebbe la condizione di precarietà oramai proiettata sull’intera esistenza. Peraltro, ciò avverrebbe senza gravare sulle attuali problematiche di bilancio pubblico e fornirebbe stimoli alla crescita. Circa la metà di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro a metà degli anni ’90 hanno accumulato contributi pensionistici corrispondenti a retribuzioni inferiori alla soglia di povertà e, conseguentemente, riceveranno pensioni “povere”.
L’introiezione dello “status” di precari a tempo indeterminato da parte dei giovani (e di molti, oramai, ex giovani) sta corrodendo non solo le loro vite, ma le prospettive dell’intera collettività. Rimuovere questo “status” personale è un presupposto cruciale per la coesione sociale e lo sviluppo economico, sociale e civile del nostro Paese.
*Sbilanciamoci.info