A quarant'anni di distanza, le diverse iniziative e pubblicazioni che si riferiscono al ‘77, lo propongono prevalentemente come l’anno dei movimenti e del diffondersi della violenza armata organizzata e degli atti terroristici.
Scompare in questo modo il ‘77 operaio cioè la straordinaria presenza in campo della soggettività degli operai che dalla fine degli anni sessanta, ha rappresentato la vera novità, nei modi, nei contenuti e nelle forme per la trasformazione democratica della società.
Mi riferisco alla vertenza del gruppo Fiat, che allora coinvolgeva circa 200.000 tra lavoratori e lavoratrici, che dopo 100 ore di sciopero, si concluse nel mese di luglio con un grande successo e allo sciopero generale dei metalmeccanici promosso dalla Flm con manifestazione a Roma il 2 dicembre ‘77, contro le politiche economiche del governo monocolore di Giulio Andreotti, il cosiddetto “governo delle astensioni” che si reggeva sul voto di “non sfiducia” del Pci, cioè sull'astensione alla Camera e sull’uscita dall’aula, al Senato.
Tutto ciò non può e non deve essere oscurato o negato nella trasmissione della memoria, perché semplicemente non aiuta a capire che cosa è successo prima, durante e dopo il - ‘77 nella storia sociale politica di questo paese.
Per questo l’iniziativa sul ‘77 operaio, deve anche essere l’occasione per una riflessione sull’importanza di quella stagione.
La dinamica sociale e politica che si sviluppò negli anni ‘60 - ‘70, ed in particolare a partire dal ‘68 - ‘69, trova nella fase del ‘76 - ‘78, il convergere di un groviglio di contraddizioni e problemi irrisolti nella sinistra.
Una sorta di implosione di un impianto teorico e politico che, ad un certo punto, si trova a fare i conti con il problema della trasformazione del Paese e il possibile orizzonte di governo per le sinistre.
Ciò che ha caratterizzato nostra situazione è che non si esaurisce con la rivolta della fine degli anni ‘60, ma trae da quelle lotte, la linfa vitale per costruire e strutturare un nuovo rapporto tra movimento e organizzazione, tra movimento e sindacato.
Questo ha rappresentato la scelta dei consigli di fabbrica, assunti come istanza di base di un sindacato unitario democratico, la Flm.
Consigli di fabbrica, composti da delegati eletti dal gruppo omogeneo su scheda bianca da iscritti e non iscritti al sindacato, rappresentavano già a partire dalla loro struttura organizzativa, la nascita di un nuovo sindacato che affondava le proprie radici nella stessa articolazione dell’organizzazione del lavoro.
Un'esperienza unica a livello europeo che aveva creato le condizioni per lo sviluppo dell’iniziativa contrattuale che andava oltre la dimensione redistributiva perché interveniva sui rapporti di potere nell’esercizio dell’attività lavorativa.
Quando leggo o ascolto interventi che, riferendosi a quella fase positiva delle conquiste sindacali, la riducono a una redistribuzione della ricchezza, capisco quanto sia ancora radicato lo schema della distinzione di ruoli e relativi confini tra l’agire sociale e la politica.
Una chiave di lettura semplicemente sbagliata perché l’esperienza dei Consigli nasce proprio dalla messa in discussione delle condizioni di lavoro, dei rapporti di potere rispetto al comando assoluto nella gestione unilaterale della impresa.
Da qui deriva il carattere espansivo dell’iniziativa della Flm: dalla fabbrica, al territorio e alla società.
Il suo prestigio perché interloquiva con l’insieme del paese e con l’emergere di nuove istanze di cambiamento e di liberazione come il movimento femminista e la sensibilità ambientale.
La stessa piattaforma della vertenza Fiat e il successivo accordo, tenevano insieme le condizioni di lavoro, la riduzione effettiva dell’orario di lavoro con la mezz’ora retribuita per la pausa mensa e l’aumento dell’occupazione negli stabilimenti del Mezzogiorno.
Si diceva allora, il cambiamento qui ed ora, non rinviato e quindi delegato alla politica, alla presa del potere, che poi voleva dire il governo.
Sarebbe sbagliato rappresentare questa situazione come una condizione omogenea in tutto il paese.
Vi erano esperienze più avanzate, in particolare in alcuni grandi gruppi industriali e altre più tradizionali, ma il significato era sostanzialmente univoco.
Le forze politiche della sinistra non osteggiarono questo processo ma ne favorirono l’estensione nel paese, anche con una politica delle amministrazioni, laddove governavano, di apertura a processi d'innovazione nella partecipazione democratica sia sul piano culturale sia dal versante dei servizi.
Nello stesso tempo, la novità dell’espansione del sindacato dei consigli di fabbrica, come costruzione, si direbbe oggi, dal basso di un processo di cambiamento della società e del relativo sistema dei poteri esistenti, non fu però mai oggetto di una rielaborazione teorica e culturale, di una idea di trasformazione democratica della società da parte delle forze politiche di sinistra.
Il movimento degli studenti seguì una traiettoria diversa perché la sua dimensione di movimento si trasformò rapidamente nell’organizzazione di diversi gruppi politici, in concorrenza tra loro, che avevano comunque come riferimento comune la classe operaia come soggetto della trasformazione sociale.
La scelta della costituzione della Flm e, anche se in forme diverse, di altre categorie dell’industria, come ad esempio i chimici, non coinvolse l’insieme dei sindacati.
Le Confederazioni Sindacali dopo una lunga discussione fecero una scelta diversa: non ci fu il sindacato Confederale unitario ma la federazione Cgil Cisl Uil con una composizione rigorosamente paritetica.
Anche per questo e per l’incrocio con la prima crisi petrolifera, l’iniziativa della Flm nel periodo ‘73 - ‘75 si complicò, nella sua dimensione espansiva.
Il rinnovo del contratto nazionale di lavoro del 1976 non ebbe lo stesso significato, la stessa valenza generale di quelli precedenti.
Dal versante della dinamica politica, quella fase è segnata dalla crescita e dai successi elettorali della sinistra e in particolare del Pci.
Questo non avviene nel ciclo elettorale del ‘68 -‘72 – segnato dall'espansione del conflitto e delle conquiste sociali - ma in quello delle elezioni amministrative del ‘75 e le politiche del ‘76, precedute dalla conquista del divorzio nel referendum del ‘74, quando la dinamica sociale rallenta.
Quando nel 1976 il Pci supera il 34% per il partito di Enrico Berlinguer – e non solo - diventa non più eludibile il problema del governo.
Si prospetta per la prima volta in un paese a capitalismo avanzato, appartenente alla Nato, la possibilità che un Partito Comunista sia parte significativa del governo.
Una situazione inedita e unica nel panorama europeo che ha segnato la storia del nostro paese dopo il ‘68 a livello sociale e politico.
La risposta è stata quella della logica stragista che inizia nel ‘69 con Piazza Fontana a Milano, durante la lotta per il contratto nazionale dei metalmeccanici e segna tutti i passaggi successivi, compresa la strage del 2 agosto ‘80 alla stazione di Bologna, alla vigilia dell’annuncio dei licenziamenti alla Fiat, ed è accompagnata dalla nascita di gruppi terroristici di matrice fascista.
Negli anni Settanta nascono gruppi terroristici come le Brigate Rosse che si richiamano alla sinistra, e aldilà di cosa si raccontano nei loro documenti, completano il quadro e contribuiscono ad alimentare un clima generale di tensione e di paura.
In previsione di questa iniziativa mi sono andato a rivedere la cronologia degli omicidi politici di quegli anni ‘76 - ‘78, ed è veramente impressionante.
Non meno impressionante è la campagna che si scatena nell’attribuire la responsabilità morale e politica di quella situazione, alla conflittualità sindacale ed in particolare ai metalmeccanici.
Il contesto internazionale di quella fase, è segnato dall’inizio della crisi del ciclo di sviluppo del capitalismo, con una condizione di instabilità monetaria dopo la scelta degli Stati Uniti nel ‘71, di decidere la fine della convertibilità del dollaro in oro, che voleva dire, una forte svalutazione del dollaro per il deficit crescente anche a causa dei costi della guerra in Vietnam.
La fine dell’ancoraggio del dollaro all’oro e delle valute europee al dollaro, crea una situazione di permanente instabilità nei rapporti monetari internazionali.
La crisi petrolifera avviene in questa situazione di instabilità generale e la situazione sociale e politica del nostro paese non poteva non essere oggetto di particolari attenzioni, anche in riferimento ad equilibri internazionali.
Il Pci sceglie il percorso del “compromesso storico” e individua in Aldo Moro l’interlocutore di quel progetto, anche se a dire il vero, Aldo Moro, non gli ha mai assegnato la valenza strategica di “storico”, ma semplicemente di “compromesso” per creare le condizioni dell’alternanza politica.
Non era l’unica scelta possibile, perché ad esempio il segretario del Psi, Francesco De Martino, che nelle elezioni del ‘76 aveva ottenuto il 10%, prima del sopravvento di Craxi, propose l’alternativa di sinistra.
La scelta di Enrico Berlinguer non rappresentò una novità, perché traeva origine dall’analisi che aveva sviluppato dopo il colpo di stato in Cile.
Un colpo di Stato che nasce politicamente dal voto della Dc cilena in parlamento sulla incostituzionalità del governo di Salvador Allende, con cui, a differenza del colpo di Stato fallito alcuni mesi prima, si creano le condizioni politiche per portare a termine quello vero.
Del resto bisogna avere presente che il Partito comunista del Cile con segretario Luis Corvalàn, era per l’accordo con il Partito Democratico Cristiano del Cile di Eduardo Frei.
Ci fu allora da parte della sinistra una sottovalutazione e una lettura sbagliata di quello che era successo in Cile, perché non era il solito colpo di Stato in un paese del Sud America, ma la prima sperimentazione concreta della logica liberista in gestazione a livello globale.
La prima manovra economica del governo di Augusto Pinochet fu la privatizzazione del sistema previdenziale.
Il percorso del compromesso storico prevedeva diverse fasi di attuazione, dall’astensione al voto di fiducia, fino all’entrata del Pci nel governo.
Come sappiamo ci furono soltanto due fasi, perché con l'uccisione di Aldo Moro, il Pci, perse il proprio interlocutore e dopo i deludenti risultati elettorali nelle elezioni, e dopo avere chiesto invano l’applicazione della terza fase, Enrico Berlinguer, alla fine del 1980 cambio linea e scelse l’alternativa democratica.
Del resto, per ragioni opposte, né l’Unione Sovietica, né gli Stati Uniti gradivano un'ipotesi d'ingresso del Pci nell'area del governo, nonostante Enrico Berlinguer avesse dichiarato che il nostro paese non avrebbe messo in discussione l’appartenenza alla Nato, cosa non certo gradita all’Unione Sovietica.
In questi giorni, in un importante quotidiano nazionale, è stata riportata la notizia che tra i files, finora segreti, e relativi all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy ce n’è uno (che porta la data del 26 giugno 75 - la settimana successiva alle elezioni amministrative in Italia, con il Pci al 34% – e classificato “segreto”) che racconta di una riunione svoltasi nello studio ovale del presidente degli Stati Uniti Gerald Ford con la presenza di Henry Kissinger, Brent Scowcroft, vicepresidente della sicurezza nazionale e l’ambasciatore a Roma John Volpe, dove viene valutata la possibilità dell’ingresso dei comunisti nel governo in Italia. Questa ipotesi viene bocciata.
Nello stesso tempo implode lo schema tradizionale proprio della sinistra, del rapporto partito-sindacato, del rapporto tra politica e movimenti sociali, nella prospettiva non più dell’opposizione ma del governo del paese.
Un aspetto che va oltre le stesse valutazioni della fase economica che attraversava il paese, se si trattava di governare una fase di stagnazione economica oppure, una crisi ciclica del capitalismo.
Il problema riguarda proprio l’impianto teorico e politico delle famose “due gambe per costruire il socialismo”, con l'azione del sindacato in campo economico la cui autonomia non poteva valicare il limite della sua funzionalità al terreno “vero” dello scontro, rappresentato dalla politica. In altre parole dal primato del partito.
Dato che non c’è più la presa del Palazzo d’Inverno, quando il Partito è al governo cosa si determina nel rapporto tra Partito e Sindacato, tra politica e movimenti sociali?
La dinamica sociale, la stessa esperienza del sindacato dei consigli della Flm aveva già messo in discussione nella pratica sociale quello schema, quella ripartizione dei ruoli, suscitando varie accuse di pan-sindacalismo ed eccessivo ruolo politico.
Resta il fatto che ad accompagnare e segnare l’inizio del percorso di avvicinamento all’area di governo, c’è l’accordo del 26 gennaio ‘77, tra le Confederazioni Sindacali e la Confindustria sulla riduzione delle festività e la deindicizzazione degli scatti di anzianità, con un esplicito riferimento alla necessità di ridurre il costo del lavoro.
É curioso che questo avvenga nel momento in cui entra in vigore l’accordo del gennaio ‘75 sul punto unico della scala mobile.
È in questa situazione che la Flm decide nel ‘77 di aprire le vertenze dei grandi gruppi industriali ed in particolare nel gruppo Fiat.
Sull’esito positivo dopo 100 ore di sciopero di quella vertenza, non voglio aggiungere nulla, se non sottolineare un aspetto relativo alle dinamiche in atto, quello dell’innovazione tecnologica che già allora iniziava a essere presente.
In sostanza emergeva il problema se i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro dovevano avvenire attraverso relazioni democratiche di confronto e negoziazione tra le parti sociali, oppure se l’azienda pensava di imporre come condizione il ripristino del comando assoluto da parte dell’impresa.
Sappiamo quale sia stata la scelta della Fiat nel 1980.
Successivamente alla vertenza sulla mezz'ora, la Flm proclamò lo sciopero generale nazionale dei metalmeccanici con manifestazione nazionale a Roma, contro la politica industriale del governo Andreotti per riaffermare il diritto democratico a manifestare, senza che le piazze fossero vietate o che i cortei fossero oggetto di scorribande e di scontri con la polizia.
Le Confederazioni Sindacali non sostennero quella manifestazione, la subirono.
Il Pci, consigliò alla Fiom di revocare la manifestazione, utilizzando la motivazione che era esposta a possibili provocazioni per farla degenerare in un problema di ordine pubblico.
Non era una motivazione campata in aria, ma era altrettanto evidente che si poneva un problema rispetto al percorso intrapreso dal Pci, che si apprestava a votare la fiducia al secondo governo Andreotti.
La motivazione ufficiale non era priva di senso perché nel ‘77 si determinò una rottura tra il movimento sindacale e una parte del mondo giovanile che si esprimeva anche in forme organizzate come Autonomia Operaia.
C’è un cambio di paradigma rispetto alla fase precedente, perché la figura di riferimento, il soggetto della trasformazione sociale diviene un non meglio definito operaio sociale, il precario, contrapposto ai “garantiti” e alle loro Organizzazioni.
Si configura in questo modo una progressiva distanza rispetto ad un percorso di cambiamento democratico della società, fondato sul protagonismo dei lavoratori.
Viceversa i gruppi extraparlamentari del ‘68 - ‘69 erano in fase calante e alcuni tra i più significativi e interessanti, si sciolsero. È il caso di Lotta Continua nel 1976.
Ma più in generale, dopo l’assassinio di Francesco Lorusso, 11 marzo 1977, a Bologna da parte dei carabinieri, la follia della violenza armata organizzata, e comunque dell’esercizio della violenza, porta alla crescita di gruppi terroristici, come le BR e Prima Linea e alla nascita di nuovi gruppi armati.
La manifestazione del 2 dicembre ‘77 assumeva anche questo significato nell’indicare e praticare una strada di conflittualità democratica.
Una manifestazione imponente di un soggetto sociale che aveva cambiato la faccia di questo Paese, dai diritti sociali ai diritti civili, dall’abolizione delle gabbie salariali alla nascita di un sistema di sicurezza sociale in precedenza inesistente, dalle pensioni alla sanità.
Una manifestazione caratterizzata dalla presenza di giovani lavoratori, dalle leghe dei disoccupati, dalle donne del movimento femminista e dagli studenti,
Dopo un mese, il 24 gennaio 1978 esce un’intervista di Luciano Lama che annuncia a Eugenio Scalfari i capisaldi del “programma di solidarietà nazionale” con cui la Federazione Sindacale unitaria decide di impegnarsi per “raddrizzare la barca Italia”, una vera e propria svolta sindacale che avverrà nel mese di febbraio.
Rileggerla oggi, a decenni di distanza fa una certa impressione perché è assolutamente esplicita nell’annunciare che si apre la fase dei sacrifici per i lavoratori e le lavoratrici, nel momento in cui afferma che “se vogliamo diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai occupati deve passare in seconda linea” e ancora “si, si tratta proprio di questo: il sindacato propone ai lavoratori una politica dei sacrifici non marginali ma sostanziali”, il tutto condito con il richiamo alla “coscienza di classe”.
Si concretizza in questo modo la svolta dell’Eur, nel febbraio ‘78, quello che è stato definito lo scambio politico tra la moderazione delle rivendicazioni sindacali e una politica economica e industriale che avrebbe dovuto fare aumentare l’occupazione.
Si inaugura una centralizzazione della contrattazione con la marginalizzazione dei consigli di fabbrica.
Nel mese di marzo avviene la strage della scorta e il rapimento di Aldo Moro, mentre veniva accompagnato in parlamento per il voto sul secondo governo Andreotti.
La composizione del governo aveva creato dei problemi nel Pci, ma la notizia del rapimento portò rapidamente ad esprimere il voto di fiducia, e con il successivo assassinio di Aldo Moro, si avvia la fine della storia della prima Repubblica, che troverà la sua sanzione culturale e sociale con la sconfitta del 1980 alla Fiat.
Enrico Berlinguer intuisce questo rischio, torna all’opposizione e da subito, i rapporti con il segretario generale della Cgil diventano molto complicati.
Ma questa è un’altra storia, quella del Pci e di Enrico Berlinguer, che da quel momento non sono più la stessa cosa.
Il 1977 ha rappresentato questo passaggio di fase, questo groviglio di contraddizioni, di domande sociali senza risposta.
Viviamo oggi in un mondo molto diverso, ridisegnato dalla globalizzazione liberista e dalle nuove tecnologie.
Tutte le conquiste di emancipazione nel lavoro sono state cancellate e sostituite da una legislazione finalizzata alla rottura di qualsiasi vincolo sociale che non sia quello dell’interesse dell’impresa e del profitto.
Di quella lunga stagione, sono rimasti in piedi alcuni diritti civili, che a loro volta non interferiscono direttamente con il conflitto capitale e lavoro.
Dobbiamo fare i conti con un sistema fondato strutturalmente sulla precarietà come condizione di lavoro e di vita, sulle basse retribuzioni e sulla concorrenza tra i lavoratori gli uni contro gli altri, nei singoli paesi e tra i diversi paesi.
Non è finita la storia del movimento operaio perché le ragioni sociali che sono all’origine della sua nascita, sono oggi altrettanto evidenti su scala locale e globale.
Quella che si è conclusa è una fase storica del movimento operaio.
Va ripensata e rielaborata una idea di sindacato che faccia vivere i valori della solidarietà e della giustizia sociale, a fronte della crescita delle disuguaglianze sociali, di un mondo del lavoro frantumato in una molteplicità di rapporti di lavoro.
L’attività legislativa di questi decenni, ha delineato confini e spazio politico, di un possibile soggetto sindacale corporativo e aziendalista, subalterno alle esigenze dell’interesse di ogni singola impresa.
La dimensione Confederale, di per sé, non è un problema perché a quel punto, in questa situazione, può operare come una lobby nei rapporti istituzionali.
Non può essere questa la deriva della Cgil.
Non possiamo eludere il problema di cosa vogliamo essere.
È finita una storia che ho più volte richiamato e in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto nella parodia di quella storia, per cui a fronte di un governo di Centro-destra si rispondeva con gli scioperi generali, mentre in presenza di governi di Centro-sinistra si facevano tutte le volte i patti sociali, mentre i governi di qualsiasi colore, facevano più o meno le stesse cose.
Più o meno le stesse cose, perché Berlusconi non riusci a cancellare l’Art.18, per farlo c’è voluto un governo di centrosinistra.
Diciamoci la verità senza infingimenti e ipocrisie: quando Berlusconi ha manomesso la Costituzione non c’è stato alcun problema a promuovere il comitato per il NO, che aveva sede presso la Cgil nazionale, quando è stata la volta di Renzi, per decidere l’indicazione di voto per il NO, importanti strutture nazionali, regionali e territoriali, si sono opposte.
Lasciamo stare l’atto finale del voto dell’Assemblea Generale Nazionale Cgil, che era condizionato dal fatto che se si fossero espresse in quella occasione le posizioni emerse, in una molteplicità di riunioni anche aspre, dei segretari generali, si sarebbe determinata la crisi della Cgil.
I nodi irrisolti del ‘77 sono ancora lì, ma se allora erano una cosa terribilmente seria oggi si rischia il ridicolo.
Bisogna uscire da questa strettoia prima di esserne travolti e tornare al merito, che riguarda il profilo di un Sindacato democratico Confederale che vuole essere espressione di un altro punto di vista, quello del cambiamento e della trasformazione della società.
Il senso di appartenenza a una organizzazione sindacale confederale oggi può soltanto derivare dalla definizione di un progetto programmatico e valoriale, che non vuole essere una idea organica di un’altra società, ma delle sue coordinate fondamentali.
Questo non vuole dire indifferenza rispetto alle dinamiche delle forze politiche della sinistra, ma fornire un contributo positivo su come oggi ridisegnare lo stesso rapporto tra politica e sociale, tra politica e sindacati.
Un progetto che sia fondato sulla riunificazione nelle diversità del mondo del lavoro dipendente, richiede un percorso di coinvolgimento, non solo dell’insieme dell’Organizzazione ma di apertura e confronto rispetto ad esperienze e forme di auto-organizzazione che esistono nel sociale.
Un percorso che non si esaurisce nell’ambito di un passaggio congressuale, ma che può trovare in questa occasione, l’assunzione di scelte coerenti sul piano rivendicativo finalizzate alla lotta contro le disuguaglianze sociali e per la riunificazione di un mondo del lavoro subordinato, nelle sue diverse forme di espressione.
La Flm ha rappresentato l’unica vera esperienza di Sindacato democratico unitario.
Non credo esistano oggi le condizioni, seppur in un contesto diverso, di ripetere quella esperienza.
Nello stesso tempo, la logica degli accordi separati rappresenta il suicidio del sindacato perché ha come unica fonte di legittimazione quella delle controparti, con tutto quello che ne consegue.
Esiste attualmente il caos totale, con centinaia di contratti nazionali, compreso un numero crescente di contratti-pirata, in una vera e propria rincorsa di dumping sociale.
Questo non è più un problema riconducibile soltanto nell’ambito dei mutevoli rapporti tra Cgil, Cisl e Uil, ma richiede l’apertura di una lotta politica di carattere generale sulla democrazia, con la necessità anche di un intervento legislativo che affermi l’esercizio democratico della rappresentanza sindacale e restituisca il potere decisionale a chi ne è davvero titolare: ovvero alla validazione dei lavoratori e delle lavoratrici, delle piattaforme e degli accordi aziendali e nazionali.
In questo modo le retribuzioni contrattuali nazionali potrebbero assumere il significato dei minimi retributivi; in assenza di una scelta di questa natura, trovo difficile evitare la strada del salario minimo.
Un progetto fondato sulla riunificazione nella diversità del lavoro, interroga l’attuale struttura organizzativa del sindacato che non ha più nulla a che vedere con l’organizzazione attuale della produzione, dei servizi, del commercio e delle stesse pubbliche amministrazioni.
In tutte le realtà lavorative e nelle filiere produttive, materiali e immateriali, convivono ormai contratti di categoria diversi, spesso utilizzati in una logica di contrapposizione tra lavoratori.
In questa nuova realtà sociale la nostra struttura organizzativa, con gli attuali confini contrattuali delle categorie, corre il rischio di favorire il processo di frantumazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
Accorpare contratti e categorie richiede un percorso di cui andrebbero definiti tempi di avvicinamento, a partire dalla pratica della contrattazione di filiera.
Infine lo stato confusionale esistente tra concertazione, dialogo sociale e contrattazione, cose assolutamente diverse tra loro.
Personalmente non ho ancora capito se il confronto con il sindacato che si svolge ogni 12 mesi sulla legge di bilancio del governo, rientri nella categoria della concertazione o del dialogo sociale, perché certamente non è contrattazione in quanto richiederebbe un percorso totalmente diverso.
Ci troviamo dalla svolta dell’Eur, in questa assoluta indeterminatezza.
Siamo al vigilia dell’apertura del prossimo congresso della Cgil e non mi piace affatto quello che sento in giro.
Prima ancora di aprire la discussione congressuale si formano schieramenti e cordate dando corso, per esempio, a cene collettive e preconsultazioni tra i massimi dirigenti, ritenuti amici, su chi dovrà essere il prossimo segretario/a della Cgil.
Spero siano solo voci e prive di fondamento, perché oggi la posta in gioco è la stessa sopravvivenza della Cgil, per ciò che ha rappresentato nella storia di questo Paese.
Occorre avere l’umiltà e la passione di misurarsi con la necessità impellente di una svolta della Cgil, dando seguito alla scelta compiuta sul Referendum Costituzionale, sui diritti sociali e l’avvio della mobilitazione sulla questione previdenziale.
Con questa iniziativa non vogliamo soltanto ricordare le lotte sindacali del ‘77 che rappresentano in sé un fatto importante, a fronte di un imperante operazione di revisionismo storico che cancella tutto ciò che riguarda il conflitto tra capitale e lavoro.
Quel conflitto viene rappresentato come una storia finita che appartiene al passato e non parla al presente e al futuro.
In questo modo la lettura e il racconto si fonda sulla contrapposizione tra il nuovo e il passato, come se la globalizzazione liberista fosse la naturale evoluzione storica della modernità.
Si nega in questo modo che il ‘77 e più in generale quella stagione, abbia rappresentato un passaggio importante tra ipotesi alternative sul futuro della società.
La novità era rappresentata dal protagonismo contrattuale e politico delle lotte operaie, fondate sulla centralità del lavoro e della democrazia.
In realtà confliggevano le nuove istanze di libertà ed uguaglianza, rappresentate da quel movimento e la restaurazione di rapporti sociali fondati sulla mercificazione di tutti gli aspetti della condizione di lavoro e di vita, che incredibilmente venivano e vengono spacciati per il nuovo.
Noi siamo stati sconfitti e da qui dobbiamo ripartire: il tema è cosa vuole dire oggi un'alternativa sociale e politica nella nuova complessità del mondo del lavoro subordinato e della crescita delle disuguaglianze sociali.
Di questo vogliamo discutere, tenendo insieme passato, presente e futuro.
*Relazione d'apertura del convegno “Il 77 operaio”, svoltosi a Torino il 1 dicembre 2017