L’Italia, “ce l’ha una politica energetica? Una politica industriale capace di guardare al futuro? A noi sembra proprio di no”. Giuseppe Romano è il segretario provinciale della Fiom-Cgil di Taranto. Siamo nella sede del sindacato dei lavoratori metalmeccanici della Cgil, al secondo piano di una palazzina di fronte al vecchio ospedale militare, nella Taranto umbertina.
Chiedo: perché il sindacato dei metalmeccanici, industria pesante per eccellenza, invita a votare sì nel referendum che vuole limitare l’estrazione di idrocarburi nei mari italiani? “È una questione di futuro”, risponde Romano. Proprio per difendere il lavoro, dice, un sindacato deve battersi perché l’industria sia compatibile con la salute delle persone e dell’ambiente. E parla dell’Ilva, lo stabilimento visibile dall’altro lato del mar Piccolo, una volta orgoglioso “quarto polo” della siderurgia italiana e oggi sinonimo di disastro sanitario e ambientale.
Taranto, duecentomila abitanti, è una città industriale da almeno un secolo: prima l’Arsenale militare, il porto, e poi la siderurgia, e poi? “Per noi il referendum è un’occasione per discutere il modello di sviluppo industriale del paese. Se ne risultasse un movimento d’opinione a favore di una seria politica energetica, sarebbe già un buon risultato”.
Salviamo il paesaggio
Il referendum sulle trivelle ha fatto nascere alleanze insolite, non c’è che dire. Cosa hanno in comune il sindacato dei metalmeccanici, la Confcommercio, le cooperative della pesca, la Pro loco, e le storiche organizzazioni ambientaliste? Spesso proprio nulla: eppure, almeno qui, tutti aderiscono al comitato “Vota sì per fermare le trivelle”.
Ciascuno ha le sue motivazioni, certo. Confcommercio – con i Giovani imprenditori, Confturismo e il Sindacato italiano balneari – afferma in un comunicato che le ricerche di idrocarburi “mettono a rischio i nostri mari senza garantire quel beneficio economico che viene sbandierato dai sostenitori delle attività estrattive”.
Simili le ragioni di Confcooperative, con le cooperative di pesca e dei mitilicoltori del mar Piccolo: le cozze sono un caposaldo della produzione locale, l’inquinamento è una minaccia diretta. Così, eccoli accanto alle sezioni locali delle associazioni storiche dell’ambientalismo italiano, Legambiente, il Wwf, Marevivo, insieme al Comitato No Triv-Terra di Taranto, e a sigle locali come “Salviamo il paesaggio” o un’associazione per salvare i delfini dello Ionio. E poi Libera, che si batte contro le mafie, o l’Arci, alcuni centri sociali, l’Unione degli studenti. Dalle categorie produttive all’ambientalismo, al sindacato operaio.
Perfino l’arcivescovo della città, monsignor Filippo Santoro, si è pronunciato per il sì, in linea del resto con tutta la Conferenza episcopale italiana (Cei). Una curia non aderisce a comitati, ma l’arcivescovo ha spiegato le sue ragioni su Nuovo dialogo, giornale della diocesi tarantina. Le piattaforme petrolifere lungo le coste dell’Adriatico e dello Ionio sono “un’ulteriore aggressione a una realtà già fragile”, argomenta il monsignore (che presiede anche la commissione della Cei per i problemi sociali e del lavoro, la giustizia e la pace “e la custodia del creato”).
In passato Taranto non si è mobilitata su temi ambientali. Poi però è scoppiato il bubbone dell’Ilva
Le trivelle sono una minaccia per il mare, il turismo, la pesca e l’agricoltura in “un territorio già ferito”. L’arcivescovo si richiama all’enciclica di papa Francesco Laudato si’; scrive che “la tecnologia non può non tenere conto delle conseguenze di un suo abuso”. Accanto, il giornale della diocesi pubblica un’intervista alla presidente di Legambiente Taranto, Lunetta Franco, e un volantino con il logo del Comitato per il sì al referendum: “Sette buone ragioni per fermare le trivelle”.
Alleanze trasversali, “mondi diversi” che convergono, osserva Lunetta Franco. Mi spiega che in passato Taranto non si è mobilitata su temi ambientali: “Poi però è scoppiato il bubbone dell’Ilva, e anche chi non voleva vedere ha dovuto aprire gli occhi. Non che sia diventata una città ambientalista, no: ma c’è una consapevolezza che prima non c’era”.
Già, è impossibile ignorare il “mostro”. Lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa incombe oltre il ponte che unisce il borgo antico alla zona industriale di Taranto, oltre il popoloso quartiere dei Tamburi: in pratica è attaccato alla città. Già Italsider, industria di stato, negli anni novanta fu ceduta al gruppo Riva diventando Ilva.
Copre 1.500 ettari di superficie, due volte la città stessa. È visibile dal lungomare del borgo antico e da quello umbertino. Oggi occupa 11.200 dipendenti diretti e circa 3.500 indiretti; a pieno ritmo erano più di ventimila, ma anche così resta la più grande realtà industriale d’Italia.
Il futuro però è incerto. Quando le ingiunzioni della magistratura hanno fatto scoppiare il caso, nel 2012, il ministero dell’ambiente ha imposto una nuova serie di prescrizioni su sicurezza, emissioni inquinanti, reflui (si chiama Aia, autorizzazione integrata ambientale). Da allora parte degli impianti è ferma, e non riaprirà senza prima adeguarsi.
Poi l’impresa è stata commissariata (nel giugno 2013), e i proprietari del gruppo Riva accusati di disastro ambientale, avvelenamento e vari abusi: il processo, chiamato Ambiente svenduto, è ripreso in febbraio e vede tra gli imputati anche numerose autorità locali.
Da allora si sono succeduti i decreti d’urgenza e per l’Ilva sono stati stanziati 800 milioni di euro. “Lo stato pensava di risanare lo stabilimento attingendo ai 1.200 milioni sequestrati ai Riva in Svizzera, sotto processo anche per frode fiscale, ma il denaro è bloccato dalla corte d’appello di Bellinzona”, spiega Giuseppe Romano. Salvo pochi interventi (per esempio agli altoforni), un risanamento ancora non c’è. Invece, il governo ha stretto i tempi della vendita.
A fine aprile scade il termine per le offerte d’acquisto vincolanti; in giugno i commissari, che rappresentano lo stato, prenderanno una decisione. Per ora circolano solo ipotesi: si parla con insistenza di una “cordata italiana” garantita dalla Cassa depositi e prestiti (Marcegaglia, Arvedi, e giorni fa è corsa notizia di un possibile socio turco, il gruppo Erdemir). Ci sarebbe l’interesse dell’indiana Mittal e forse della sudcoreana Posco. “Quale piano industriale propongono, quali interventi di risanamento ambientale, e quali garanzie di occupazione? Non abbiamo notizie precise”, osserva Romano.
Intanto “l’incertezza logora”, dice Vincenzo Vestita, giovane operaio e delegato sindacale all’Ilva, che ci raggiunge nella sede della Fiom nel pomeriggio, dopo il suo turno in fabbrica. “Se non partono presto gli investimenti per risanare gli impianti le cose andranno sempre peggio. La manutenzione è rarefatta, gli interventi ordinari sono diventati straordinari. Siamo in un limbo insostenibile”.
Le notizie di incidenti in fabbrica in effetti sono frequenti: l’ultima il giorno di Pasquetta, un incendio sui nastri trasportatori, gomma bruciata, fumo nero visibile dalla città. In febbraio sono stati diffusi dati sulla presenza di diossina nel quartiere Tamburi, rinfocolando tutte le polemiche. Si tende a scordarlo, ma Taranto è una città in emergenza sanitaria, e i dati non sono meno allarmanti oggi di quattro anni fa.
Oggi l’Ilva inquina meno, ma soprattutto perché lavora a ritmo ridotto. L’anno scorso ha prodotto meno di cinque milioni di tonnellate di laminati di acciaio, metà che nel 2007. “Nella cokeria funzionano quattro forni su dieci”, spiega il delegato Fiom. Producono il coke, combustibile solido artificiale ottenuto dal carbon fossile: le cokerie sono il primo passo del processo per produrre l’acciaio, e il più inquinante; da qui usciva oltre il 90 per cento degli idrocarburi policiclici aromatici esalati su Taranto.
Altri punti critici sono i “parchi”, i depositi del minerale da lavorare, da cui si leva la povere rossa che per decenni si è depositata sui quartieri vicini allo stabilimento: pericolosa in sé e tanto più perché trasportano diossine. “Noi lo chiedevamo da anni, di coprire i parchi materiali. Ma finché non c’è stato lo shock della magistratura non è successo nulla”.
“Vogliamo cambiare il modo di produrre”, continua Vincenzo Vestita. “Perché non è prevista la catena di smontaggio, in cui i materiali vengono riciclati?”. L’Ilva, spiega, lavora circa due terzi ghisa e un terzo rottame, come tutti gli impianti a ciclo integrato. Discutiamo di crisi dell’acciaio in Cina e inquinamento in India, di “impronta ecologica”, di green economy e di “uscire dal petrolio”, di energie rinnovabili e di trasporto pubblico. “Porsi questi problemi significa stare al passo con i tempi”, insiste il delegato Fiom, “altrimenti ci riduciamo al dannato capitalismo del consumo: produci, consuma e crepa”. Taranto deve “uscire dalla monocoltura della siderurgia”, continua Giuseppe Romano, anche se i tentativi fatti finora sono deludenti.
“Abbiamo due problemi, e dobbiamo tenerli insieme”, sintetizza il segretario della Fiom tarantina. “Il primo è la salvaguardia della salute dei cittadini e dei lavoratori, che del resto abitano qui, inutile contrapporli: le emissioni inquinanti devono diminuire in modo drastico, questo non si discute”. L’altro problema è che rimpiazzare quindicimila posti di lavoro sarebbe un incubo. Il quadro è terribile: il porto è in crisi e tra il 2008 e il 2013 la provincia di Taranto ha perso “un’altra Ilva”, oltre diecimila posti di lavoro. “Noi siamo convinti che l’acciaio sia un settore industriale strategico. È possibile rilanciarlo in modo ecocompatibile”, conclude Giuseppe Romano.
La vera questione è se sia davvero possibile rendere ecosostenibili quegli impianti, “ambientalizzarli” secondo il termine usato dai sindacalisti della Fiom. Loro citano centri siderurgici visti a Linz in Austria o a Duisburg in Germania, cokerie di nuova concezione e parchi materiali coperti, fabbriche che stanno accanto alle città senza avvelenarle. Ma la questione divide Taranto, e perfino il fronte ambientalista.
Un colpo di grazia per la città
Rilancio ecocompatibile? Impossibile, commenta Daniela Spera mentre imbocchiamo il ponte che unisce il borgo antico alla zona industriale. “L’Ilva è uno stabilimento enorme, attaccato alla città, fonte di numerose emissioni. Renderlo compatibile è un’illusione”. Daniela Spera è la fondatrice del Comitato Legamjonici, gruppo che si batte contro l’inquinamento (e fa parte del Comitato No triv-terra di Taranto).
Laureata in chimica farmaceutica a Pisa, un dottorato di ricerca a Parigi, alla ricerca universitaria ha preferito quella sul campo, dice, per l’ambiente e la salute nel suo paese. In queste settimane sta trottando per tutta la provincia, spiega, “ci chiamano per sapere del referendum, nascono comitati di cittadini per il sì”. Ma combatte soprattutto il progetto di costruire a Taranto un nuovo centro di stoccaggio per il petrolio estratto nella valle del Sauro, in Basilicata, nel sito chiamato Tempa Rossa.
Imbocchiamo la statale 106, Taranto-Reggio Calabria: sulla destra c’è la raffineria Eni, sulla sinistra una serie di serbatoi di carburante. Il progetto Tempa Rossa coinvolge la Total, che ha la concessione per i pozzi, e l’Eni per le infrastrutture. Total progetta di estrarne 420 milioni di barili all’anno, o 2,7 milioni di tonnellate. Il greggio verrebbe trasferito a Taranto agganciandosi a un oleodotto già esistente (Viggiano-Taranto).
Qui verrebbe stoccato in due nuovi serbatoi da 180mila metri cubi ciascuno, da costruire proprio qui accanto a quelli vecchi, quindi imbarcato per essere raffinato altrove. Progetto controverso, è nel mirino della procura della repubblica di Potenza, che indaga su questioni di appalti: riguarda proprio Tempa Rossa lo scandalo che ha costretto alle dimissioni la ministra dello sviluppo economico Federica Guidi.
“Total sta spendendo molto in comunicazione, ne parla come di un progetto pulito, sicuro. Ma sarebbe un colpo di grazia per Taranto”, dice Spera. Elenca: il trasferimento sulle petroliere comporta emissioni diffuse di composti organici volatili, “Eni parla di impianti aspiratori ma non specifica se per gli idrocarburi alifatici o anche quelli aromatici, particolarmente pericolosi”. C’è la questione di ampliare il molo petrolifero, è in corso un braccio di ferro sulle autorizzazioni. “E poi c’è il traffico aggiuntivo di circa 90 petroliere all’anno che attraccheranno qui, nel mar Grande di Taranto. Un traffico assai inquinante, con la possibilità di incidenti e sversamenti di petrolio”.
Senza contare la questione della sicurezza. I serbatoi esistenti, come la raffineria, rientrano nel campo di applicazione della direttiva Seveso, fa notare la ricercatrice-ambientalista. La normativa europea sulla prevenzione di disastri industriali si applica a impianti e magazzini che lavorano sostanze pericolose: e la prima precauzione in assoluto è una distanza di sicurezza da zone abitate o di grande traffico.
Imbocchiamo una strada laterale verso Punta Rondinella, costeggiando il recinto dei serbatoi. La punta è off limits, ci sono i moli petroliferi, ma appena prima c’è una piccola enclave di abitazioni dove vive una quarantina di famiglie: altroché distanza di sicurezza.
È un rischio grave, osserva Spera, “ma qui con la questione dell’Ilva sempre incerta è difficile richiamare l’attenzione su altri temi”. Insiste: “Parlare di risanamento dell’Ilva significa solo un prendere tempo, procrastinare l’inevitabile chiusura. Perché invece non pensare subito a un piano B per lo sviluppo di Taranto”.
Torniamo nel centro della città, le piazze alberate e il museo archeologico, la via pedonale con le vetrine e il passeggio che però sembra semi deserta anche in un tardo pomeriggio.
“Taranto è una città prostrata, il tessuto sociale si sta sfaldando”, osserva Lunetta Franco. “Non vedo una classe imprenditoriale capace di progettare: ha solo vissuto al traino del settore pubblico”. Descrive un quadro di ristagno, dissesto economico, amministrazioni senza una visione.
L’incerto destino dell’Ilva è il colpo finale. La presidente di Legambiente Taranto non è tra chi si augura la chiusura. “Quegli undicimila operai sono per lo più giovani, con figli da crescere e mutui da pagare. Ai Tamburi, il quartiere là vicino allo stabilimento, la disoccupazione dilaga, molti campano di lavoretti: un papà che lavora all’Ilva significa una famiglia che sta bene”. Chiudere lascerebbe una crisi sociale devastante, insiste, senza neppure risolvere la questione ambientale: “Chiuso lo stabilimento difficilmente ci sarà la bonifica”. Meglio pensare a riconvertire, ridimensionare la produzione, adottare tecnologie compatibili con la salute.
Sul referendum il fronte torna a saldarsi. In fondo, il voto sulle trivelle è simbolico. “Non che sia irrilevante impedire che le piattaforme oggi in esercizio possano restare attive a tempo indefinito, ma la cosa ancora più importante è dare un segnale”, dice Lunetta Franco. “Il messaggio politico è rimettere in discussione la politica energetica basata sui combustibili fossili”, fa eco Daniela Spera. Votare sì “è coerente con tutto quello che pensiamo sul nuovo modello di sviluppo”, aggiunge il segretario della Fiom.
E in fabbrica? “Parlare di referendum sembra difficile, abbiamo problemi così pressanti. Trovi chi dice ‘che m’importa delle trivelle’, e chi ha già deciso di votare sì”, spiega Vincenzo Vestita. “I mezzi d’informazione ne parlano poco, ma anche tra i lavoratori molti trovano informazioni su internet”. In fondo, dice il delegato Fiom, “è proprio per difendere il mio posto di lavoro che voglio una fabbrica sostenibile, sicura, compatibile con il territorio, che usa le migliori tecnologie. Tutto quello che non ha fatto l’Ilva in passato”.
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