L’Europa sta riscoprendo l’importanza della politica industriale. La Confederazione sindacale tedesca (DGB) ha ora proposto “un piano Marshall per l’Europa”, prospettando un piano di investimenti pubblici del valore del 2% annuo del Pil dell’Unione per 10 anni. Altre proposte sono state presentate dalla Confederazione Europea dei Sindacati (ETUC), mentre il gruppo parlamentare dei Verdi Europei ha proposto un piano di investimenti pubblici per 750 miliardi da impiegare nell’arco di 3 anni, il quale dovrebbe sbloccare investimenti privati addizionali per circa 400 miliardi. L’obiettivo è quello di favorire la formazione di una economia europea verde, promuovere uno sviluppo locale sostenibile e una crescita inclusiva, puntando sullo sviluppo di tecnologie pulite. (...)
Facendo tesoro delle esperienze passate, una nuova politica industriale europea potrebbe basarsi su tre strumenti: attività pubbliche di ricerca, sviluppo e innovazione, investimenti pubblici per sviluppare la produzione e innovazioni mission-oriented e commesse pubbliche. Una nuova politica industriale europea potrebbe affrontare specifici obiettivi di avanzamento tecnologico – in campi come l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, la prevenzione e la cura delle malattie – attraverso politiche mission-oriented e commesse pubbliche per lo sviluppo di nuovi prodotti e processi con un largo potenziale di mercato. Politiche di questo tipo sono state a lungo adottate per favorire gli sforzi scientifici e tecnologici.
La nuova politica industriale dovrebbe essere coordinata con le altre politiche dell’Unione e collegata ad un rinnovamento della strategia di sostenibilità dell’Europa nel lungo periodo. Le maggiori sfide sono legate alle attuali regolamentazioni europee, in particolare a quelle che impediscono all’azione pubblica di “distorcere” l’azione dei mercati. Il livello comunitario è cruciale anche per il finanziamento degli interventi. Poiché si può scommettere sull’opposizione di alcuni paesi, si potrebbe pensare a interventi “a geometria variabile”, escludendo quei paesi che non vogliono partecipare.
Le istituzioni e gli interventi già esistenti, compresi i Fondi Strutturali e la Banca Europea degli Investimenti, potrebbero essere rinnovate e integrate in una nuova politica industriale. Ciò nonostante, il loro modo di operare dovrebbe essere radicalmente cambiato. Nel lungo termine c’è la necessità di definire istituzioni dedicate – una Banca Europea per gli Investimenti Pubblici o una Agenzia Industriale Europea – coerenti con il mandato di riformare la struttura produttiva dell’Europa.
I governi dell’Unione Europea e il Parlamento Europeo dovrebbero accordarsi sulle linee di conduzione e sul finanziamento della politica industriale e invitare la Commissione ad individuare strumenti appropriati di politica economica. In ciascun paese, una istituzione specificamente dedicata potrebbe assumere il ruolo di coordinamento delle politiche industriali nazionali. Queste istituzioni dovrebbero identificare le nuove attività pubbliche da finanziare, i progetti da sviluppare e le imprese private da supportare – sia con commesse pubbliche sia con interessi agevolati sui prestiti o direttamente tramite il possesso di una quota azionaria.
Il finanziamento di una politica industriale UE dovrebbe avvenire con risorse prettamente europee. È essenziale che i paesi più in difficoltà coi bilanci pubblici non siano messe ancora più sotto pressione con la richiesta di risorse addizionali e che i debiti pubblici non vengano aumentati. L’ordine di grandezza per il finanziamento di un programma di politica industriale è quello immaginato dalla DGB e dall’ETUC, pari al 2% del Pil dell’Unione, circa 260 miliardi di euro da investire ogni anno per dieci anni. Uno sforzo di questo tipo appare praticabile. Esso contribuirebbe a concludere la fase di stagnazione in cui versa l’Europa e a ri-orientare l’investimento europeo – pubblico e privato – verso un sistema industriale basato su uno sviluppo sostenibile.
Diversi progetti di finanziamento possono essere immaginati. Come suggerito dalla DGB, i fondi potrebbero essere recuperati sui mercati finanziari da una nuova Agenzia Pubblica Europea; oppure provenire finalmente da una tassa sulla ricchezza o da una più incisiva tassazione delle transazioni finanziarie. Tasse di questo tipo potrebbero contribuire a coprire i pagamenti degli interessi per quei progetti che non generano immediati profitti sul mercato.
Un’alternativa potrebbe venire da una profonda riforma fiscale europea, che introduca una tassa “europea” sulle imprese, annullando di fatto la competizione fiscale tra gli stati membri. Il 15% dei proventi potrebbe essere gestito direttamente dall’Unione e andare a finanziare la politica industriale, l’investimento pubblico, la generazione e la diffusione di conoscenza; il resto potrebbe essere trasferito ai bilanci degli stati membri.
Per ridurre il ricorso a politiche poco trasparenti e condizionate dalle lobby e dagli interessi, i paesi e le regioni in cui tali investimenti potrebbero essere indirizzati dovrebbero essere definiti in anticipo, con l’esplicita intenzione di ridurre la polarizzazione che sta indebolendo la base industriale della “periferia” europea. Ad esempio, il 75% dei fondi potrebbe essere investito in attività localizzate nei paesi della “periferia” (l’Europa del Sud, l’Europa dell’Est, l’Irlanda) – e almeno il 50% delle risorse destinate alle regioni più povere di tali paesi – mentre il 25% potrebbe andare alle regioni più povere dei paesi del “centro”. Le politiche non dovrebbero favorire le attività produttive orientate alle esportazioni, ma attività che favoriscano lo sviluppo sostenibile delle economie locali e la nascita di nuove attività pubbliche, non profit e cooperative. La collusione tra l’azione di politica industriale e il potere economico e politico che abbiamo conosciuto in passato dovrebbe essere superata attraverso il ricorso ad ampie consultazioni pubbliche e ad un dibattito democratico su cosa e come produrre.
(Sbilanciamoci.info. Traduzione di Matteo Lucchese)