«È una grande responsabilità, ammetto di essere emozionato. E poi c’è un dato biografico che mi ha sempre colpito, sono nato il 24 gennaio del 1976». Michele De Palma, segretario generale della Fiom, oggi è a Genova. Parteciperà, per la prima volta, alla celebrazione dell’anniversario della morte di Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider assassinato dalle Br nel 1979. In questa intervista al Secolo XIX, De Palma ricorda Rossa e parla di lavoro e delle crisi industriali liguri.
Cosa è stato l’omicidio di Guido Rossa?
«La manifestazione della fine dell’esperienza brigatista. Le Br ammazzarono un lavoratore, un operaio, un delegato sindacale. Un uomo che aveva un rapporto con la democrazia che i lavoratori costruivano. Quel giorno si fermò la città, e poi si fermò il Paese intero. Dobbiamo ricordare Rossa nella contemporaneità, nel portato storico e materiale degli operai. C’è una democrazia del lavoro che nessuno può mettere in discussione: non le controparti, non la politica, né le esperienze dell’estremismo. Rossa era la quintessenza del Paese che si doveva costruire, ero un bambino quando fu ucciso, ho letto molto di lui, nella sua vita c’è l’idea della liberazione del lavoro, del lavoro come strumento di emancipazione e crescita».
L’Italsider di Rossa e l’ex Ilva di oggi, a un passo dall’amministrazione straordinaria.
«Se fossimo stati ascoltati per tempo, la soluzione pubblica rappresentava il maggiore livello di garanzia per gli impianti, i lavoratori e l’intero sistema industriale».
Situazione ancora critica?
«Ci sono schermaglie e potenziali contenziosi che potrebbero aprirsi. Se la schermaglia mette a rischio la sicurezza dei lavoratori e degli impianti, bisogna impedirlo. Da quanto emerge dalle dichiarazioni del Governo la possibilità di accordo tra i soci sembra svanire».
Il governo sta affrontando il tema dell’indotto?
«Sì perché noi lo abbiamo posto negli incontri. La soluzione migliore sarebbe stata la salita pubblica, ma andava preparata, nella consapevolezza che il piano industriale non veniva realizzato dalla gestione aziendale. Il governo ora ha proceduto alla decretazione per il commissariamento. La priorità è garantire la continuità produttiva, occupazionale e gli investimenti necessari a superare questo momento di crisi».
C’è chi teme che i commissari non saranno in grado di gestire il gruppo, viste anche le condizioni in cui si trova.
«Qui siamo arrivati a causa di una mancanza di capacità della gestione ArcelorMittal. Il governo ora deve individuare professionalità, senza usare il manuale Cencelli. Ci giochiamo migliaia di lavoratori, l’ambiente, la salute e il futuro dell’acciaio italiano. Non faremo sconti a nessuno, questo sia chiaro».
Il decreto prevede lo stanziamento di 320 milioni di euro.
«Non bastano, lo abbiamo detto al governo. Giorgetti ha spiegato che i 320 sono stati quantificati in base alla richiesta dell’attuale gestione, altre risorse arriveranno: prendo atto. Di certo il conto del disastro non lo pagheranno i lavoratori e le città».
Piaggio Aerospace è alla terza e ultima gara per la cessione degli asset. I termini sono stati prorogati, non è un buon segno.
«Credo non si debba escludere la partecipazione del pubblico insieme a soggetti privati. E quando dico pubblico non mi riferisco solo al capitale. Piaggio si occupa anche della manutenzione degli F35 e delle Frecce Tricolore».
Come valuta lo stato di Ansaldo Energia, dopo la ricapitalizzazione?
«Il salvataggio deve essere consolidato, servono commesse. Se la ricapitalizzazione c’è stata è merito dei lavoratori: dovrebbero essere nominati Cavalieri del lavoro, invece di finire sotto processo. Le istituzioni dovrebbero esprimersi su questo. Ogni volta che il deserto industriale tenta di avanzare, i metalmeccanici di Genova mettono in campo iniziative che lo contrastano».
Considerando le crisi, il futuro sarà il superamento dell’industria manifatturiera?
«Per anni la classe dirigente italiana è stata abbagliata dal superamento dell’industria manifatturiera a favore di altre attività. Al contrario, l’industria manifatturiera è centrale, senza l’economia di un Paese non regge. La transizione ecologica e digitale non si fa senza l’industria. Tutto è industria: la macchina Esaote con la quale l’altro giorno ho fatto un esame in ospedale, la mobilità, la cybersecurity. Un Paese che sceglie di non avere industria sceglie di farsi governare da altri. Stiamo parlando di un elemento strategico di sovranità costituzionale. Vale per l’Italia e anche per l’Europa».
Cosa pensa delle privatizzazioni avviate dal governo?
«Fanno cassa vendendo pezzi di aziende che garantiscono reddito allo Stato. Invece di tassare chi ha di più e investire sulle aziende pubbliche, monetizzano i gioielli di famiglia. Vanno al banco dei pegni, ma ciò che vendono appartiene a tutti noi, non è roba loro».Intervista su Il Secolo XIX di Gilda Ferrari