Michele De Palma, segretario generale della Fiom, la vicenda dell’ex Ilva è arrivata al redde rationem con la rottura fra governo e Mittal. Voi nel 2018 firmaste l’accordo con i franco indiani: non era meglio scegliere Jindal e la sua decabornizzazione?
Con i sé e con i ma non si fa la storia. Di sicuro in un momento così delicato noi continuiamo a far sentire la voce dei lavoratori, messi in secondo piano nella vertenza ex Ilva.
Voi, come Fim e Uilm, valorizzaste quell’accordo del 2018 soprattutto sotto l’aspetto occupazionale: tutti gli 11 mila lavoratori furono garantiti sebbene il passaggio dei 3 mila rimasti all’amministrazione straordinaria a Mittal non è mai arrivato…
E noi infatti abbiamo sempre denunciato l’inadempienza della nostra controparte nel mancato rispetto dell’accordo, che salvaguarda tutti i lavoratori compresi quelli in amministrazione straordinaria. Ricordo sempre che i commissari hanno la custodia degli impianti. Mittal in questi anni non solo ha disatteso il piano industriale ma non ha nemmeno effettuato le minime manutenzioni necessarie per tenere in sicurezza gli impianti come denunciato dai nostri Rls a Genova, Novi Ligure e Taranto, con il rischio di gravissimi incidenti sul lavoro oltre che danni ambientali.
La vera cesura avviene infatti quando Mittal chiama a dirigere l’ex Ilva Lucia Morselli, manager che voi metalmeccanici conoscete bene alla Berco e poi all’acciaierie di Terni: una vera tagliatrice di teste che entra in gioco quando il proprietario non vuole più mettere un euro.
La cesura avviene quando Mittal decide il deconsolidamento, ritira i suoi uomini e l’ex Ilva esce dal gruppo con le evidenti conseguenze finanziarie. Anche nella lunga vicenda in Fiat, non ho mai personalizzato lo scontro perché penso che come sindacalisti noi dobbiamo rappresentare l’interesse dei lavoratori. Posso però dire che con l’arrivo di Morselli abbiamo constatato il totale azzeramento delle relazioni industriali e la presa unilaterale da parte sua di tutte le scelte: se non è questo un comportamento antisindacale.
La risposta del governo dell’epoca fu la nomina di Franco Bernabè, boiardo di stato, uomo per tutte le stagioni e totalmente digiuno di siderurgia.
La prima volta che lo incontrammo ci prospettò un favoloso piano industriale di 10 anni. Io rimasi colpito perché la realtà che ci descrivevano gli operai nelle assemblee era opposta. E difatti quel piano si tramutò nella richiesta di un miliardo al solo scopo di dare continuità produttiva. Il governo dell’epoca gliene riconobbe 680 milioni, gli stessi di cui si continua a discutere e che non sono stati tramutati in aumento di capitale per avere il pubblico in maggioranza.
Ex Ilva è sempre stata una vertenza difficile per voi per lo scontro lavoro-ambiente. Paradossalmente ora anche gli ambientalisti tarantini, sempre contrari all’acciaieria, capiscono che la chiusura mette a rischio anche la bonifica. Questo paradosso apre una speranza?
Io mi metto sempre nei panni dei lavoratori di Taranto che vivono la città e gli effetti drammatici dell’inquinamento. Una parte di opinione pubblica ha pensato che ci fosse una responsabilità dei sindacati nell’aver messo il lavoro davanti alla tutela dell’ambiente. Ma la Fiom ha sempre messo al centro la dignità, come prevede l’articolo 41 della nostra Costituzione. Tanto è vero che ci siamo costituiti parte civile nei processi sull’inquinamento e sulla tutela della salute dei lavoratori. È stata la rendita, il capitale a voler guadagnare senza rispettare l’ambiente, le leggi, la sicurezza sul lavoro. Esempi di riconversioni cosiddette green di acciaierie ce ne sono in Europa, dobbiamo riuscirci anche qui, non esistono scorciatoie. Con le associazioni ambientaliste dobbiamo costruire un nesso tra lavoro e ambiente per la transizione ecologica della siderurgia.
Veniamo a lunedì. Molti vaticinavano un accordo in extremis fra Mittal e governo che invece non c’è stato. Alla fine forse il «commissariato» Urso avrebbe gestito meglio la vertenza. Cosa succederà ora?
L’amministrazione straordinaria porta con sè molti rischi per l’azzeramento dei crediti e un probabile scontro legale con gli indiani.
I lavoratori non possono pagare il prezzo dell’attendismo dei vari governi. La volontà di Mittal di non investire era evidente già allora ma noi sindacati venivano canzonati quando la denunciavamo. Oggi perfino i commentatori più liberal-liberisti chiedono la nazionalizzazione ma il problema è che ci arriviamo con due anni di inerzia. Per noi ci sono tre condizioni imprescindibili: il mantenimento dei livelli occupazionali, della bonifica ambientale, della produzione sostenibile. Occorre mettere in sicurezza i lavoratori, gli impianti e l’ambiente. Il governo deve sapere che useremo tutti i mezzi a nostra disposizione perché qualsiasi soluzione ci sia prospettata le preveda tutte e tre. Per garantire il rilancio dell’ex Ilva e della siderurgia italiana occorre garantire a Taranto il ciclo integrato con Afo 5, i forni elettrici e il DRI, a Genova il ripristino del carroponte e l’implementazione della produzione della latta, e interventi di manutenzione straordinaria a Novi e in tutti gli altri stabilimenti.
In tutto questo scontro dentro il governo, Giorgia Meloni non ha mai detto una parola. L’11 ve la aspettate?
Nella convocazione a palazzo Chigi non è prevista la sua presenza. Ma in una vertenza così importante la presidente del consiglio ci deve essere perché senza acciaio non c’è futuro industriale per il Paese. Noi, come Fim, Fiom e Uilm, davanti all’interesse straordinario abbiamo costruito, nelle differenze, una posizione unitaria. Vorrei che lo facesse anche tutta la politica, opposizione compresa.