“È ancora possibile, in un mondo stravolto rispetto a quello in cui ci siamo formati, dare rappresentanza autonoma al lavoro? In altre parole, il sindacalismo confederale ha un futuro? E quale?” Erano gli interrogativi che Claudio Sabattini poneva a se stesso e ai suoi compagni nell’ultimo periodo della sua vita. A vent’anni dalla sua scomparsa – avvenuta il 3 settembre 2003 – siamo ancora alla ricerca di risposte che vadano oltre l’incalzare dell’attualità e delle sue urgenze. Perché in questi interrogativi del sindacalista che – tra gli anni Novanta e il 2000 – risollevò la Fiom dagli anni della “ritirata”, ridandole un’identità e una pratica conseguente, l’accento cade sul termine “confederale”, cioè su un sindacato generale che per Sabattini si qualificava attorno a tre parole chiave: indipendenza, contrattazione, democrazia.
L’indipendenza dalle controparti e dalla rappresentanza politica come fattore determinante per poter avere un punto di vista – persino una visione del mondo – ed esercitare una contrattazione che si confronti/scontri con interessi diversi – quelli delle imprese – per cercare una sintesi (un accordo tra le parti) che non è data “in natura” né “obbligatoria”, nutrita dalla democrazia del rapporto con i lavoratori, che rimangono i veri titolari del mandato di rappresentanza, cui spetta cioè l’ultima parola.
Questa “trilogia” teorica e pratica ha una natura profondamente classista: il sindacato nasce dal coalizzarsi dei lavoratori dentro il conflitto tra capitale e lavoro (motore della storia, non sua patologia come invece lo ritenevano fascisti, liberali o cattolici), si batte perché questo conflitto sia riconosciuto come legittimo dall’autorità politica (affinché le leggi gli permettano di esprimersi liberamente) e si propone di organizzarlo. Alla base del tutto c’è l’idea – radicalmente marxiana – dell’irriducibilità del lavoro al capitale e la convinzione che i lavoratori subordinati abbiano bisogni comuni e possano proporsi l’autogestione della loro vita e del loro lavoro, superando le divisioni particolari imposte da condizioni materiali e messaggi ideologici.
È questo l’intreccio che oggi va messo a confronto con la realtà per capire se quella “trilogia” sia ancora un orizzonte di riferimento che possa dare un futuro a un sindacato generale e che distingue un sindacato confederale dalle sue versioni di mercato o corporative, che – al contrario – un futuro ce l’hanno comunque garantito “in natura”. Un sindacato, cioè, che si proponga di rappresentare tutto il lavoro subordinato. E già quest’orizzonte ci pone un problema di non poco conto, nell’era della frammentazione industriale e del dominio della finanza che dividono e differenziano la condizione di chi lavora a un stesso prodotto (si pensi agli appalti e alle filiere), che spersonalizzano la controparte affidando la gestione ai manager il cui reddito è calcolato sui profitti a breve termine, mentre la proprietà corrisponde sempre più a una rendita sempre meno interessata a investimenti o programmazioni; gli uni e gli altri unificati da sentimenti più speculativi che produttivi. Un quadro in cui proporsi di rappresentare tutto il lavoro subordinato significa andare oltre l’inquadramento giuridico del singolo lavoratore, coinvolgendo nel “conto” quel che ancora oggi viene considerato “lavoro autonomo”, ma che in realtà ha una condizione di dipendenza totale dai propri committenti (si pensi, per esempio, a tutta la filiera della logistica, al dilagare degli appalti o a tanta parte dei lavori legati alla ricerca, alla comunicazione e alla conoscenza). In sintesi, proporsi di rappresentare e tutelare un proletariato sempre più numeroso, impoverito e disperso; e senza troppi vincoli “nazionali”, perché le filiere non conoscono confini, nemmeno quelli dei contratti nazionali che vengono disarticolati e resi inapplicabili a fasce crescenti di lavoratori.
In questo panorama un’indipendenza di pensiero e azione non può che misurarsi su terreni generali, occupandosi dei grandi processi di trasformazione, delle rivendicazioni e dei diritti fondamentali di chi lavora; sapendo che così la rappresentanza sociale rischia di diventare concorrente alla rappresentanza politica, o di supplire alle sue mancanze. Cosa di per sé in parte inevitabile in un mondo globale in cui tutto è interconnesso, e nemmeno troppo negativa – nonostante le ovvie accuse di pansindacalismo che può tirarsi addosso – non fosse per il rischio di scivolare dalla rappresentanza alla rappresentazione, malattia che ha ormai contagiato profondamente la dialettica politica delle democrazie occidentali. Non è solo un problema “comunicativo” – anche se va tenuto presente il rischio di farsi dettare l’agenda dai media, concentrando su di essi troppe attenzioni ed energie – o di sbilanciamento tra gli annunci e la pratica (col rischio di non fare ciò che si dice, deriva letale per la credibilità); è soprattutto un problema legato al ruolo del sindacato che, dovendosi misurare con politica e istituzioni, rischia di assumere esso stesso un ruolo istituzionale, soprattutto di essere considerato o percepito sempre di più parte di un “sistema”. In un corto circuito in cui l’indipendenza finisce per divorare se stessa.
Naturalmente i contenuti sono discriminanti per evitare questi rischi e la contrattazione collettiva rappresenta ancora la pratica per farli vivere. Ma è proprio l’esperienza quotidiana di questi anni che ci insegna quanto sia complicato contrattare: l’instabilità economica, la precarietà e l’aumento delle diseguaglianze (non più patologie legate a fase di crisi, ma elementi strutturali del capitalismo odierno), facendo crescere insicurezze e paure, hanno incrementato pure la frammentazione sociale e la concorrenza dentro il mondo del lavoro – al limite del conflitto orizzontale –, ne hanno allentato i legami di solidarietà spingendo all’individualismo. La contrattazione collettiva oggi si deve misurare con questo panorama e richiede un di più di analisi e studio dell’organizzazione del lavoro e delle sue condizioni, allargando lo sguardo e la pratica alle filiere e a tutto il mondo del “lavoro informale”. Vale per la contrattazione nazionale come – forse soprattutto – per quella di secondo livello, che deve anche affrontare sempre di più la “concorrenza” delle aziende che tendono a stabilire un rapporto diretto – e clientelare – con ogni singolo lavoratore. Il sindacato, quindi, è chiamato a uno sforzo di soggettività maggiore che in passato e lo deve fare evitando di separarsi da chi vuole rappresentare e allo stesso tempo cercando di allargare la rappresentanza. Qualunque sindacalista che provi a calare questi principi, ad esempio, nella realtà di un contratto aziendale o di gruppo, può facilmente rendersi conto della difficoltà dell’impresa.
Che tuttavia è vitale, almeno se si pensa che la contrattazione collettiva sia il cuore e il senso del sindacato; altrimenti, si può tranquillamente imboccare altre strade, sicuramente più comode.
Altrettanto “scomodo” si sta rivelando il terzo perno della “trilogia” sabattiniana: la democrazia. Che è in difficoltà in tutto il mondo, a partire dagli impianti istituzionali costruiti dentro lo sviluppo capitalistico e culminati nella sua fase fordista. Il nazional-populismo che soffia su tutto l’Occidente e la caduta di credibilità che la democrazia liberale ha nel resto del mondo, testimoniano una crisi esplosa subito dopo il crollo delle illusioni secondo cui la globalizzazione doveva portare con sé una nuova belle époque mondiale. E, proprio come quella fase della storia, il collasso del diritto internazionale e la tendenza a tradurre in guerra i conflitti economici, geopolitici e – oggi – ambientali (nell’impossibilità dell’attuale modello di produzione di concepire il concetto stesso di “limite” allo sviluppo e all’accumulazione), costituiscono un terrificante mix che mette in discussione il futuro non solo dei sistemi politici ma quello della stessa umanità.
Il mondo del lavoro, la sua rappresentanza, non possono non risentire di tutto questo: la guerra, in tutte le sue forme, è incompatibile con la democrazia, in particolare con la partecipazione alla cosa pubblica. Vale anche dentro le imprese, nelle relazioni industriali, dentro e tra le organizzazioni di rappresentanza. Soprattutto nel e per il sindacato. Che può essere generale e contrattare solo se alimentato dalla partecipazione dei lavoratori: un sindacato di mercato o corporativo può tranquillamente essere un’organizzazione di iscritti, la cui vita interna è gestita da regolamenti e quella esterna dalle leggi del Paese d’appartenenza; un sindacato confederale deve pretendere di rappresentare tutti e garantire a tutti – seppur a vario livello tra iscritti e non – il diritto di partecipare e decidere sulle sue scelte. La titolarità del mandato, da questo punto di vista, è dirimente; e quella affidata ai protagonisti in carne e ossa della creazione della ricchezza resta la principale garanzia per l’azione sindacale. Per questo le regole sono fondamentali: dal voto sui contratti alle leggi sulla rappresentanza. Ma nessuna legge sulla rappresentanza (che, per altro, in Italia ancora non abbiamo), può garantire lo spirito dell’articolo 39 della Costituzione, cioè una rappresentanza erga omnes. Senza una partecipazione diretta e praticata quotidianamente, l’autonomia del sindacato rischia grosso.
Le leggi sulla rappresentanza dentro i luoghi di lavoro (e nei rapporti di lavoro più in generale) sono certamente importanti per la democrazia, ma non garantiscono di per sé la qualità democratica di un’organizzazione sindacale – esattamente come le leggi per fissare un minimo salariale non garantiscono in assoluto dignità ai redditi. Serve una pratica quotidiana; del resto affidarsi principalmente alle leggi è indice di difficoltà, indica una debolezza che va segnalata e affrontata. E qui c’è da scalare un’altra montagna, tra i tornanti del disimpegno individuale e quelle delle tendenze corporative proprie di questa fase storica. Forse potrebbe aiutare nell’impresa affrontare queste sfide partendo da sé – come insegnano le pratiche femministe – e misurando la qualità democratica all’interno dell’organizzazione e dentro gli organi di rappresentanza – come è stato per la “rivoluzione” consiliare degli anni Settanta.
I vent’anni che ci separano dalla morte di Claudio Sabattini hanno aumentato – non diminuito – la difficoltà di dare disposte efficaci alle sue domande finali. Tuttavia quelle sue domande e quelle sue priorità ci sono ancora utili per trovare le strade necessarie.
Per “cercare ancora” libertà e giustizia sociale.