C’è un filo che tiene insieme la pace il lavoro e la democrazia. Saremo in piazza per chiedere di far tacere le armi, fermare l’escalation e dare un’opportunità al negoziato. Ma anche per opporci alla militarizzazione del dibattito pubblico e alle culture militariste che rinascono in Europa e per chiedere di investire nell’industria civile e non in quella delle armi». Michele De Palma guida da qualche mese i metalmeccanici della Fiom, la federazione delle tute blu Cgil che ha aderito alla manifestazione di oggi a Roma.
Porterete le vostre bandiere di sindacato a una manifestazione non sindacale. Perché?
Da subito la Fiom ha avuto una posizione chiara contro questa guerra, posizione che è nel solco della sua storia. Abbiamo sempre sostenuto che occorreva sostenere la popolazione civili e in particolare quella ucraina e cercato di convincere il nostro governo che l’invio delle armi porta ad altre armi. Ci dicevano che altrimenti non si sarebbe fermata l’escalation. Ma oggi ci troviamo davanti a un’escalation dove addirittura si arriva a parlare di bombe atomiche. Questa situazione poi sta avendo degli effetti sulla tenuta sociale del Paese e sul suo tessuto industriale.
Vi accusano di confondere aggressori e aggrediti. Come risponde?
Ci chiedono di stare da una parte della barricata. Ma per noi questo significa stare dalla parte della popolazione ucraina e anche con quella parte della popolazione russa che subisce gli effetti dell'intervento militare del suo governo. Questa guerra sta impattando sulle condizioni materiali dei lavoratori in tutta Europa. Essere per la pace non significa essere per Putin, sappiamo chi è l’aggressore. Ma pace, lavoro e democrazia stanno insieme e un vescovo del mio paese, don Tonino Bello, mi ha insegnato che la povertà porta alla guerra e la guerra genera povertà, un nesso stringente che va superato.
Quali sono le ricadute della guerra sul nostro Paese?
Moltissime aziende che stanno aprendo le procedure per gli ammortizzatori sociali e per ridurre gli occupati, ci sono multinazionali che vendono aziende nel nostro Paese. Ecco gli effetti diretti che la guerra insieme all'inflazione, alla crisi dei mercati e delle materie prime. Avremo bisogno di investire nell'industria che genera un processo di cambiamento e in particolare nella transizione produttiva per il cambiamento climatico. Invece si aumentano le spese militari. Si racconta che per evitare di far esplodere il pianeta si perdono posti di lavoro, invece c’è bisogno di lavorare per evitare che il pianeta salti per aria. E può saltare per aria a causa dell’emergenza climatica e anche perché siamo tornati a una situazione di profonda instabilità geopolitica, la guerra non è solo in Ucraina.
Il governo sta per varare le prime misure per l’economia. Cosa si attende?
All'ordine del giorno deve esserci un punto fondamentale: un intervento coraggioso sulla tassazione. Con la crisi dell'industria, l’inflazione e l’aumenti dei tassi di interesse c’è un processo di impoverimento di una parte importante della popolazione e questo può portare al collasso del Paese. Bisogna ridurre le tasse per chi ha un lavoro salariato e aumentare l’imposizione fiscale su chi sta facendo risultati straordinari prima nella crisi pandemica e ora in quella energetica. Gli extraprofitti non riguardando solo l’energia, ci sono speculazioni e rendite anche nei mercati finanziari, in altri settori dell’industria, nelle banche. C’è bisogno di risorse per le politiche pubbliche e non si possono tagliare le tasse a tutti, a qualcuno vanno aumentate. Perché se si riduce il gettito fiscale si tagliano i servizi pubblici. Per i lavoratori che rappresento tagliare i fondi alla Sanità pubblica, alla scuola e all’università significa perdere una speranza per il futuro e per le generazioni che verranno.
Intervista del 5 novembre 2022 su Avvenire