Contrariamente all’Italia, gli Stati Uniti sfiorano la piena occupazione. Il marketing politico degli ultimi anni ha battuto incessantemente sulla prodigiosa ripresa economica del Paese. Ma a che prezzo? Le dismissioni industriali dell’ultimo decennio hanno trasfigurato città come Detroit, da Motor City a Ghost Town e ora a Fun Town e Science Town. Il lavoro è diventato flessibile, precario. A seconda che lo si qualifichi con il primo o il secondo termine prevalgono gli aspetti positivi o negativi, i quali probabilmente coesistono. In tutto il mondo non si fa che ripetere che l’automazione sta liberando il lavoro da una pesante eredità di fatiche, lavori fisici e mentali stereotipati, ma almeno per ora sta anche cancellando milioni di posti di lavoro. Alle casse automatiche di Ikea basta ora un lavoratore ogni 4-6 casse, per aiutare i clienti in difficoltà. Quindi via i cassieri, lavoro in via di estinzione, seguito a ruota - seconda la previsione di un rapporto sull’automazione dell’Università di Oxford - da addetti ai call center, sarti, bancari e assicuratori. Non tutti concordano con le previsioni degli autori del rapporto, secondo i quali entro 20 anni sarà a rischio il 47% dei posti di lavoro, sostituibili da macchine. Tuttavia dovrebbe restare valida la teoria della “disoccupazione tecnologica” formulata da John Maynard Keynes: “La scoperta dei mezzi per ridurre l’uso di manodopera procede più rapidamente della scoperta di nuovi usi della manodopera” Si confida piuttosto nel fatto che l’irrompere delle nuove tecnologie dell’automazione nel mondo del lavoro porti una sorta di distruzione creatrice: a licenziamenti immediati seguiranno molte più opportunità di lavoro future. Secondo il World Economic Forum, entro il 2020 l’automazione avrà cancellato 75 milioni di posti di lavoro nel mondo ma al contempo ne dovrebbe creare 122 milioni. A patto però che un imponente processo di formazione consenta alla grande maggioranza dele persone di acquisire competenze digitali considerate ormai necessarie per i nuovi lavori. Secondo la Commissione Europea 9 lavori su 10 richiederanno competenze digitali, possedute per ora solo da 5 europei su 10.
E‘ significativo che nella lista dei lavori che rischiano meno di scomparire a causa dell’automazione vi siano, fra gli altri, psicologi e psicoterapeuti. Il lavoro spesso genera stress, e ancora di più la mancanza di lavoro. Come diceva Woody Allen: “I soldi non danno la felicità, figuriamoci la miseria”. La compromissione della salute mentale è spesso il campanello d’allarme di successivi disturbi fisici. Questo è probabilmente il motivo per cui le indagini epidemiologiche post recessione in paesi come la Grecia e l’Italia hanno individuato il segnale più chiaro nell’aumento dei disturbi mentali, come ansia e depressione, e un aumento della mortalità da queste cause.
Anche i suicidi hanno conosciuto un aumento significativo in quasi tutti i paesi europei e negli Stati Uniti dopo la crisi economica del 2008 e la disoccupazione che ne è conseguita. Ma ancora più interessante è osservare come disturbi mentali e della personalità sarebbero anche alla radice della crisi che da Wall Street si è diffusa in tutto il mondo. Nel 2011, quando la crisi ancora mordeva, il governo americano istituì una Commissione d’inchiesta sulla crisi finanziaria nelle cui conclusioni si stigmatizzava il “fallimento sistematico dell’etica e del senso di responsabilità” in banchieri e finanzieri coinvolti nel crack, che nella maggioranza dei casi se la sono cavata con buonuscite milionarie. Narcisismo patologico, mancanza di empatia e senso di rimorso, propensione all’inganno sono le caratteristiche salienti degli speculatori che hanno raggirato milioni di persone con prestiti scoperti, titoli tossici e cartolarizzazioni azzardate. Guarda caso caratteristiche che rientrano tutte nella Psycopathy Checklist Scale, in base alla quale si può fare diagnosi di disturbo psicopatologico di personalità.
Il lavoro dà di che vivere ma può uccidere, e lo stress è spesso il tramite di questo effetto. Il concetto moderno di stress ha una lunga storia, ma chi l’ha posto più efficacemente in relazione alle condizioni di lavoro è lo psicologo svedese Robert Karasek, che insieme al collega Tores Theorell, ha definito lo stress lavorativo come risultato di un’alta domanda unita a un basso controllo. Se a una domanda di lavoro intensa (scadenze, numero di attività da svolgere in un’ora, quantità di relazioni da scrivere) si accompagna un basso livello di libertà decisionale e competenze sul ciclo produttivo da parte del lavoratore (controllo), si ha un alto rischio di stress che può facilmente tradursi in ansia, depressione, fino a vere e proprie somatizzazioni come malattie cardiovascolari. A questa prima formulazione, che risale agli anni Settanta, si è aggiunto in seguito una terza dimensione: il supporto sociale, che può contrastare il deficit di controllo. Riassume Karasek: ”Quello che oggi è definito un lavoro ad alto rischio di stress psicologico è un lavoro che implica un basso livello di libertà decisionale, un basso livello di competenze e un notevole impegno psicologico; inoltre è caratterizzato da sforzo fisico limitato e dall’isolamento del singolo lavoratore dagli altri colleghi”.
Sono più esposti allo stress negativo figure di basso livello come gli operatori dei call center, gli impiegati non qualificati, i lavoratori stagionali. E non solo gli immigrati che raccolgono pomodori nei nuovi campi di schiavi del Meridione. Un certo stress può comportare anche fare lo stagionale sotto le feste di Natale nei magazzini di Amazon, a cui – secondo alcune cronache - viene richiesto, per una paga di circa 7 euro l’ora, di effettuare quattro turni di almeno 50 ore a settimana, una pausa di 15 minuti e l’obbligo di indossare un braccialetto che monitora la produttività nel recuperare dagli scaffali la merce e impacchettarla.
Molto più accettabile, quando non addirittura benefico, invece, è lo stress di manager e professionisti, dove l’alta domanda è compensata da un altrettanto elevato controllo sulla propria vita lavorativa. I lavori cosiddetti passivi sono invece quelli dove sono basse sia la richiesta di lavoro sia il controllo e le competenze, condizione che riguarda figure di impiegati amministrativi, portieri, guardiani. Lo stress, in questo caso, è spesso la conseguenza di un isolamento sociale e un ritiro dalla vita politica ancora più inquietante del lavoro ripetitivo e alienante in fabbrica. L’ultima variante riguarda coloro che esercitano una forte autonomia e controllo sul proprio lavoro ma sono soggetti a una scarsa domanda di impegno lavorativo.
Il modello di Karasek è ancora oggi la base dei questionari impiegati dai medici e psicologi del lavoro operanti anche in Italia, anche se i repentini cambiamenti nel mondo del lavoro contemporaneo, sotto la duplice spinta della precarizzazione e dell’automazione, rendono il quadro più sfumato. Come etichettare per esempio i nuovi addetti della cosiddetta platform economy? Sono questi in prevalenza giovani, a volte ancora studenti, che fanno consegne, puliscono uffici o eseguono lavori e riparazioni nelle case, trasportano passeggeri (come nel caso di Uber), o partecipano ad aste online per aggiudicarsi lavori di copyright, traduzioni, design e altro ancora. Le piattaforme che distribuiscono su base giornaliera questi lavori sono offline ma più frequentemente online (si contano attualmente 173 siti di questo genere in Europa). Dalle prime indagini non emergono in realtà particolari lamentele. Nella fascia più qualificata di professionisti e creativi il lavoro sembra dare soddisfazione pur nella sua natura di complemento a lavori più strutturati. Nelle mansioni meno qualificate emergono invece preoccupazioni ancora anteriori allo stress, quali la fatica, il rischio di incidenti stradali, il freddo, la mancanza di un luogo fisico dove riposare e condividere con altri la propria condizione fra un lavoretto e l’altro. In fondo la gig economy (come si preferisce chiamarla nei paesi anglosassoni) lascia al lavoratore stesso - per definizione precario - porsi il livello di domanda lavorativa che preferisce, o che è in grado di sopportare.
Alla radice dello stress stanno i totem della produttività e della divisione del lavoro, ritenuti essenziali fin dai tempi di Adam Smith. Il frazionamento delle mansioni, in un mercato ideale di libero scambio, aumenterebbe la produttività ma anche il benessere di ciascuno, unito agli altri da scambi economici in una comunità armoniosa. L’utopia che Smith descrive nella Ricchezza delle Nazioni viene portata alle conseguenze estreme da Taylor, che nel 1911 suggerisce una ulteriore semplificazione del lavoro fino a raggiungere la massima riduzione alle singole “competenze essenziali” che dovrebbero poi ricomporsi nel meccanismo perfetto del lavoro in fabbrica. Il piano, opportunamente messo a punto dagli ingegneri, è volto alla massima resa e alla riduzione della fatica e, di nuovo, all’aumento del benessere di ogni lavoratore, per quanto infimo sia il suo ruolo. Nel 1913, con Henry Ford, la divisione del lavoro aumenta ancora, arrivando a una eliminazione estrema dei “movimenti superflui”, fra i quali lo spostarsi e le pause. Basta stare fermi al proprio posto, sarà il nastro trasportatore della catena di montaggio a muoversi. Il metodo viene fatto proprio pochi anni dopo anche da Vladimir Ilic Lenin nelle fabbriche della neonata Unione Sovietica, sempre per il bene dei lavoratori e della massima resa.
Lo stress sul lavoro, stretto fra alta domanda e basso controllo, è il sintomo psichico che scaturisce dalla rimozione del diritto al movimento, alle pause, più in generale alla soggettività e alla partecipazione politica dei lavoratori. La produttività e la divisione del lavoro sono in altri termini i presupposti della malattia.
La globalizzazione, con la redistribuzione su scala planetaria delle produzioni, e l’automazione, che promette di sostituire il lavoro umano con quello meccanico, rischiano di allontanare ulteriormente il lavoratore dalla sua comunità di riferimento e dal contatto con i consumatori dei beni o servizi che produce, e possono generare un ambiente ancora più ostile alla crescita professionale e al benessere lavorativo. “Nessuna opportunità di imparare, un monitoraggio da parte dei computer, noia intervallata da situazioni di crisi, licenziamenti inaspettati, nessun diritto, isolamento sociale, competizione tra i lavoratori, perdita dei contatti con il vero mondo dei consumatori, ovvero feedback, scambi, convivialità”.
Ci troviamo così di fronte al paradosso per cui la salute mentale può risentire tanto della mancanza quanto della presenza di lavoro. E forse la più luminosa intuizione dei teorici dello stress lavorativo è stata proprio quella di cogliere una sorta di incompatibilità fra l’organizzazione della mente umana (plasmata dall‘evoluzione) e l’attuale organizzazione del lavoro, almeno per la grande maggioranza delle persone.
Non riguarda quindi solo il superamento delle disuguaglianze socioeconomiche ma anche il bisogno di ripianare i debito mentale diffuso l’appello lanciato dal premio Nobel per l‘economia Josep Stiglitz e dal collega Bruce Greenwald nel loro ultimo libro. Solo un massiccio investimento nella conoscenza per tutti e nella formazione continua può riumanizzare il mondo del lavoro e la società.