L’occupazione nell’ultimo anno in Italia in termini numerici è stata sostanzialmente stabile, senza quasi alcun effetto dal decreto Dignità, in vigore dal 31 ottobre, come certificano i dati di novembre dell’Istat. Nei 12 mesi è cresciuta di 129 mila unità l’occupazione maschile mentre quella femminile è diminuita di 30 mila unità mentre in totale gli occupati a termine ormai superano i 3 milioni.
L’Eurostat segnala, da parte sua, una crescita significativa, anche in Italia dei workers poor, ovvero le persone che pur lavorando non riescono ad avere un reddito che consenta loro una vita dignitosa. Nel 2007, prima della crisi, erano all’incirca il 9% di tutti gli occupati italiani, a dieci anni di distanza sono cresciuti del 30%, pari a 700 mila persone in più, fino a superare la quota di 2,8 milioni di persone, oltre il 12% della forza lavoro.
Se si considerano gli anni tra il 2013 e il terzo trimestre del 2018 mentre il numero di operai e artigiani è rimasto sostanzialmente invariato, sono cresciute di mezzo milione le professioni qualificate e tecniche e di 450 mila gli addetti a servizi personali e di vendita, di altri 200 mila i lavori non qualificati.
In questi ultimi anni si sono verificati notevoli mutamenti che non hanno interessato soltanto il versante giuridico e legislativo, con l’introduzione del Jobs Act. La rivoluzione digitale e i suoi riflessi nel mondo del lavoro hanno cambiato le carte in tavola e siamo in attesa di una nuova stagione dei diritti che pure sembra iniziare anche a partire dalla storica sentenza emessa l’11 gennaio da parte della Corte d’Appello di Torino. La Corte presieduta da Clotilde Fierro ha ribaltato la sentenza di primo grado e riconosciuto il rapporto di lavoro dei cliclofattorini come collaborazione “etero organizzata” e quindi subordinata, così almeno potendo questi lavoratori accedere almeno per via giuridica a tutele e diritti codificati.
C’è da ricordare che due anni fa, il 19 gennaio 2017 il Parlamento europeo con una risoluzione ha dichiarato l’intenzione di stabilire gli standard minimi di tutela dei lavoratori su piattaforma, “contingenti”, inclusi i gig workers.
Sulle dinamiche dell’economia digitale, su piattaforma, su App, sia in Italia che intatta Europa, sui suoi risvolti lavoristici e finanziari, è stato pubblicato a dicembre un interessante ed esaustivo report di Dario Guarascio per l’Inapp di cui di seguito riportiamo una sintesi estesa.
Il Rapporto INAPP sull’economia delle piattaforme analizza il fenomeno dell’economia delle piattaforme digitali adottando una prospettiva interdisciplinare e ponendo l’accento sulle implicazioni economiche, sociologiche e giuridiche dello stesso fenomeno. Il diffondersi delle piattaforme digitali è una tendenza riconducibile all’interno di un più generale processo di digitalizzazione ed automazione delle relazioni socio-economiche. Le piattaforme, tuttavia, costituiscono un elemento paradigmatico di tale trasformazione in ragione del ruolo cruciale che i dati svolgono nell’esercizio delle attività economiche che hanno luogo all’interno del perimetro delle piattaforme e dell’elevatissima flessibilità gestionale ed organizzativa che le stesse consentono.
Le piattaforme digitali possono trovare una prima generale definizione mediante la descrizione dei tratti salienti del modello organizzativo che le contraddistingue. Il modello organizzativo delle piattaforme digitali trova: i) nel controllo di larghi flussi di informazione digitalizzata la principale fonte di potere economico ii) nella crescita continua del numero di soggetti (nodi) fornitori di informazione rilevante a fini economici la fonte di accrescimento e consolidamento di tale potere iii) nella società frammentata (i.e. frammentazione intesa come polarizzazione e diseguale distribuzione di condizioni ed opportunità sociali ed economiche) il suo contesto d’elezione. La distinzione canonica proposta in letteratura è quella tra piattaforme di capitale e piattaforme di lavoro (Guarascio e Sacchi, 2017; 2018). Nel primo caso, le piattaforme favoriscono la connessione tra clienti e venditori con questi ultimi che cedono in modo diretto beni di cui sono proprietari. Le piattaforme di lavoro favoriscono invece l’incontro tra clienti e prestatori di servizi che possono essere espletati nel mondo fisico (gig work) o virtuale (on-demand work).
All’interno del perimetro delle piattaforme digitali, tuttavia, ricadono anche soggetti economici operanti in settori come quello pubblicitario e del commercio al dettaglio che hanno nel controllo e nella gestione di dati l’elemento chiave della loro attività di mercato. Tra gli effetti socio-economici connessi all’avvento delle piattaforme digitali ed analizzati nel presente rapporto vi sono l’impatto sulla quantità e la qualità dell’occupazione; sull’organizzazione del lavoro e le relazioni industriali; sulla dinamica dei mercati in termini di concentrazione e concorrenza; sugli assetti giuridici e regolamentari interessati dal dispiegarsi di tale fenomeno. Inoltre, il rapporto fornisce una mappatura, corredata da alcune evidenze empiriche, delle principali piattaforme operanti in Italia ed in Europa ed una dettagliata rassegna della letteratura internazionale che si è concentrata sull’analisi delle conseguenze economiche ed occupazionali delle piattaforme digitali.
Proponendo preliminarmente una rassegna delle tassonomie utilizzate in letteratura per la definizione e l’analisi delle piattaforme digitali, il primo capitolo ha lo scopo di fornire una concettualizzazione delle piattaforme stilata in base ad aspetti organizzativi, tecnologi e funzionali. Si ripercorrono, dunque, le principali tassonomie che la letteratura ha elaborato al fine di classificare le diverse tipologie di piattaforma. Mutuando in parte la proposta di Srnicek (2017), viene proposta una riflessione critica a partire da una classificazione delle piattaforme basata essenzialmente sulla considerazione della tipologia di attività economica e della natura dei beni e servizi veicolati dall’infrastruttura tecnologica. In particolare, vengono approfondite le peculiarità e le differenze intercorrenti tra: advertising platform, cloud platform, industrial platform, product platform e lean platform.
Le advertising platform sono piattaforme digitali orientate prioritariamente al fine di consentire ai loro proprietari l’estrazione di dati relativi alle loro preferenze degli utenti. Esempi emblematici di questo tipo di piattaforma sono Google e Facebook. Le cloud platform organizzano e mettono a disposizione on line l’hardware (macchine virtuali), il software e le funzionalità di elaborazione dati (c.d. cloud computing) di cui le aziende e i singoli hanno bisogno per lo svolgimento di attività di loro interesse. Un esempio significativo di questa categoria di piattaforme è Amazon Web Services, piattaforma di cloud computing che rende accessibile on line, in maniera flessibile e scalabile, un ventaglio molto ampio di servizi che va dal calcolo scientifico (Amazon Elastic Compute Cloud, Amazon Lambda), all’archiviazione e distribuzione dei contenuti (Amazon Simple Storage Service) alle più avanzate funzioni di data analytics e intelligenza artificiale (Amazon Machine Learning).
Le industrial platforms rispondono invece all’esigenza di creare strumenti per la comunicazione all’interno dei sistemi aziendali, offrendo il nucleo di base per collegare sensori e attuatori, fabbriche e fornitori, produttori e consumatori, software e hardware. Al momento i principali esempi di piattaforme industriali sono quelli offerti da imprese quali General Electric (che ha creato la piattaforma Predix) e Siemens (con la piattaforma Mindsphere). Altri due modelli distinti ma strettamente correlati sono quello delle product platform e quello delle lean platform. Uber e Zipcar sono due esempi rappresentativi delle categorie appena citate, piattaforme progettate per i consumatori che desiderano noleggiare alcune risorse per un dato periodo. Mentre sono simili in questo senso, i loro modelli di business sono differenti. Zipcar possiede le risorse che noleggia, i veicoli; Uber no. La prima è una product platform, un tipo di piattaforma di “beni come servizio”, mentre il secondo è una lean platform che tenta di esternalizzare la maggior quantità di costi possibile.
Nel secondo capitolo si fornisce una concettualizzazione economica e sociologica delle piattaforme digitali. Dal punto di vista economico, le piattaforme digitali costituiscono un approfondimento del processo di abbattimento delle barriere spazio-temporali che regolano (e disciplinano) le relazioni economiche, produttive e comunicative (Guarascio e Sacchi; 2018). Un processo che ha avuto un’accelerazione verso la fine degli anni 70’ con l’imporsi del paradigma tecnologico dell’ICT e la frammentazione internazionale delle produzioni. La riduzione delle barriere spazio-temporali ha effetti sulla numerosità, sull’intensità e sulla qualità delle relazioni sociali ed economiche (attuali e potenziali). In primo luogo, il sistema di connessioni reso possibile da tecnologie quali Internet, gli Smartphone, il Machine learning o l’RFID consente di effettuare interazioni, scambi e contratti in precedenza non realizzabili. Similmente, l’emergere di ‘comunità’ virtuali dove vengono condivise informazioni circa le dotazioni (materiali e immateriali) di cui dispongono i partecipanti apre la strada a nuove forme di ‘consumo collettivo’ e condivisione di beni, servizi e competenze (Guarascio e Franzini, 2018).
L’abbattimento delle barriere spazio-temporali incide, inoltre, sulla distribuzione del potere e delle opportunità tra aree geografiche ed agenti socio-economici aprendo la strada a nuove configurazioni gerarchiche osservabili in termini di distribuzione relativa della ricchezza, del reddito e delle stesse opportunità. Nella seconda parte del capitolo si analizza invece la dimensione sociale nell’evoluzione tecnologica del lavoro e della produzione. La riorganizzazione del lavoro nelle piattaforme di intermediazione digitali impatta difatti non solo sulle condizioni economiche, ma anche sulla concezione stessa della natura del lavoro. Il lavoro collaborativo digitale viene in questo capitolo analizzato alla luce delle categorie proprie della ‘socializzazione produttiva’. In questo quadro, si propone un’analisi delle implicazioni sociologiche delle piattaforme digitali esaminando queste ultime alla luce delle tendenze in atto in termini di riorganizzazione delle tecniche di produzione, di produzione ed utilizzazione della conoscenza e di interazione tra capitale e lavoro.
Nel terzo capitolo si fornisce una ricognizione delle piattaforme digitali operanti sia in Italia sia a livello globale. Non si tratta, quindi, di un esercizio predefinito di mappatura dell’esistente, ma della verifica di ciò che in Italia e in Europa è stato fino ad oggi realizzato in tema di definizione delle categorie tassonomiche, di classificazioni e di schedatura delle piattaforme digitali. Al fine di presentare tale elencazione, si fa riferimento alle classificazioni discusse in precedenza, tenendo ben presente, in particolare, la distinzione tra labour platform e capital platform. Verranno dunque illustrate le modalità e i contenuti delle mappature delle digital platform recentemente prodotte da organismi pubblici, associazioni o soggetti privati. La mappatura proposta in questo capitolo include, inoltre, dati economici ed occupazionali relativi alle attività di alcune rilevanti piattaforme digitali operanti in Italia, In Europa e globalmente.
Il quarto capitolo propone una rassegna delle evidenze empiriche in materia di economia delle piattaforme. Dalla rassegna proposta emerge come, ad esempio, il numero dei lavoratori operanti attraverso le piattaforme digitali sia in costante crescita. Per quanto concerne la retribuzione media di questi stessi lavoratori emerge come la stessa tenda a mantenersi su livelli relativamente bassi. In Gran Bretagna, dove è stata condotta un’indagine approfondita in questo senso, il 40% degli individui coinvolti in attività lavorative gestite e mediate dalle piattaforme dichiara di aver guadagnato, durante gli ultimi dodici mesi, meno di 250 sterline (il reddito medio si attesta intorno alle 375 sterline). Per quel che riguarda gli aspetti socio-demografici di questi lavoratori, l’identikit del lavoratore delle piattaforme risulta essere il seguente: tendenzialmente giovane, per lo più di sesso femminile (specialmente oltre i confini del Vecchio Continente) e con un titolo di studio elevato, comunque con conoscenze e competenze spesso di alto profilo.
Nel quinto capitolo vengono, infine, indagate le implicazioni giuridiche e regolamentari associate alla presenza ed allo sviluppo delle piattaforme digitali e proposte alcune linee di intervento possibili per ciò che concerne la regolamentazione delle attività delle medesime piattaforme in particolare per quel che riguarda la disciplina dei rapporti di lavoro. Alla base del funzionamento delle piattaforme vi è un rapporto trilaterale (piattaforma, utente e lavoratore). Nella sua parte iniziale, il capitolo analizza e discute tale natura trilaterale ponendo in luce conseguenze e criticità. Inoltre, viene affrontato il tema della ‘distribuzione del rischio’ tra imprese e lavoratori quando i rapporti sono mediati da piattaforme digitali. In particolare, vengono messe in evidenze due diverse strategie di “traslazione del rischio”: in un caso la piattaforma si auto-qualifica quale mero gestore di servizi tecnologici (Technology business model) e così si sottrae a qualsiasi responsabilità in ordine ai rapporti tra lavoratori e utenti; in un altro, la piattaforma stipula con i lavoratori un contratto di lavoro autonomo (Indipendent contractor business model), in un contesto che vede però, se non altro in determinati casi, una difficoltà di identificazione della effettiva natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro.
Le caratteristiche innovative del fenomeno delle piattaforme digitali impone un aggiornamento degli assetti giuridici e regolamentari al fine di disciplinare l’attività delle piattaforme e di minimizzare il rischio di effetti distorsivi sulla concorrenza e di effetti negativi sul lavoro. Alla luce della esigenza di ri-bilanciare la posizione di potere di cui beneficano le piattaforme grazie all’elevata flessibilità operativa ed ai vantaggi competitivi garantiti dai modelli organizzativi basati sull’uso dei Big Data, il capitolo delinea i contorni di una possibile disciplina di funzionamento del mercato. Quest’ultima si fonda sul controllo preventivo da parte dell’operatore pubblico degli accessi ai mercati digitali consentendo così di analizzare e monitorare i soggetti economici ivi operanti ipotizzando la possibilità del rilascio di una autorizzazione pubblica e l’inscrizione in un apposito albo. In questo ambito, inoltre, potrebbero ricevere una prima regolamentazione i sistemi di ‘rating reputazionale’, prevedendo la loro portabilità. In aggiunta a ciò, si propongono soluzioni in termini di regolamentazione al fine di garantire principi certi circa i pagamenti a favore dei soggetti che espletano prestazioni attraverso la piattaforma.
Sempre nell’ambito delle norme relative al funzionamento dei mercati digitali, viene discussa la possibilità che l’autorità pubblica abbia accesso alla strumentazione tecnica che l’intermediatore digitale sfrutta per realizzare il matching: i software, gli algoritmi e le applicazioni che gestiscono i flussi informativi di dati utilizzati per la realizzazione dell’incontro tra domanda ed offerta. Si analizzano inoltre le potenzialità della “regolamentazione direzionale” – i.e. quella cioè volta ad orientare comportamenti e scelte degli intermediatori, attraverso norme cogenti o promozionali – alla luce delle possibili conseguenze della cosiddetta ‘people analytics’ – i.e. l’utilizzazione di grandi masse di informazioni relative alle caratteristiche ed alle attività individuali al fine di predire i comportamenti o massimizzare l’efficienza in ambiti quali il marketing, il reclutamento e la gestione delle risorse umane – su ambiti quali la tutela della privacy o le relazioni industriali. Infine, per contrastare i rischi di ‘deskilling’ che potrebbero essere connessi all’avvento delle piattaforme digitali (rischi trattati nel capitolo 2), viene discussa la possibilità di prevedere fondi ad hoc per la formazione e l’integrazione del reddito dei lavoratori delle piattaforme.