Post-salariati
- Umberto Romagnoli
- Comunicazione
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“Andrea, riesci a immaginare un dirigente di un sindacato come la Cgil che dica: il lavoro salariato non è più importante come prima?”, chiede Vittorio Foa ad Andrea Ranieri durante una conversazione riportata in un agile volumetto che Einaudi pubblicò all’aprirsi del nuovo secolo. “No. Però, bisogna cominciare a pensarci”, è la risposta. Foa, che malgrado lo sconforto la condivide, deve giudicarla incompleta. Difatti, si affretta a precisare: “Forse, bisogna cominciare anche a dirlo”.
In effetti, tutti i maggiori sindacati (non solo la Cgil) hanno tardato a decifrare un mondo del lavoro dove l’industria è meno centrale, anche se non meno essenziale, e l’automazione ha accelerato il tramonto dell’operaio addetto al tornio o alla catena di montaggio come figura-simbolo di una stagione che pareva destinata a non finire mai. Un mondo dove si restringono le basi materiali del predominio, se non numerico, politico-culturale del lavoro salariato a tempo pieno e indeterminato nelle macro-strutture della produzione massificata e standardizzata che, altrove assai più che in Italia, avevano dato vita al fenomeno del gigantismo dell’economia di scala. Un mondo dove il lavoro si declina al plurale. E questo è l’esito senz’altro meno prevedibile e più paradossale del colossale sforzo collettivo compiuto nel secolo XX per creare – diceva Antonio Gramsci – “con una coscienza del fine mai vista nella storia, e con ostinazione feroce, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo”. Il fatto è che l’egemonia del soggetto sociale – che aveva funzionato come referente tanto della legislazione sociale ottocentesca quanto della codificazione civile del 1942 e, benché la nostra economia fosse ancora prevalentemente rurale, sarebbe stato massicciamente valorizzato dalla costituzione repubblicana del 1948 – non ha resistito all’usura del tempo.
Da noi, i lavoratori del settore terziario, che oggi si attestano intorno al 70% degli occupati, sorpassano per la prima volta nel 1973 gli addetti all’industria e, tra questi, gli operai non sono più in larga maggioranza: ma tutto ciò era successo negli Usa con una ventina d’anni d’anticipo. Ciononostante, si mantiene alta la visibilità del gap culturale di un sindacato che, dopo avere tanto uniformato, massificato e livellato, deve imparare ad agire sul diverso, sul disomogeneo, sul disperso, senza nemmeno una piena consapevolezza del perché delle difficoltà che gli ha sempre procurato battersi per il primato del collettivo sull’individuale. Preferiva auto compiacersi che lo statuto dei lavoratori avesse contribuito a stabilizzare la subalternità dell’individuale al collettivo organizzato. Difatti, nella sua versione originaria l’art. 19 obbliga a valutare la maggiore rappresentatività dei sindacati al livello confederale, ossia al livello più alto possibile di centralizzazione burocratica dove i singoli rappresentati non hanno accesso diretto, e dissimula che la maggiore rappresentatività è uno stato di grazia che non può durare in eterno. Dal canto suo, l’art. 28 disegna una speciale corsia processuale per la repressione giudiziaria di comportamenti dell’impresa lesivi dei diritti individuali di libertà sindacale, ma ne ammette la percorribilità soltanto da parte di istanze collettive strutturate, sommariamente identificate nei sindacati “nazionali”. Infine, il titolo III non contiene elementi per definire né la posizione dei rappresentanti sindacali di fronte ai rappresentati né la fonte della loro legittimazione, ragion per cui non si è mai saputo con precisione come il rappresentato possa reagire in caso di lesione dei propri interessi. Come dire: l’allineamento all’ispirazione di fondo delle legislazioni dell’Occidente capitalistico che identificano nella mediazione del sindacato-istituzione uno strumento di controllo della società è pressoché perfetto. E l’ispirazione è quella di incoraggiarlo a comportarsi più da tutore che da mandatario e a trattare il rappresentato come un soggetto a metà strada tra il capace e l’incapace, col risultato di farne il destinatario finale di decisioni prese chissà dove in nome di indistinte collettività.
Se per molto tempo si è sorvolato sulle criticità di una visione venata di paternalismo come questa, è solamente perché il sindacato, con l’appoggio determinante della sinistra politica, era intento a traghettare gli uomini col colletto blu e le mani callose dallo status di sudditi di uno Stato monoclasse allo status di cittadini di uno Stato pluriclasse. Anche gli eroi, però, ogni tanto devono riprendere fiato e si distraggono. Forse, è per questo che il sindacato non si è ancora reso conto, in ragione dell’acquisita inseparabilità dalla persona come predicato della stessa, che lo status di cittadinanza riconosciuto da una democrazia costituzionale non solo ha sostituito il lavoro come prius generatore del diritto ad avere diritti, a cominciare dal diritto a un’esistenza dignitosa, ma è anche il principale veicolo delle istanze di autodeterminazione dell’individuo di fronte a qualunque potere, anche il più benefico e protettivo. Come, per l’appunto, il potere sindacale fino agli anni ’70 del Novecento.
Proviamoci, allora, a rivisitare lo statuto sulla base di una direttiva ermeneutica che non consideri più quella del cittadino la faccia nascosta del lavoratore. La direttiva non è vincolante. Ma nemmeno è vietata. Anzi, a ben vedere, è coerente con un provvedimento la cui finalità è quella di ottenere che i cittadini siano rispettati, nella loro dignità e libertà, anche quando si vestono per contratto da produttori.
Come è noto, la normativa statutaria è la risultante della combinazione di due linee di politica del diritto. La prima, e più marcata, è quella del sostegno del sindacato nei luoghi di lavoro. Il che permette di premiare l’autoreferenzialità del soggetto collettivo sponsorizzando l’idea che la portata più innovativa dello statuto sia ascrivibile alla scelta di migliorare l’habitat in cui il sindacato svolge la propria attività, come se tutto il resto non contasse o come se tutto ciò di positivo che ci si poteva aspettare non potesse venire che da lì. La seconda, più accennata che sviluppata, è quella del garantismo individuale del cittadino contrattualmente tenuto ad adempiere l’obbligazione di lavorare alle dipendenze altrui. La prima è un prodotto importato dall’America del new deal degli anni ’30, mentre la seconda è un prodotto di fabbricazione euro-continentale. Le sue ascendenze infatti sono riconoscibili nella prima costituzione post-liberale della contemporaneità, quella di Weimar del 1919, sulla quale è modellata la nostra costituzione – l’una e l’altra miranti ad assicurare la polivalenza (Drittwirkung, dicono i tedeschi) dei diritti di cittadinanza che obbliga a rispettarli anche nei rapporti interprivati. Insomma, questa articolata linea di politica del diritto evidenzia l’errore commesso da intere generazioni di operatori giuridici: a loro avviso, il lavoro bussò alla porta della storia giuridica soltanto per essere catturato nelle categorie logico-concettuali del diritto dei contratti tra privati. Tutt’al più, invece, si trattava dello stadio iniziale di un’evoluzione lontana dal suo sbocco conclusivo: nient’altro che una provvisoria sistemazione da cui si sarebbe potuto uscire soltanto con l’interventismo del potere pubblico.
Insomma, non è soltanto perché promosse la presenza del sindacato in azienda che lo statuto segnò un nuovo inizio. Cionondimeno, con la complicità della cultura giuridica il sindacato del dopo-statuto ha seguitato a non percepire che il riposizionamento del lavoro nelle zone alpine del diritto costituzionale aveva spezzato una tradizione di pensiero formatasi “nella prima modernità” allorché, come scrive Ulrich Beck, “dominava la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto sul lavoratore. Tutto era legato al posto di lavoro retribuito. Il lavoro salariato costituiva la cruna dell’ago attraverso la quale tutti dovevano passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo. La condizione di cittadino derivava da quella di lavoratore”.
Non che il lavoro non sia tuttora il passaporto per la cittadinanza. Però, la costituzione nega che la correlazione biunivoca tra lavoro e cittadinanza possa continuare ad avere l’instabilità di una barca con sopra un elefante. Adesso, cioè, l’homme situé – come direbbe Alain Supiot – non può più sovrastare il citoyen, rubargli spazio o metterlo in ombra. Pertanto, come il lavoro industriale ha raggiunto il culmine della sua emancipazione allorché la prima modernità ne ha fatto la legittimazione sociale dei diritti di cittadinanza, così – adesso che la fabbrica non è più uno dei grandi laboratori della socializzazione, l’informatica ha rivoluzionato la comunicazione di massa, la scolarizzazione è più diffusa e il progresso tecnologico ha diversificato la composizione qualitativa della forza lavoro cancellando vecchi profili professionali o creandone di nuovi – è alla cittadinanza che tocca emanciparsi dall’originario paradigma, permettendo così di scoprire da cosa dipende la tenuta della società dei lavori. In effetti, poiché ogni paradigma scientifico in definitiva non è che “la finestra con la quale si guarda al mondo”, quella in cui si affacciano i giuslavoristi va perlomeno aggiornata. E ciò perché non sanno immaginare i confini della protezione sociale se non ragionando in termini giuridico-formali di modalità di svolgimento della prestazione di lavoro dedotta in contratto e dunque, nello stesso momento in cui separano la subordinazione del prestatore dalla sua matrice sociologica, arrivano a stabilire che il lavoro autonomo non va protetto. Come dire che quello del lavoro non è diventato un diritto di classe, ma il prezzo della sua incontaminata purezza è uno strabismo che lo porta a concedere tutela a chi non ne ha bisogno e negarla a chi invece ne avrebbe. Non a caso la nostra costituzione non conosce la dicotomia contratto di lavoro subordinato-contratto di lavoro autonomo. Piuttosto, si preoccupa di rimuovere situazioni soggettive di debolezza e disuguaglianza sostanziale comunque e dovunque si manifestino. Per questo, è un indizio di pigrizia intellettuale seguitare a sponsorizzare la centralità del lavoro dipendente nella forma standard ereditata dal Novecento, prolungandone la funzione di fulcro dell’insieme delle garanzie che danno corpo alla nozione di cittadinanza nel XXI secolo. Una cittadinanza, ormai, più industriosa che industriale. In proposito, il caso Foodora, su cui mi sono intrattenuto anche in questa sede. ha un valore emblematico.
Quanto finora detto presuppone che l’impatto culturale dello statuto avrebbe dovuto tradursi in un’interpretazione del divieto di espropriazione nei luoghi di lavoro dei diritti civili e politici derivanti dallo status di cittadinanza che conducesse a ravvisarvi non solo una sfida ai criteri di razionalità ed ai parametri di efficienza che hanno assicurato il successo del capitalismo industriale, ma anche l’input normativo indispensabile per andare oltre la concezione della disciplina del rapporto di lavoro come regolazione d’impianto privato-contrattuale di un rapporto di mercato. Le cose si sono messe in modo che, per salvare se stessa, una democrazia costituzionale non può non proporsi di garantire l’esigibilità del pacco-standard di beni e servizi corrispondente, nelle condizioni storicamente date, allo status di cittadinanza indipendentemente tanto dall’attualità di un rapporto di lavoro subordinato quanto dalla tipologia delle fonti istitutive dei rapporti mediante i quali avviene l’integrazione del lavoro nell’attività economica. Indipendentemente – è arrivato il momento di dire – dalla stessa occupabilità: già oggi, e nel prevedibile futuro molto più che in passato, il moraleggiante principio per cui, se hai voglia di lavorare, un posto lo trovi sempre, non supera la prova dei fatti.
Ecco, allora, perché la direzione di senso del tratto dell’itinerario percorribile dal diritto del lavoro è graficamente traducibile in un contro-movimento. All’inizio, il movimento fu segnato dal passaggio dallo status caratteristico delle società castali al contratto come elemento di garanzia di libertà. Poi, la stessa cultura “borghese” che gestì praticamente indisturbata il cambio di regime determinato dalla rottura dei vincoli feudali ha dovuto riconoscere l’inadeguatezza del diritto comune dei privati. Cessò di fingere di non sapere che, se la libertà contrattuale è la precondizione dell’autodeterminazione, quest’ultima può non esserci malgrado la proclamata libertà contrattuale e, alla fine, riconobbe che l’ideologia giuridico-politica che fa dell’autonomia negoziale il mezzo di cui dispone l’individuo per riappropriarsi del suo destino era una mistificazione. Se questo è il passato che sta alle spalle del diritto del lavoro, il suo futuro sta nel ritorno allo status. Che non può più essere lo status occupazionale o professionale la nozione del quale è stata memorizzata da intere generazioni durante la secolare esperienza industriale. E ciò per l’eccellente ragione che l’esigibilità dei diritti di cittadinanza prescinde dalla tipologia dei lavori e relative regolazioni. C’è quindi un modo d’intendere lo statuto che, pur sviluppando tutte le implicazioni riguardanti il lavoratore in quanto cittadino che campeggia nella cultura sindacale, non contrasta con quello attento agli interessi del cittadino in quanto lavoratore. Piuttosto, si tratta di riordinarne gli intrecci al fine di individuare nuove priorità secondo un criterio ordinante capace di incorporare il principio operante in epoca anteriore all’avvento dell’industria, quando nessuno pensava che si potesse convertire l’esistenza delle persone in un’unità temporale quantificata vendibile sul mercato. Per avere un’idea della vastità del territorio trascurato, se non proprio nascosto, dalla mentalità industriale che privilegiava il principio opposto fino a farne una legge di natura, o giù di lì, basta guardarsi indietro e attorno. Alludo alla vittoriosa rivendicazione risalente alla prima metà degli anni ’70 delle “150 ore” ed al negoziato concluso di recente dall’IG Metal. Unitamente ad un aumento retributivo del 4,2%, l’accordo valevole per le aziende metalmeccaniche concede ai lavoratori che hanno bisogno di maggiore tempo libero per accudire i figli o per risolvere altri problemi familiari la facoltà di adottare un orario settimanale di 28 ore. Come la clausola italiana delle “150 ore”, l’accordo tedesco si presta ad una chiave di lettura estranea alla dimensione mercatistica dello scambio. Anch’esso riaccende la resistenza a vendere pezzi di vita di cui è sempre stata espressione la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro.