I tagliati fuori di Foodora
- Umberto Romagnoli
- Comunicazione
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Il caso dei rider ribelli di Foodora su cui si è pronunciato il Tribunale di Torino ha avuto una certa risonanza mediatica. Però, i più prudenti media nazionali hanno preferito sospendere il giudizio sulla vicenda in attesa di conoscere la motivazione della decisione che, come è noto, ha negato ai ricorrenti la fruibilità delle tutele proprie dei lavoratori dipendenti. Comunque, comune ai più o meno improvvisati commentatori è stata la tendenza a vedere nella controversia un sintomo delle criticità del lavoro nel XXI secolo che sta chiudendo definitivamente i conti col passato. E’ in circostanze del genere che mi sorprendo a chiedermi come avrebbe reagito l’opinione pubblica di un centinaio di anni fa, se anch’essa fosse stata tempestivamente informata che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Dopotutto, l’avvento dell’industrializzazione fu meno veloce, ma non meno travolgente e dirompente del passaggio d’oggigiorno al post-industriale. Infranse divieti legali che nell’800 avevano una valenza para-costituzionale e avrebbe sospinto le codificazioni civili del ‘900 a celebrare l’apologia del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, ossia del medesimo tipo di contratto che in precedenza era stato ostracizzato, perché la sottomissione vitanaturaldurante dell’homme de travail all’homme d’argent era giudicata un disvalore. Ciò non toglie che soltanto la mancanza di alternative alla possibilità di lavorare all’altrui servizio in base ad un vincolo consensuale virtualmente perpetuo aveva un poco alla volta costretto l’homme de travail ad apprezzare le virtù salvifiche del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, arrivando a paragonarlo, alla fine, ad una scialuppa di cui non poteva non desiderare l’inaffondabilità.
Per questo, fino agli anni ’70 del secolo scorso ai miei studenti ho insegnato che quello del lavoro è il diritto dei lavoratori dipendenti tendenzialmente stabili e che nel suo campo di applicazione non rientrava il lavoro autonomo il cui archetipo è delineato da una manciata di avare disposizioni contenute nel codice civile. Infatti, la tradizione legislativa, culturale e disciplinare non ammetteva che il lavoro fruisse di appositi apparati protettivi se non nei casi in cui risultasse svolto alle dipendenze del soggetto che lo acquista e ne dispone. Era fatale, quindi, che il lavoro autonomo restasse ai margini della didattica. In realtà, me ne occupavo soltanto per segnalare come gli esclusi dalla tutela non avessero tardato a premere sulle frontiere del diritto del lavoro con un successo più che discreto. Ne costituiva una cospicua testimonianza l’adesione degli operatori giuridici, e segnatamente dei giudici di merito, ad una specie di cultura del sospetto, alimentata dal senso comune corrente che l’idea di lavorare senza padrone fosse diventata un inutile mito e indirettamente avvalorata dalla dominante tendenza ad accentrare nell’impresa tutto il lavoro necessario al suo scopo produttivo. Il sospetto era che gli imprenditori fossero gente di pochi scrupoli e molto talento truffaldino che non esita ad appropriarsi dei vantaggi del lavoro subordinato senza pagarne i costi. Infatti, continuavano a fioccare sentenze di giudici che, raccolte le prove dell’esistenza di simulazioni fraudolente tramate per occultare situazioni di dipendenza effettiva del soggetto che si è obbligato a prestare l’attività pattuita, dichiaravano senz’altro efficace tra le parti il contratto dissimulato. Complessa o di routine che fosse, l’indagine giudiziaria ha sempre somigliato ad una caccia agli indizi della subordinazione, tra i quali primeggiava il dato della continuità della prestazione a favore del medesimo partner contrattuale, e i nostri giudici si erano ormai abituati a vestirsi da detective. Incaricato di farsi un’idea di come fossero andate effettivamente le cose tra le parti, si serviva di indicatori empirici con la convinzione che, sebbene nessuno di essi fosse da solo sufficiente a dedurre che il lavoratore non possedeva il quantum di autonomia coessenziale col tipo di contratto che aveva stipulato, tutt’insieme svelavano una situazione di dipendenza assimilabile a quella che la normativa elusa presuppone.
Per quanto grossolana, la cultura del sospetto è stata tutt’altro che sterile e innocua. Tant’è che, ad un certo punto, è sembrata espressione di un favor iuris (vincolante ed invece inesistente) a classificare i rapporti di lavoro nella categoria della subordinazione. In sintesi, minacciava la stessa agibilità del contratto di lavoro autonomo. Infatti, nel corso degli anni ’70 ai miei studenti ho dovuto raccontare che il legislatore, percependo l’esigenza di un restauro conservativo del contratto d’opera, era intervenuto per garantirne la genuinità anche quando le parti convengono che il lavoratore agisca come il più subordinato dei lavoratori autonomi e, nel contempo, come il più autonomo dei lavoratori subordinati – ossia, come dicono gi operatori giuridici, sia un para-subordinato. E’ una metamorfosi che si compie allorché il contratto di scambio tra la realizzazione dell’opus e il corrispettivo istituisce rapporti di “collaborazione” non solo “prevalentemente personale”, ma anche “continuativa e coordinata”. In seguito all’opzione legislativa di manutenzione straordinaria di questo tipo contrattuale, numerose situazioni provviste di requisiti che, coi parametri della cultura del sospetto, sarebbero state sufficienti per ricondurle alla categoria del lavoro subordinato restano nella categoria opposta. Quindi, il giro di parole usato dal legislatore non identifica un tertium genus. Infatti, l’ibridismo non comporta l’equiparazione di trattamento del lavoro para-subordinato a quello spettante al lavoro subordinato, tranne che per quanto attiene la tutela sindacale e processuale. Pertanto, anziché segnare una tappa della tendenza espansiva del diritto del lavoro, è dato parlarne tutt’al più come di una innovazione genericamente /(e moderatamente) pro labour.
E’ toccato agli studenti che hanno frequentato i cicli delle mie lezioni, dalla fine degli anni ’80 in poi, ascoltare la narrazione degli effetti sul tessuto normativo del passaggio al post-industriale caratterizzato da un diverso modo di organizzare il sistema produttivo e dall’egemonia culturale che esso è in grado di esercitare. Infatti, è a loro che ho trasmesso nozioni sempre meno univoche e sempre più imprecise. E ciò perché avevo l’obbligo di raccontare come al diritto del lavoro, cresciuto avvitandosi su se stesso, fosse stata tolta la soddisfazione di godersi in pace la stagione della maturità. Una stagione che aveva raggiunto allorché aveva potuto esibire di sé l’immagine di un sistema normativo che, ribadita la marginalità del lavoro autonomo, esprimeva una pronunciata ostilità nei confronti della precarietà a vantaggio della stabilità, della flessibilità a vantaggio della rigidità, dell’individuale a vantaggio del collettivo. In questa maniera, con passabile coerenza era riuscito ad ispirarsi al principio generale per cui ogni contratto tipico ha la sua disciplina tipica e dunque a fare del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, sottoposto a regole tendenzialmente uniformi e sindacalmente protetto, il prototipo delle discipline dei rapporti contrattuali in cui si effettua lo scambio tra lavoro e retribuzione; come dire: la stella polare del diritto del lavoro legificato, giurisprudenziale e negoziato in sede sindacale. E’stato bello, ma è durato poco e ormai sembra passato un secolo. Infatti, il diritto che dal lavoro prende il nome aveva smesso in fretta di prodigarsi per la soppressione di uno dei termini delle antitesi a beneficio dell’altro, ossia per la dominanza dei valori evocati dal termine privilegiato (subordinazione, stabilità, rigidità, collettivo). I suoi stessi concetti-base, subordinazione e autonomia, si erano logorati, perdendo la nettezza che ne generava l’antinomia e – saltati, uno ad uno, i restanti riferimenti culturali che ne determinavano l’identità – ha visto allargarsi a dismisura l’area dei rapporti di lavoro d’incerta qualificazione giuridica. Non che si fosse smarrita la nozione di bianco e di nero. Il fatto è che prevaleva il grigio, perché i termini delle diadi stavano esaurendo la loro vitalità storica. In conseguenza, ecco il punto, il diritto del lavoro andrebbe ripensato per triadi. Persino subordinazione e autonomia compongono una diadi che, se una volta rinviava a totalità contrapposte tendenti ad elidersi, con crescente frequenza si richiama a situazioni che si collocano lungo una medesima linea continua. Entrambe sono rappresentabili con la formula “né né”, anziché “aut aut”. Segno che esiste uno spazio intermedio e la sua crescente espansione è all’origine dell’obsolescenza delle dicotomie e dell’inutilizzabilità della loro logica ultimativa.
Si tratta di uno schema di ragionamento che, a ben vedere, è familiare ad un ceto professionale degli operatori giuridici educati a pensare che, per individuare il soggetto protetto dal diritto del lavoro, sia decisivo accertare le modalità della prestazione lavorativa esigibile per contratto.
La premessa da cui muovere è che, in base all’art. 2094 c.c., è considerabile subordinato il lavoratore tenuto ad obbedire alle disposizioni impartite da un soggetto autorizzato ad esercitare il potere di pianificare l’adempimento dell’obbligazione di lavorare, controllandone altresì l’esecuzione con intensità variabile e punendone le irregolarità. Come è evidente, i confini del lavoro disciplinabile dallo specifico corpus normativo cui dà il nome vengono disegnati in maniera da ricomprendervi certamente quello del lavoro dell’operaio manifatturiero che costituiva il referente della prima legislazione sociale; ma la nozione di subordinazione venne immediatamente decontestualizzata dai primi interpreti. Il che ha finito per assegnare al diritto del lavoro un orizzonte di senso per cui quello che deve mediare è non tanto un conflitto d’interessi quanto piuttosto un conflitto di ruolo tra chi dirige il lavoro e l’etero-diretto. Pertanto, posto che il codice civile ospita una nozione di subordinazione avalutativa, socialmente neutra e depurata delle sue connotazioni classiste, ciò che determina l’applicazione del diritto del lavoro non è la subordinazione virulenta e opprimente, propria del lavoro industriale soprattutto alle origini, ma la subalternità scolorita al punto di ravvisarvi semplicemente l’accentuazione di un elemento comune ad ogni obbligazione contrattuale la quale, vincolando il debitore, limita sempre la sua autonomia.
Usata come filtro per selezionare i soggetti protetti, la nozione è inclusiva e al tempo stesso escludente. Inclusiva perché favorisce l’annessione al territorio d’elezione del diritto del lavoro di province abitate da soggetti che realisticamente non hanno bisogno di apparati protettivi: Gino Giugni, riferendosi alla fasce alte più professionalizzate del mercato del lavoro a cominciare dai dirigenti d’azienda, li chiamava i “portoghesi” del diritto del lavoro. Contemporaneamente, è escludente, perché la tutela concessa a chi non ne è meritevole è, invece, negata a quanti ne avrebbero realisticamente necessità; ed è negata per il solo fatto che si sono obbligati a lavorare in base ad un contratto di lavoro autonomo: oggi, diremmo che fanno parte del popolo delle “partite Iva”.
Stando così le cose, è giunto il momento di compiere un passo in avanti, rilevando criticamente che l’attuale strategia di politica del diritto non è costituzionalmente orientata. Infatti, impegnando la Repubblica ad intervenire nelle situazioni soggettive di inferiorità e svantaggio, di debolezza e diseguaglianza comunque e dovunque si manifestino (art. 3, comma 2) – e, più specificatamente, impegnando la Repubblica a tutelare anche il lavoro prestato in forme e in condizioni diverse da quelle del lavoro dipendente (art. 35) – nello stesso momento in cui ne riaffermano la centralità i costituenti raccomandavano un diverso angolo visuale, dimostrando così che l’amore per la specie può non far perdere di vista il genere. Con ineguagliabile eleganza, Massimo D’Antona scriverà che i costituenti guardavano il lavoro, “più che come fattispecie contrattuale, come un segno linguistico riassuntivo dei fenomeni d’integrazione del lavoro umano nei processi produttivi non solo nel quadro di un contratto tipico, ma nell’intera gamma delle relazioni giuridiche entro le quali si realizzano” .
Come dire: l’opinione che fa della summa divisio tra contratto di lavoro subordinato e contratto di lavoro autonomo uno steccato invalicabile sfida tuttora la direttiva costituzionale con esiti irragionevolmente opposti: o si ottiene tutto, e magari anche troppo, o si resta a mani vuote. In altri termini, succede qui quel che succedeva in materia di autotutela collettiva in epoca anteriore alla giurisprudenza della Consulta che ha gradualmente smantellato la gabbia in cui era rinchiuso lo sciopero: fino agli anni ’60 inoltrati del XX secolo, anche l’art. 40 cost. è stato interpretato alla luce di un codice penale che criminalizzava tutte le forme di sciopero. Non diversamente, dovrebbe rendersi conto che sta rovesciando nientemeno che l’ordine gerarchico del sistema delle fonti di produzione normativa chi continua a coltivare il culto della bipartizione sulla cui base si è evoluto il diritto del lavoro. Essa preconfeziona una mappa ove sono segnate zone desertiche popolate da tribù di lavoratori autonomi, ingrossate da un esercito di para-subordinati, e oasi raggiungibili soltanto da carovane di lavoratori dipendenti.
Bisogna riconoscere che, a differenza di quanto è accaduto ai costituenti, se l’amore del sindacato per la specie, non gli avesse fatto perdere di vista il genere, i rider ribelli di Foodora oggi, come i pony-express ieri, avrebbero potuto placare la loro sete di giustizia attraverso la contrattazione collettiva; un metodo assai più affidabile di una leggina arruffona o della statuizione di un giudice che inforca le lenti d’ingrandimento della Pantera Rosa. Come faceva quando era in voga la cultura del sospetto e avrebbe certamente fatto anche in questa occasione se nel frattempo il Jobs Act non avesse sostituito una disposizione, che sapeva di vintage, della legge Fornero. Adesso, la fruibilità della protezione offerta dal diritto del lavoro è circoscritta a coloro che lavorano dentro il perimetro aziendale con vincoli d’orario.