L’uscita dei comunicati mensili dell’Istat con le stime sull’occupazione sono sempre di più una ottima occasione per tastare il polso non tanto al nostro mercato del lavoro – da lungo tempo anemico, povero e immobile - quanto al livello del dibattito e della discussione sui media intorno a questi temi. E’ un livello davvero basso, dove fra opportunismo, ipocrisia, prosopopea e ignoranza, si fa a gara a chi la spara più grossa e più conformista mentre le diagnosi più serie sulla crisi del lavoro in Italia vengono sistematicamente snobbate. E ci si mette anche l’Istat, diciamolo, a dare una mano a suo modo a mantenere bassa la qualità del dibattito sul lavoro e ad aumentarne l’inconcludenza.
Nell’incipit del comunicato pubblicato il 31 agosto l’Istituto nazionale di statistica – che sembra affannato da un po’ di tempo dalla ridicola ansia di annunciare una ripresa che non c’è e soprattutto di farsi bello con l’esecutivo – dà la linea: “A luglio 2017 la stima degli occupati cresce dello 0,3% rispetto a giugno(+59mila), confermando la persistenza della fase di espansione occupazionale. Negli ultimi due mesi il numero di occupati ha superato il livello di 23 milioni di unità, soglia oltrepassata solo nel 2008, prima dell’inizio della lunga crisi”. Ualà!, persistenza della fase di crescita ma soprattutto ritorno ai livelli pre-crisi: ecco fatto il titolo! E infatti tutti i grandi media titolano e scrivono su di lui, sul grande recupero (“Era il numero che aspettavano tutti”, medaglia d’oro al Messaggero): è vero, ci sono delle contraddizioni, cresce il tasso di disoccupazione, la condizione lavorativa di donne e giovani sta peggiorando, l’occupazione che cresce è in buona parte a termine, siamo gli ultimi in Europa (detto fra noi, è la stessa cosiddetta mala occupaciòn di cui si parlava tanto proprio nel celebrato periodo pre-crisi al quale saremmo guarda un po’ ritornati). Ma la notizia che buca è quella del grande recupero. Ne è entusiasta Poletti, che dimentica subito le figuracce del recente passato e ne approfitta per sparacchiare a casaccio un po’ di numeri e per dire che è tutto merito del jobs act: ma il ministro poveretto ormai non lo prende sul serio più nessuno, neanche alle Feste dell’Unità. Renzi twitta la sua gioia e i meriti del suo governo, ma farà la fine di Poletti. Gentiloni esulta più pacato e sornione sul ritorno al passato. Padoan mette l’accento sul tema che più gli preme per conquistare i favori di Bruxelles: la ripresa che secondo lui c’è (sarà mica lui a dare la linea all’Istat!?). Più saggiamente la Cgil frena un po’ spazientita gli entusiasmi, come fa ormai da moltissimi mesi: qualcuno che riflette più seriamente da quelle parti probabilmente ci sta.
Si è parlato tante volte del precariato, delle difficoltà delle donne e dei giovani, del numero mostruoso di inattivi che fanno del nostro paese un caso davvero unico in Europa. Non ci torniamo, per ora, ma ci soffermiamo proprio sulla favoletta del ritorno dell’occupazione ai livelli pre-crisi e vediamo un po’ i motivi per i quali è per lo meno poco serio “pompare” questa non notizia.
Primo motivo: banalmente il paragone è scorretto perché, sempre secondo l’Istat, adesso la popolazione in età di lavoro (fra 15 e 64 anni) è più numerosa di quasi un milione di individui rispetto a dieci anni fa. E infatti, il tasso di occupazione (numero di occupati rapportati alla popolazione) è ancora più basso rispetto al 2008 oltre ad essere molto basso di suo non arrivando da noi al 60%, soglia questa che è superata da quasi tutti i paesi Europei, con Germania e Regno unito vicini al 75%. Questo indicatore è uno dei pilastri della strategia di Europa 2020, della quale restiamo l’anello più debole. C’è poco da aggiungere.
Secondo motivo: non è che il mercato del lavoro italiano fosse una bellezza nel 2008, tutt’altro. L’occupazione cresceva e il pil ristagnava: un brutto segno, indica bassa qualità della crescita occupazionale (trainata dal precariato indotto dal pacchetto Treu e dalla legge 30), della produttività, delle imprese. Anche i più strenui paladini di quelle politiche del lavoro riconoscevano che la crescita lasciava inalterato il divario Nord-Sud, le difficoltà delle donne e dei giovani, la diffusione dei lavori a termine, l’insicurezza, la riduzione delle retribuzioni e dei salari d’ingresso. La crisi dalla quale non usciamo viene da lì: quella per il 2008 sembra la nostalgia per la naja.
Terzo motivo: è un motivo statistico. Il dato appena pubblicato è un dato mensile, frutto di una stima che l’Istat fa su circa 50 mila individui (un dodicesimo del campione annuale), compresi vecchi e bambini. Sia chiaro, l’indagine campionaria sulle forze di lavoro è una signora indagine, probabilmente la migliore fra quelle effettuate in maniera armonizzata dagli altri istituti di statistica europei. Ma è un indagine campionaria, e dunque per definizione è affetta da un errore che deriva dal fatto che il questionario viene rivolto ogni mese solo a un cittadino ogni mille. L’entità di questo errore si può calcolare e lo stesso Istat, giustamente, ci fa sapere (ma nelle ultime pagine del lungo comunicato) che il numero di occupati stimato con l’indagine può discostarsi con una buona approssimazione dal valore vero (che nessuno potrà mai conoscere) di più o meno 170 mila unità. Questo significa che commentare con quella enfasi una crescita mensile di +59 mila occupati è piuttosto ridicolo oltre che inutile. Cui prodest?
Quarto motivo: la rilevazione delle forze di lavoro fornisce ottime indicazioni in merito alla dinamica del mercato del lavoro (aumenti e diminuzioni) ma molto meno sui valori assoluti. Quei 23 milioni di occupati stimati dall’Istat in realtà sono un po’ sottostimati (da sempre) poiché non sono depurati da una serie di possibili errori (che gli statistici chiamano non campionari) e che derivano fra l’altro dalla tendenza degli intervistati a nascondere la propria condizione di occupato: del resto, siamo o no il paese del lavoro nero e dell’evasione fiscale? L’Istat stesso quantifica questo errore, indirettamente, nelle serie dell’occupazione che stanno dietro alla stima del pil e che tengono conto anche di altri dettagli tecnici di cui l’indagine non può tenere conto. Gli occupati “veri” così ristimati sono, a parità di campo di osservazione, circa un milione in più. Dal momento che questo tema, pur ben noto agli studiosi e agli esperti, è lasciato un po’ sullo sfondo dagli istituti di statistica - per motivi di pudore credo - vi è da chiedersi che senso abbia fare questi confronti con i livelli di occupazione del 2008 sulla base di dati per lo meno incompleti e approssimativi. E che senso ha che sia proprio l’Istat a proporre questo confronto?
Quinto motivo: se mai recupero c’è stato, occupati sì ma con quale intensità? Mettere l’accento sul ritorno ai livelli del 2008 è un’operazione monca e molto sbagliata, per non dire disonesta. Questi occupati in più fanno spesso lavori da poco, per pochi soldi e per poco tempo. Nel 2008 proprio l’Istat stima che alla base del pil vi fosse un monte ore complessivo di circa 46 miliardi di ore effettivamente lavorate. In termini pro capite, ciò significava un po’ più di 1.800 ore l’anno per occupato (includendo gli eventuali secondi lavori). Nel 2016 la stessa Istat ha stimato un monte ore complessivo di quasi 43 miliardi di ore, corrispondenti a un pro capite annuale di 1.730 ore. Ogni occupato ha lavorato due settimane in meno nel 2016 rispetto a un suo analogo di una decina di anni prima e quattro settimane in meno rispetto al 1999: sono differenze abissali. Come si fa a ignorare questo aspetto? Hai voglia a dire che hai raggiunto gli stessi livelli di occupazione del 2008 se poi non riconosci che si lavora molto meno! La crisi sembra ci voglia dire questo, non sarà più come prima.
Quest’ultima circostanza in sé non è poi un male in assoluto, anzi tutt’altro. Il punto è che non ci sono istituti contrattuali e previdenziali che proteggano i lavoratori e che accompagnino questa importante tendenza: al contrario, gli strumenti che ci sono vanno per lo più nella direzione opposta. La tendenza alla riduzione degli orari è poi la stessa che marcò l’uscita dalla crisi del ’29, dalla quale si venne fuori oltre che con la guerra anche con orari più brevi e più tempo per i consumi e per alimentare la domanda interna. La tendenza alla contrazione dell’orario pro capite è uno degli aspetti più importanti della dinamica attuale del mercato del lavoro eppure se ne parla poco, anzi non se ne parla proprio: l’Istat, pur raccogliendo informazioni molto dettagliate con la stessa indagine, chissà perché non pubblica stime sulle ore effettivamente lavorate nei suoi comunicati. Invece di indugiare su indicatori tradizionali ormai poco rilevanti o su una eccessiva verbosità dei comunicati farebbe invece meglio a offrire quegli spunti nuovi che mancano per alzare un po’ la qualità del dibattito. Che altrimenti, così com’è, non ci porta da nessuna parte.