Martedì, 26 Novembre 2024

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Fare i conti col paese dell'ingiustizia

rischio povertà

L’ultimo rapporto annuale dell’Istat è stato dedicato al tema delle diseguaglianze distributive e delle stratificazioni sociali in Italia. È senz’altro un buon segno che si ricominci un po’ più seriamente a fare qualche passetto in avanti nell’analisi delle diseguaglianze e della distribuzione del benessere nel nostro paese. Sono informazioni che servono. La situazione infatti - oltre a non essere evidentemente un granché - è ovviamente anche piuttosto confusa, e basta guardarsi attorno per accorgersene: per provare a spiegarla è inutile illudersi di farlo ricorrendo a facili scorciatoie, poiché si capisce bene che la crisi economica, morale e politica italiana non è solo una questione di soldi che girano poco e male ma è anche figlia, e in maniera inscindibile, delle privazioni sociali e culturali con cui si è accompagnata, degli squilibri patrimoniali e dell’evasione fiscale e contributiva.

Ci ha provato l’Istat dunque, che per dare un senso al consueto rapporto annuale di metà maggio (c’è la concorrenza con quello più “paludato” di Bankitalia a fine mese) ha provato a dire qualcosa di nuovo e a rispolverare per l’occasione le classi sociali: per meglio dire l’Istituto nazionale di statistica ha suddiviso la popolazione italiana in quelli che ha giustamente preferito chiamare “gruppi”: termine più duttile e meno impegnativo rispetto a quello di “classe”. Infatti, anche suddivisa in “gruppi”, la nostra società continua a mostrarsi fortemente eterogenea e irriducibile, il che non è detto che sia un male anche se ovviamente non favorisce la convergenza delle forze su istanze comuni e di classe appunto. Nove gruppi dunque, derivati dalle informazioni sul reddito familiare, sulla condizione lavorativa, la cittadinanza, il titolo di studio, la composizione familiare. In basso l’Istat identifica un insieme costituito dal 15% circa delle famiglie residenti in Italia con redditi molto bassi, distinte in due gruppi a seconda che vi sia o no almeno un componente straniero. All’opposto un gruppo sociale costituito da un 7% di famiglie definite “classe dirigente” (nel senso che forse queste sì sono una classe!) e che ovviamente occupano i gradini più alti della scala sociale. In mezzo ai due estremi altri gruppi compositi. Subito al di sotto vi sono i titolari delle pensioni più sostanziose (9%), le famiglie di impiegati e di operai qualificati (rispettivamente 17% e 11%) e infine, subito prima delle componenti a redditi bassi, vi sono le famiglie di operai in pensione (23%), le famiglie monocomponente degli anziani soli e dei disoccupati (14%), e quelle della piccolissima borghesia di provincia (3%).

Non è detto che l’esperimento sia riuscito e che questi gruppi abbiano davvero un senso: e non è detto perciò che saranno ricordati tra una settimana. È comunque attraverso di loro che l’Istat prova a leggere l’attualità e le dinamiche socio-economiche recenti. L’esperimento è senz’altro una novità: certo la lettura è talvolta faticosa e spesso non offre sorprese: gli individui collocati sui gradini più bassi della scala sociale diversificano poco i loro consumi, abitano in case di minor pregio, in media leggono poco, hanno titoli di studio più bassi e i loro figli hanno percorsi scolastici più limitati, si curano di meno e godono di uno stato di salute peggiore, e tanto altro ancora. Però alcune cose emergono chiaramente.

Una fra queste è che situazioni di disagio sociale ed economico convivono anche all’interno di ciascun gruppo: le tensioni e le debolezze della nostra struttura produttiva, complice anche l’impatto della crisi, hanno contribuito a palesare dunque fenomeni di marginalizzazione anche all’interno di gruppi sociali apparentemente protetti, dove per esempio i percorsi di studio e formazione sono qualificati, i settori di attività lavorativa sono apparentemente pregiati (es. gli insenanti o i ricercatori) o le famiglie di provenienza sono relativamente benestanti. Quei gruppi dunque sono a loro volta permeati di contraddizioni, di squilibri e diseguaglianze crescenti.

Ancora più importante è il riconoscimento del fatto che, secondo l’Istat, un peggioramento delle diseguaglianze ha accompagnato la crisi economica in cui ristagniamo: è successo in Italia ma è successo un po’ in tutta Europa (ma probabilmente non in Germania). Si tratta di un peggioramento determinato soprattutto dai redditi da lavoro (salari e stipendi) senza che, nel caso dell’Italia, ci sia stata una adeguata risposta redistributiva da parte dello stato: questa di fatto è affidata alle sole prestazioni pensionistiche, un intervento certamente importante ma che evidentemente non è bastato a garantire una efficace redistribuzione del reddito e il contenimento delle diseguaglianze. Negli altri paesi dell’Ue questo ruolo è stato efficacemente svolto dai trasferimenti monetari di sostegno al reddito, come i sussidi di disoccupazione o le forme di sostegno diretto ai nuclei familiari.

C’è da dire però che in Italia, ma anche all’estero, nonostante si siano fatti importanti passi in avanti (soprattutto, è opportuno ricordarlo, su sollecitazione dell’Eurostat e della Ue) l’informazione sull’equità distributiva è tuttora molto carente. Manca in particolare una adeguata rappresentazione dei redditi che derivano dalla ricchezza accumulata sotto forma, per esempio, di immobili e risparmi finanziari. È qui che si concentrano le diseguaglianze ed è disdicevole che proprio su questi cespiti si concentrino gravi carenze informative. Le rilevazioni utilizzate dall’Istat e dalla Banca d’Italia soffrono infatti di una grave sottostima proprio dei redditi derivanti dal patrimonio. In un recente lavoro (si veda il link qui sotto) i ricercatori della banca centrale rivelano come l’indagine sui bilanci di famiglia curata dall’istituto è in grado di stimare solo il 6% dei redditi da capitale finanziario e circa il 20% di quelli immobiliari. E su questi cespiti le stime della banca centrale sono anche migliori di quelle fornite dall’analoga rilevazione curata dall’Istat con un campione ben maggiore. D’altra parte Bankitalia sottostima largamente i redditi da lavoro autonomo che l’Istat è invece in grado di cogliere un po’ meglio ma sempre sottostimando assai. Le fonti fiscali, potenzialmente, potrebbero colmare in parte questo divario ma è chiaro che da sole non bastano: vanno come minimo usate insieme con le indagini.

Le analisi contenute nel rapporto annuale dunque fanno riferimento a un quadro economico che è limitato alla componente emersa e che esclude la parte preponderante della ricchezza patrimoniale. In un paese come il nostro, dove un sesto del prodotto interno lordo è sommerso e dove l’economia illegale produce grandi concentrazioni di patrimoni, è chiaro che è proprio la ricchezza (finanziaria e immobiliare) la variabile chiave poiché è lì che il sommerso si lava con l’emerso e diventano perciò indistinguibili. E allora grazie sicuramente all’Istat per questi colti approfondimenti sulla diseguaglianza e sui gruppi sociali ma è chiaro che tutto ciò è solo un giochino. Quando potremo capire finalmente come i grandi patrimoni e l’economia sommersa incidono sull’equità distributiva e sulle dinamiche sociali?

 

http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2016-0368/QEF_368.pdf

https://www.istat.it/it/archivio/199318

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