Martedì, 26 Novembre 2024

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Italia: alla ricerca dell'industria perduta

fabbrica abbandonata zoom

 

In una lunga intervista al New York Times, il presidente uscente degli Stati Uniti Barack Obama ha ricorda-to, fra le misure più importanti decise nei suoi due mandati, quelle introdotte in risposta alla crisi del 2008 a favore dell’industria statunitense. L’intervista si è svolta simbolicamente in un impianto di produzione di bat-terie innovative ed ecologiche per le automobili situato in Florida – e di proprietà di una impresa francese (Sorkin, 2016).

La crisi economica iniziata nel 2008 ha accelerato il declino dell’industria italiana e ha prodotto un diva-rio crescente in Europa fra un “centro” sempre più ricco (la Germania e i suoi paesi vicini) e una “periferia” sempre più povera (il Sud Europa). Si tratta tuttavia di processi che hanno radici ben più lontane, legate alla debolezza tecnologica dell’industria italiana, alle piccole dimensioni delle imprese, alle massicce privatizza-zioni realizzate a partire dagli anni ’90, all’assenza di una strategia di politica industriale. Negli ultimi due decenni le misure di politica industriale introdotte in Italia sono state frammentate, fondate su un approccio prevalentemente “orizzontale”, e finanziate con risorse modeste. Esse non sono state in grado di stimolare produzione e investimenti e di ridurre il gap dell’Italia nelle industrie a più alto contenuto tecnologico. Dopo i gravi effetti della crisi, una nuova politica industriale – sia in Italia che nel contesto europeo - appare indi-spensabile per contrastare il declino dell’industria e far emergere nuove attività produttive in settori tecnolo-gicamente avanzati.

E’ opportuno innanzi tutto riaffermare quali sono gli obiettivi della politica industriale. Essa dovrebbe fa-vorire l’evoluzione dell’economia verso direzioni ritenute desiderabili dal punto di vista economico (miglio-rando l’efficienza), sociale (riducendo povertà e diseguaglianze), ambientale (garantendo la sostenibilità) e politico (proteggendo particolari interessi nazionali), quando l’operare dei privati sul mercato non permette di raggiungere tali obiettivi. Dal punto di vista economico, l’autorità pubblica può ottenere miglioramenti di efficienza statica, intervenendo nei casi di fallimenti del mercato, e di efficienza dinamica, incrementando le risorse disponibili, promuovendo la crescita di settori con forti processi di apprendimento, favorendo il cam-biamento strutturale verso settori a più alta produttività; le politiche pubbliche possono anche svolgere un ruolo fondamentale nel programmare e coordinare gli investimenti, le competenze e le reti tra imprese e isti-tuzioni; infine, le politiche industriali sono necessarie per fornire le condizioni di contesto – istruzione, cono-scenze, infrastrutture, materie prime – indispensabili per lo sviluppo di nuovi settori. Nell’attuale fase dell’economia italiana, i guadagni in termini di efficienza dinamica devono essere l’obiettivo chiave degli interventi di politica industriale.

Negli ultimi anni una serie di importanti contributi accademici ha raccolto la sfida di ridefinire il perime-tro di una “nuova politica industriale”. Questi contributi condividono l’idea che il solo operare delle forze di mercato non sia in grado di garantire lo sviluppo di nuo-ve tecnologie e di nuove capacità produttive; essi affermano che sia necessario riaffermare un ruolo attivo della politica pubblica nell’economia e che il solo impiego di misure “orizzontali”, cioè di quelle misure normative che definiscono il contesto istituzionale nel quale si muovono le imprese, sia spesso inadeguato.

Tra gli studi citati c’è ampio consenso sull’idea che una nuova politica industriale dovrebbe accelerare la diffusione delle conoscenze e sostenere l’apprendimento e l’innovazione fra le imprese. Gli autori concorda-no che una nuova politica industriale non possa essere indirizzata al solo settore manifatturiero - sebbene lo sviluppo di nuove capacità in questo settore restino cruciali per la crescita. Né gli interventi dovrebbero esse-re indirizzati all’insieme delle industrie, né definiti su misura - tranne in casi eccezionali - per i bisogni di una singola impresa. Piuttosto, le politiche industriale dovrebbero favorire un ventaglio di tecnologie ben de-finite e di industrie ad alto contenuto di conoscenza e apprendimento, che possono essere realizzate sia da istituzioni pubbliche sia private.

Sul piano della governance, non esiste un unico paradigma di regole e istituzioni che siano adatte a tutti i paesi; al contrario, si ravvisa la necessità di individuare strumenti appropriati al contesto economico cui si riferiscono (Rodrik 2008b); forme di collaborazione e coordinamento di tipo “bottom-up” tra imprese, rap-presentanze sindacali, istituzioni centrali e locali, società civile, etc., possono aiutare ad identificare gli inter-venti più urgenti e garantire una maggiore trasparenza e accountability delle misure.

 

L’impatto della crisi sull’industria manifatturiera italiana

La crisi economica ha colpito duramente l’economia italiana. Il Pil non è ancora tornato ai livelli del 2008 e la crescita nel 2015 è stata modesta (+0,8%). Le previsioni per il 2016 delle principali organizzazioni na-zionali internazionali – l’Istat, il Fondo Monetario Internazionale, l’Ocse e la Commissione Europea – collo-cano la crescita dell’Italia ancora sotto la media dell’area euro (0,8/0,9%).

La crisi ha avuto un forte impatto sul tasso di disoccupazione, aumentato dal 6% del 2008 all’11,5% del 2015; la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40%; il numero di occupati è tornato solo nel 2015 ai livel-li del 2005. Nel contesto europeo, l’economia italiana ha ridotto il suo peso in Europa e ha ora un Pil pro-capite sotto la media europea. Le disuguaglianze regionali sono aumentate: le perdite maggiori in termini di reddito e occupazione si sono osservate nel Mezzogiorno.

Nel 2013, solo l’11% del valore aggiunto del manifatturiero è localizzato nel Sud d’Italia, il 16% nel Cen-tro, il 33% nel Nord-Est e il 41% nel Nord-Ovest.

Dal 2008 l’industria manifatturiera italiana si è indebolita. Nel 2015, l’indice della produzione nella mani-fattura era sotto il livello pre-crisi di oltre 22 punti percentuali; se si fosse mantenuta la tendenza dei due decenni precedenti (con una crescita modesta dello 0,7% all’anno), il divario tra il prodotto potenzia-le e quello attuale sarebbe stato di circa 27 punti. Questa tendenza è la conseguenza di una doppia recessione che ha portato l’indice della produzione dei beni manifatturieri ai livelli del 1980.4 La debole ripresa della produzione suggerisce un rischio di “isteresi” - un sistema industriale che ha raggiunto un nuovo stato di “normalità” e non è più in grado di tornare ai livelli pre-crisi.

Il dato annuale relativo al 2016 non è ancora disponibile. I dati mensili destagionalizzati mostrano tuttavia una crescita della produzione industriale più sostenuta di quella osservata nel 2015.

Nel 2015 non si è osservata una chiara inversione di tendenza: l’indice della produzione nel manifatturie-ro è aumentato dell’1,1% rispetto all’anno precedente (contro un -0,1% nel 2014) e 11 settori su 24 (al livello di dettaglio del settore Ateco a 2 cifre) hanno mostrato un andamento negativo.

Dal 2008, il sistema manifatturiero italiano ha perso terreno rispetto ai principali paesi europei.

L’indice della produzione è cresciuto in Polonia come negli altri paesi dell’Europa orientale, ed è superiore ai livelli pre-crisi in Germania; in Francia, come in Portogallo, la produzione ha quasi raggiunto i livelli pre-crisi; la Spagna e l’Italia sono invece passati per una drammatica riduzione della produzione. Nel complesso, la produzione manifatturiera dell’Ue28 è inferiore ai livelli di otto anni fa. La contrazione della produzione si è realizzata soprattutto nella “periferia” d’Europa. Gran parte della produzione si è invece spostata nei paesi dell’Est che (come anche il Nord Italia) hanno beneficiato di una crescente integrazione con il sistema pro-duttivo tedesco: la struttura industriale dell’Ue si è fatta così più concentrata .

Il calo della produzione industriale in Italia è stato accompagnato da una caduta degli investimenti indu-striali, più forte che nel resto d’Europa. Nel 2014, il totale degli investimenti a prezzi costanti nel settore ma-nifatturiero era inferiore del 21% rispetto al 2007 (nello stesso periodo la variazione è stata -16% in Spagna, -6% in Francia e +1% in Germania); il loro valore a prezzi correnti è sceso da oltre 60 miliardi di euro nel 2007 a soli 49 miliardi di euro nel 2014. Nel 2013 e nel 2014 la caduta degli investimenti a prezzi costanti rispetto all’anno precedente è stata maggiore rispettivamente del 5,2% e del 3,4% di quella del valore ag-giunto. Solo nel 2015 si è avuta una modesta ripresa degli investimenti, con due anni di ritardo rispetto ai principali paesi europei.

L’Italia si trova ad affrontare un calo – strutturale – in un settore, quello manifatturiero, che è stato il mo-tore della sua crescita. Non si vedono all’orizzonte industrie capaci di giocare un ruolo analogo: il sistemaì bancario e finanziario è stato duramente colpito dalla crisi, i servizi soffrono il crollo dei consumi e nel setto-re pubblico è improbabile un recupero degli investimenti.

Ad aggravare il quadro congiunturale si aggiunge la mancata ripresa della domanda interna. Analizzando l’indice del fatturato derivante da prodotti venduti sul mer-cato estero si può osservare come l’Italia abbia avuto un andamento simile a quella della Germania e superio-re a quello della Francia: alla fine del 2015, l’indice del fatturato estero è pari a circa 114 in Italia e 118 in Germania (2007=100). E’ la forte involuzione del fatturato interno, al contrario, a spiegare il calo del fattura-to totale delle imprese manifatturiere.

Il calo della produzione nel manifatturiero non sembra dunque il risultato di un forte peggioramento della competitività dei beni italiani sui mercati esteri. In un contesto di crescita degli scambi mondiali, le imprese italiane con una forte presenza commerciale all’estero hanno infatti aumentato le vendite, rafforzando le loro condizioni finanziarie ed economiche.

In Italia, il crollo della domanda interna ha colpito invece le imprese che operavano principalmente sul mercato interno, portando ad una forte caduta della produzione. La differenza di performance tra imprese competitive sui mercati esteri e imprese attive solo sul mercato interno si è fatta così più ampia.

A queste considerazioni si devono aggiungere alcuni avvertimenti. I dati appena presentati si riferiscono al fatturato e non al valore aggiunto. Il valore delle esportazioni dell’Italia potrebbe quindi essere sovrastima-to dall’importazione e successiva ri-esportazione di beni intermedi, all’interno delle “catene globali del valo-re”. Inoltre, un calo del commercio mondiale potrebbe limitare le opportunità di crescita delle imprese attive sui mercati esteri. Infine, la caduta della produzione industriale potrebbe favorire – nel caso di ripresa della domanda interna - un significativo aumento delle importazioni di beni finali, una dinamica già vista nel 2015, con maggiori probabilità di futuri squilibri commerciali nelle partite correnti, da compensare con un maggiore afflusso di capitali e un maggiore debito privato e pubblico.

L’Italia sta perdendo terreno nei settori industriali a più alto contenuto tecnologico. Il declino della pro-duzione industriale durante la crisi scaturisce da una forte contrazione nei settori a medio-alta e medio-bassa tecnologia (dal 2007 al 2015 rispettivamente -26% e -30%), da una riduzione meno marcata nelle industrie a

bassa tecnologia (-20%) e da un calo contenuto nei settori ad alta tecnologia (-1%).7 In Germania e Francia, questi ultimi hanno però registrato una crescita rispettivamente del 22% e del 9%; i settori a medio-alta tec-nologia sono invece aumentati del 3% in Germania e scesi del 18% in Francia.

Eurostat definisce i settori ad alta e medio-alta tecnologia sulla base dei livelli di spesa in R&S. Le industrie ad alta tecnologia comprendono: i prodotti farmaceutici, computer, prodotti di elettronica e ottica, il comparto aerospaziale. Le industrie a medio-alta tecnologia includono: prodotti chimici, fabbricazione di armi e munizioni, elettronica, macchinari, automobili e alti veicoli, altri mezzi di trasporto, prodotti medici e altri strumenti. Si noti tuttavia che i settori ad alta tecnologia in Italia rappresentavano nel 2013 solo il 9% del valore aggiunto totale del manifatturiero e il 6% del totale degli occupati (in termini di unità equivalenti a tempo pieno).

In realtà, la crisi ha solo accelerato un trend già in corso da tempo; in Italia dal 1992 al 2015 il tasso di variazione composto annuo dell’indice della produzione delle industrie ad alta e medio-alta tecnolo-gia è stato negativo (-0,4% e -0,2% rispettivamente); al contrario, nei maggiori paesi europei, compresa la Spagna, gli stessi settori hanno registrato una variazione positiva.

L’Italia possiede oggi poche aziende leader nei mercati globali. Negli ultimi anni diverse imprese italiane sono state cedute a investitori stranieri, il cui impegno nel mantenere la produzione, l’occupazione, la spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S) e le attività manageriali in Italia è incerto9. Inoltre, negli stessi anni, la spesa R&S in Italia delle multinazionali è diminuita.

L’Istat ha registrato per il 2013 un rapporto di spesa R&S sul Pil pari all’1,3%, ancora distante dall’1,53% posto come obiettivo dalla strategia Europa 2020: per colmare il gap sarebbero necessari ulteriori 4 miliardi di euro di spesa annua. La debolezza della performance innovativa dell’Italia è descritta dall’Innovation Union Scoreboard 2014, che colloca l’Italia fra gli “innovatori moderati” con “performance innovativa” assai minore della media europea.

 

L’evoluzione delle politiche industriali in Italia

In Italia la crescita economica del secondo dopoguerra è stata sostenuta da un ampio ricorso alla politica industriale. Come per la maggior parte dei paesi europei, gli obiettivi sono stati lo sviluppo di un’ampia e di-versificata base manifatturiera nelle industrie emergenti degli anni ‘50 e ‘60 – acciaio, auto e prodotti chimi-ci, i tipici settori della produzione “fordista” – e, negli anni ‘70 lo sviluppo di nuove attività nell’elettronica, nelle telecomunicazioni e nell’aeronautica. La politica industriale ha avuto un ruolo chiave nello sviluppo delle infrastrutture di comunicazione e dei trasporti e nell’approvvigionamento delle risorse energetiche. I governi hanno guidato l’economia con il consenso di imprese, sindacati e opinione pubblica; essi si sono ser-viti di istituzioni – ministeri, agenzie, imprese private e pubbliche, autorità pubbliche – dotate delle risorse e delle competenze necessarie. I governi si sono posti l’obiettivo di sostenere attività in partenza inefficienti e costose, ma che sarebbero diventate efficienti nel tempo, sostenute da processi di apprendimento, investi-menti, espansione dei mercati e riduzione dei costi consentita dalle economie di scala.

In Italia – come nelle altre economie europee – la politica industriale ha utilizzato un ampio ventaglio di strumenti - dalle imprese pubbliche nel settore manifatturiero, nei servizi e nelle banche agli investimenti in infrastrutture. In Italia, le imprese pubbliche includevano una dozzina di imprese dell’IRI, l’ENI, attiva nel comparto petrolifero, l’ENEL nell’elettricità, insieme ad altre imprese operanti in diverse altre industrie, spesso con un ruolo strategico di controllo di settori ritenuti fondamentali per lo sviluppo del paese. La pre-senza di banche pubbliche ha permesso inoltre una migliore allocazione del credito a favore di imprese pri-vate attive nello sviluppo di nuove attività o nell’industrializzazione del Sud d’Italia. La politica industriale ha anche previsto l’erogazione di sussidi, sgravi fiscali, il sostegno diretto agli investimenti, alla R&S, com-messe ai produttori nazionali e altre misure di protezione dei mercati.

Questa strategia di diversificazione della produzione nazionale, di coordinamento degli investimenti e di creazione di nuova occupazione ha funzionato bene fino agli anni ‘70, con aumenti di produzione e produtti-vità e un adeguamento delle competenze tecnologiche del paese a quelle delle realtà economiche più avanza-te; il recupero del Sud è stato però limitato perché gli investimenti pubblici hanno fallito nel creare una rete di imprese dinamiche capaci di promuovere nuove attività industriali.

Dagli anni ‘80 lo sviluppo del paradigma tecnologico basato sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha trasformato la natura dei beni prodotti, dei sistemi produttivi e dei mercati. Negli stessi anni i processi di globalizzazione hanno portato a una maggiore integrazione internazionale e a una liberaliz-zazione degli investimenti esteri e dei flussi di capitale, modificando il contesto entro il quale si muovono le imprese pubbliche. La maggiore competizione internazionale e la mobilità della produzione hanno reso più visibile la mancanza di dinamismo di molte imprese pubbliche e private, che spesso non avevano maturato l’indipendenza tecnologica – nonché le competenze finanziarie e gestionali – necessarie per sostenerne la crescita. In particolare, le imprese pubbliche sono state condizionate dalla grande influenza esercitata dai partiti di governo, che, cresciuta nel tempo, ha portato a problemi di corruzione e ad una scarsa efficienza nell’uso delle risorse. Per molte imprese private invece, la protezione di cui godevano sul mercato interno ne ha sensibilmente ridotto le capacità competitive sui mercati internazionali.

I primi anni ‘90 hanno rappresentato un punto di svolta, con una combinazione di eventi – a livello nazio-nale e internazionale – che hanno profondamente ridotto il ritmo dell’innovazione del sistema produttivo e hanno contribuito a indebolire l’industria italiana.

In primo luogo, l’accordo promosso dal WTO sui diritti di proprietà intellettuale – e il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale nelle strategie delle imprese multinazionali - ha reso più difficile e costoso ac-quistare conoscenza dall’estero, soprattutto per paesi “imitatori di tecnologia” come l’Italia.

In secondo luogo, le frequenti svalutazioni della lira utilizzate come strumento per recuperare competiti-vità sui mercati internazionali – tra cui la drammatica svalutazione del 30% del tasso di cambio nel 1992 – hanno ridotto la spinta delle imprese italiane all’innovazione e al cambiamento organizzativo; da allora, la struttura industriale dell’Italia ha accelerato la specializzazione nei settori tradizionali, dove la concorrenza da parte delle economie asiatiche è divenuta più forte, dando avvio a quella polarizzazione tra imprese orien-tate all’esportazione e imprese orientate al mercato interno che abbiamo visto sopra.

In terzo luogo, la flessibilità del mercato del lavoro introdotta con la riforma Treu del 1997, ampliando la possibilità per le imprese di ricorrere a contratti precari e lavoro interinale, ha ridotto il costo del lavoro delle imprese, ma ha finito col ridurre gli investimenti in capitale umano e innovazione, ponendo un freno all’aumento della produttività e ampliando il gap competitivo con gli altri paesi europei.

In quarto luogo, l’aumento dei profitti negli ultimi due decenni non si è tradotto in un aumento degli inve-stimenti reali, indebolendo una fonte essenziale di progresso tecnologico e competitività; in parte, questo è dovuto alla crescente finanziarizzazione dell’economia e agli alti rendimenti offerti dalla finanza che hanno favorito scelte di breve termine da parte delle imprese.

Il prodotto dell’interazione di questi fattori è una difficoltà crescente del sistema produttivo nel tenere il passo dell’avanzamento tecnologico nei settori più avanzati, già visibile a metà degli anni Novanta.

Mentre il sistema produttivo si posizionava su una traiettoria tecnologica “povera”, intaccando la compe-titività del sistema economico nel lungo periodo, la logica della politica industriale mutava i propri principi di azione.

I primi anni ‘90 hanno visto accelerare il processo di integrazione europea con il progetto del mercato u-nico e dell’Unione Monetaria. Sotto la retorica neoliberale dell’“efficienza del mercato”, le scelte sulla traiet-toria di sviluppo delle economie venivano lasciate agli attori privati, principalmente grandi imprese indu-striali e finanziarie. La liberalizzazione dei movimenti dei capitali nel 1990, che si presumeva potesse favori-re la crescita delle imprese private, non aveva prodotto una crescita sensibile degli investimenti. Il trattato di Maastricht del 1992 aveva aperto invece la strada alla creazione dell’Euro, dotato di una struttura istituziona-le profondamente distorta, come rivelerà poi la crisi del 2008.

Il trattato di Maastricht ha anche imposto una riduzione del debito pubblico, in parte finanziato da un im-ponente piano di privatizzazione delle imprese pubbliche. Le banche pubbliche vennero privatizzate per pri-me, seguite dalle imprese manifatturiere e da quelle dei servizi. Nel 2005 il totale degli introiti ottenuti dal processo di privatizzazione è stato stimato in oltre 120 miliardi di euro; tra il 1997 e il 1999 le privatizzazioni hanno finanziato il bilancio pubblico con un reddito annuo vicino al 2% del Pil italiano (Micossi, 2007).

Nei prossimi anni sono previste le privatizzazioni di Poste Italiane, ENAV e Ferrovie dello Stato.

La spesa per aiuti di Stato è definita sulla base di alcuni requisiti. In particolare, un aiuto di Stato deve es-sere finanziato da una autorità pubblica e deve fonire un vantaggio specifico. Il concetto di aiuto di stato può essere applicato sia ad interventi nel settore manifatturiero sia nei servizi e nell’agricoltura e nella pesca; può comprendere le risorse dedicate ad obiettivi “orizzontali” di interesse comune o concessi a particolari settori dell’economia; può infine riguardare specifici obiettivi, come ad esempio il salvataggio di imprese o la con-cessione di aiuti per la loro ristrutturazione. Gli aiuti concessi al settore finanziario in risposta alla crisi fi-nanziaria non sono considerati aiuti di Stato.

Negli anni 90 le nuove direttive della Commissione Europea sono state finalizzate a ridurre il perimetro dell’azione pubblica nell’industria e nei servizi, sostenendo che l’intervento dello stato nel sostegno a speci-fiche industrie aveva fallito nel promuovere la competitività e ritardato quella ristrutturazione del settore in-dustriale che sarebbe stata necessaria per favorire l’internazionalizzazione e l’innovazione nelle imprese (Commissione Europea, 1990). Le misure discrezionali del governo volte a favorire particolari imprese o set-tori venivano considerate inefficaci, poiché alteravano il corretto funzionamento dei mercati; il procurement pubblico veniva liberalizzato a livello europeo; l’uniformità delle regole tra gli stati membri richiedeva l’eliminazione di forme di intervento “sleali”, che andavano ad alterare la concorrenza fra le imprese europee. Lo Stato, non più “produttore”, avrebbe dovuto limitare il suo ruolo a quello di Stato “regolatore” del cor-retto funzionamento dei mercati. Vennero quindi progressivamente ridotti gli interventi “verticali”, volti a sostenere singoli settori o imprese, mentre venne posta l’enfasi su interventi di tipo “orizzontale”, diretti a garantire condizioni favorevoli alla competitività complessiva del sistema economico.

L’intervento del governo venne concettualizzato come “aiuto di Stato”; le statistiche della Commissione Europea sugli “aiuti di Stato” dei paesi europei a favore di industria e servizi mostrano infatti la decisa ridu-zione delle risorse impegnate dai governi: tra il 1992 e il 2013 gli aiuti di Stato dei 28 paesi dell’Unione eu-ropea sono scesi dall’1,2% del Pil allo 0,5% .

La diminuzione degli aiuti di Stato è in effetti rallentata durante la crisi, ma essi non hanno giocato un ruolo pro-ciclico nel sostenere la domanda e gli investimenti.

In questo modo, le politiche nazionali hanno abbandonato l’obiettivo di sostenere lo sviluppo industriale nelle regioni più arretrate. Allo stesso tempo, l’impiego dei Fondi Strutturali Europei, lo strumento principale per la po-litica di coesione nell’Unione Europea, non ha bilanciato la diminuzione delle risorse impiegate. Il risultato è che, dallo scoppio della crisi, le disparità regionali sono aumentate in tutta Europa e il divario è cresciuto no-tevolmente anche in Italia.

Il rapido processo di privatizzazione delle imprese pubbliche intrapreso negli anni ’90 ha lasciato in eredi-tà al paese tre conseguenze negative. Per prima cosa, le privatizzazioni non hanno consolidato realtà indu-striali in grado di competere sui mercati internazionali; al contrario, esse hanno spesso significato la fine del-la presenza italiana nelle produzioni a più alta tecnologia, come nel caso dell’industria dell’elettronica, delle telecomunicazioni, dei prodotti chimici, delle attrezzature di trasporto. In secondo luogo, la spesa in R&S delle imprese privatizzate è risultata del tutto insufficiente. Infine, le pri-vatizzazioni non hanno sostenuto la nascita e lo sviluppo di nuove imprese private; in Italia le imprese sopra i 250 addetti sono circa 3.000, rispetto alle 9.000 tedesche e alle 4.000 francesi; nel manifatturiero le grandi imprese contano per il 35% del valore aggiunto, rispetto alla media europea del 55%. L’industria del paese ha finito col puntare su un numero molto ampio di micro-imprese, particolarmente attive in settori più tradi-zionali e a minore valore aggiunto, spesso raggruppate in distretti industriali.

Un tentativo di riportare all’attenzione dell’opinione pubblica una strategia di politica industriale in Italia è emerso nel 2006, quando l’allora ministro dell’industria del governo di Romano Prodi, Pierluigi Bersani, lanciò il piano “Industria 2015”. La recente valutazione del programma realizzato dalla Corte dei Conti ne ha documentato il fallimento: a dispetto di un finanziamento di 663 milioni, ne sono stati spesi solo 23, con la conclusione di solo tre dei progetti previsti.

 

Il ritorno della politica industriale in Europa

Negli ultimi trent’anni la politica industriale in Europa ha avuto un ruolo marginale. Oggi sono però visibili i segnali di un suo ritorno nell’agenda politica dei governi.

Dal 2010 le politiche dell’Unione Europea sono inserite all’interno della strategia Europa 2020 - che ha so-stituito l’agenda di Lisbona - che ha l’obiettivo di rendere l’Europa “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e mi-gliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. La strategia Europa 2020 identifica tre priorità: “una crescita intelligente”, grazie a investimenti più efficaci nell’istruzione, nella ricerca e nell’innovazione;“una crescita sostenibile”, ovvero un’economia “verde”, a basse emissioni di CO2; “una crescita solidale”, con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro, ridurre la povertà e promuovere una maggiore coesione territoria-le. Nel 2020 l’Unione Europea è chiamata a raggiungere cinque obiettivi (su occupazione, innovazione, i-struzione, riduzione della povertà e cambiamenti climatici), da raggiungere attraverso otto “iniziative prio-ritarie” (Commissione Europea, 2010a). Le iniziative più rilevanti per la politica industriale sono quelle de-nominate “L’Unione dell’Innovazione” (Commissione Europea, 2010b) e “Una politica industriale integrata per l’era della globalizzazione” (Commissione Europea, 2010c).

Negli anni successivi alla crisi, l’enfasi sulle politiche di austerità ha messo in secondo piano qualsiasi di-scussione sulla necessità di una nuova politica industriale in Europa. Tuttavia, il forte calo della produzione industriale ha indotto la Commissione Europea a introdurre, nel Gennaio 2014, una nuova iniziativa politica, il cosiddetto “Industrial Compact”, che ha fissato l’obiettivo di portare la quota del valore aggiunto dell’industria sul Pil europeo al 20%, dal 16% attuale (Commissione Europea, 2014a). In realtà, le sole novi-tà previste nel documento riguardano il sostegno agli investimenti in settori ad alto valore aggiunto e con for-ti opportunità di crescita, (come il settore energetico, le industrie “verdi” e le tecnologie digitali), e l’indicazione per i governi di aumentare il finanziamento della ricerca industriale attraverso le iniziative Ue già esistenti, come il programma Horizon 2020, il programma COSME (Programma per la Competitività del-le imprese e le PMI) e i Fondi Strutturali Europei (compreso il co-finanziamento nazionale). Una maggiore attenzione è rivolta anche alla necessità di azioni coordinate a livello europeo sulla lotta ai cambiamenti cli-matici e sull’approvvigionamento energetico dell’Unione. Tuttavia, la nuova iniziativa non prevede nuovi stanziamenti per il finanziamento degli interventi né è previsto alcun cambiamento nell’approccio di politica industriale.

Già dalla metà degli anni Duemila, la Commissione Europea aveva cominciato ad adottare un approccio più flessibile alla politica industriale, favorendo l’adozione di tecnologie ritenute “abilitanti” per il sistema economico. E tuttavia, sia dal lato degli strumenti sia delle risorse messe a disposizione, le linee di indirizzo della Commissione restano di fatto incentrate su un approccio “orizzontale”, su una maggiore integrazione del mercato dei beni e di quello dei servizi, sulla necessità di garantire rigidamente condizioni di piena con-correnzialità sui mercati. Nessun rilancio poi è previsto sul piano delle risorse.

Nel 2014, la Commissione Europea ha promosso un piano di investimenti per l’Europa, noto con il nome di “Piano Juncker”, basato sulla creazione di un Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (FEIS). A re-gime, il piano prevede di finanziare nuovi investimenti per una cifra pari a 315 miliardi di euro. La cifra ini-ziale stanziata dalla Commissione prevede 8 miliardi di fondi Ue e 5 miliardi dalla Banca Europea degli In-vestimenti (BEI); la garanzia dei fondi Ue sui progetti dovrebbe garantire ulteriori 8 miliardi. L’intero stan-ziamento di 21 miliardi dovrebbe mobilitare risorse addizionali dagli stati membri e da imprese private per una quantità 15 volte superiore, fino appunto a 315 miliardi. A due anni dall’avvio del piano, i fondi naziona-li impegnati per i progetti sono stati limitati – in un primo momento 8 miliardi ciascuno da Germania, Fran-cia e Italia – e sono stati subordinati ad investimenti da realizzare negli stessi paesi. L’effetto leva ipotizzato appare ad oggi difficilmente realizzabile (Commissione Europea 2015; Unione Europea 2015). Il FEIS, diret-to dalla BEI, dovrebbe finanziare investimenti in infrastrutture e innovazione e fornire finanziamenti per le piccole e medie imprese, integrando quanto già realizzato dalla stessa BEI con il Fondo Europeo degli Inve-stimenti. Dall’autunno del 2015, gli stati membri hanno proposto 1.300 progetti per un totale di finanziamen-ti richiesti pari a 2.000 miliardi, evidenziando il forte mismatch tra gli interventi necessari e le risorse effetti-vamente disponibili. Una prima valutazione del piano Juncker ha messo in discussione l’effettiva “addiziona-lità” dei progetti finanziati rispetto a quelli che sarebbero stati comunque promossi dalla Bei (Bruegel, 2016).

Il tema della ripresa degli investimenti in Europa sta ora ricevendo grande attenzione, con uno ampio spettro di voci – tra cui l’Ocse, l’Fmi, ecc. – che stanno richiamando l’Europa e i governi nazionali a supera-re i vincoli imposti dalle misure di austerità (Prodi, 2014, Quadrio Curzio, 2015, Economia & Lavoro, 2014).

 

Gli strumenti della politica industriale e tecnologica in Italia

Abbiamo visto come, a partire dagli anni Novanta, in Italia – e in Europa – si sia rinunciato a gran parte delle politiche industriali del dopoguerra. La crisi, tuttavia, ha imposto inevitabilmente un maggiore coinvol-gimento del governo nel sostenere l’economia.

E’ stato Claudio De Vincenti, all’epoca sotto-segretario per l’industria, a fornire un quadro della strategia di politica industriale che l’Italia dovrebbe perseguire (De Vincenti, 2014). De Vincenti ha sostenuto che gli elementi chiave di una moderna politica industriale dovrebbero essere la liberalizzazione dei mercati caratte-rizzati da posizioni di rendita; interventi “orizzontali” a favore dell’istruzione, a sostegno della spesa in R&S delle imprese e all’innovazione; investimenti in infrastrutture; interventi “verticali” sulle “filiere” dinamiche della produzione, quelle identificate dai documenti della Commissione Europea; nuove disposizioni sulla re-golamentazione ambientale e incentivi agli investimenti privati; l’impiego diretto di risorse pubbliche do-vrebbe invece essere previsto (attraverso “Contratti di Sviluppo” o “Accordi di Programma”) nel momento in cui una grande impresa, un distretto o un settore vengano colpiti dalla crisi, con l’obiettivo di riportarli a condizioni di competitività; dovrebbe infine essere previsto un nuovo ruolo per Cassa Depositi e Prestiti (CDP, vedi dopo)19 sul modello delle banche pubbliche di investimento, con la possibilità di acquisire quote di imprese private ma agendo di fatto come un investitore di mercato.

Quella di De Vincenti è una impostazione in cui a prevalere è la logica dell’efficienza del mercato rispetto alla definizione di politiche più selettive e obiettivi più ambiziosi di ridisegno della struttura produttiva; l’enfasi è posta sull’integrazione fra l’intervento regolatore del governo e le decisioni dei privati, che potreb-be condurre nuova “governance pubblica dei mercati” (De Vincenti, 2014).

In questa sezione vengono descritte le principali misure a sostegno del sistema produttivo italiano intro-dotte nel corso degli ultimi anni. Come vedremo, tali misure appaiono frammentate e sono finanziate con ri-sorse modeste; esse non sono inoltre in grado di premiare le imprese più orientate all’innovazione tecnologi-ca, quelle che potrebbero giocare un ruolo decisivo nella crescita di lungo periodo dell’economia.

Sul piano della governance degli interventi, tre sono i soggetti coinvolti: il ruolo chiave è affidato al Mi-nistero dello Sviluppo Economico (MISE); il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) ha invece il compito di gestire le misure relative alla ricerca pubblica (e in parte privata); infine, c’è CDP, con il ruolo “non ufficiale” di banca pubblica di investimento.

Le politiche del MISE vengono decise sulla base di “obiettivi orizzontali” come il sostegno all’attività di R&S e all’innovazione delle imprese, la loro internazionalizzazione, il sostegno alla nuova imprenditorialità, allo sviluppo locale e, più in generale, alla crescita delle attività produttive. Gli interventi del MIUR sono normalmente basati sulle aree tematiche promosse dai programmi della Commissione Europea, come Hori-zon 2020, le sette “Societal Challenges” e l’“Agenda digitale europea”, integrando priorità nazionali ed eu-ropee. Il nuovo Programma Nazionale di Ricerca (PNR), recentemente approvato, si concentrerà su queste aree.

 

Interventi a sostegno delle imprese

L’indicatore principale per valutare l’entità dell’intervento pubblico a sostegno delle imprese – escluden-do la domanda proveniente dal public procurement – è l’ammontare di denaro speso per trasferimenti. La revisione di tali spese è stata al centro del rapporto commissionato nel 2012 dal governo di Mario Monti all’economista Francesco Giavazzi. Per il 2011, sulla base dei dati del bilancio dello Stato, i trasferimenti al-le imprese hanno registrato un totale di 36,3 miliardi di euro, sommando i sussidi del governo centrale e di quello locale. Quelle propriamente rilevanti per le attività di politica industriale sono il sottoinsieme di 6 mi-liardi gestito dal Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), nei quali sono compresi gli interventi di so-stegno considerati dalla Ue come “aiuti di Stato”. Il rapporto Giavazzi ha stimato un ammontare di sussidi “ingiustificati” pari a quasi 10 miliardi.21 Secondo il rapporto, un taglio di questa entità dei sussidi e un paral-lelo taglio delle tasse potrebbe sostenere un aumento del Pil dell’Italia dell’1,5% in due anni.

Tra le misure più significative a sostegno alle imprese realizzate nel corso degli ultimi anni vi sono:

 

Fondo di garanzia per le PMI

Il principale strumento a favore delle imprese è un sistema di garanzie pubbliche sui prestiti denominato Fondo Nazionale di Garanzia. Il Fondo permette a PMI e microimprese di ottenere finanziamenti mediante la concessione di una garanzia pubblica che si affianca o si sostituisce alle garanzie reali delle imprese. Nel periodo 2008-2014 il fondo ha messo a disposizione 32 miliardi di euro in garanzie (di cui 17,6 per le imprese manifatturiere) “attivando” circa 56 miliardi di nuovi investimenti (di cui 31,2 nel settore manifatturiero), principalmente realizzati in imprese localizzate nel Nord Italia. Nel 2014 8,3 miliardi di garanzie hanno concesso 12,9 miliardi di nuovi investimenti.

 

Incentivi per gli investimenti in nuovi macchinari, impianti e attrezzature per le PMI

Nel 2013 il governo ha introdotto un sistema di incentivi per le PMI per l’acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature, reintroducendo uno strumento in vigore sin dagli anni Sessanta (DL 69/2013 “Nuova Legge Sabatini”). Alle imprese viene offerto un contributo che copre parte degli interessi sui finanziamenti bancari. Tra aprile 2014 e giugno 2015 più di 5.000 PMI hanno richiesto l’agevolazione, per un valore di investimenti finanziati pari a circa 1,7 miliardi. Oltre a incrementare i fondi a disposizione, la legge di bilancio 2017 dedica una parte delle risorse impegnate dalla “Legge Sabatini” al finanziamento di investimenti in tecnologie avanzate e au-tomazione previsti dal programma ‘Industria 4.0’. La legge di stabilità 2016 ha introdotto l’ammortamento accelerato fino al 140% del costo originario per nuovi investimenti. La misura è stata prorogata nel docu-mento di bilancio 2017, in cui l’ammortamento accelerato viene innalzato al 250% per l’acquisto di macchi-nari e software legati ad Industria 4.0.

 

Riduzioni fiscali.

Negli ultimi anni, sono stati introdotti specifici incentivi fiscali per favorire il ricorso al capitale proprio delle imprese (Aiuto alla Crescita Economica, istituito nel 2011) e per sostenere l’assunzione di personale a tempo indeterminato attraverso un taglio dell’Irap sul costo del lavoro (dal 2015). Insieme al maxi-ammortamento sui nuovi investimenti, queste misure graveranno sul bilancio pubblico del 2016 per un valore pari a circa 3,5 miliardi di euro. Le prime stime sugli effetti di questi provvedimenti mostrano benefici maggiori per le imprese più grandi, mentre gli interventi non sembrano premiare in maniera particolare le imprese ad alta tecnologia.

 

Attrazione di investimenti diretti esteri

L’Italia è caratterizzata da un flusso modesto di investimenti di-retti esteri rispetto ad altre economie europee. Il governo ha annunciato nel 2013 il piano “Destinazione Ita-lia”, identificando cinquanta misure in grado di attirare nuovi flussi di capitali dall’estero; tra queste, la sem-plificazione delle procedure burocratiche, la promozione di un’agenzia dedicata a sostenere gli investimenti diretti dall’estero, una semplificazione delle regole di investimento, incentivi fiscali mirati. Solo alcune delle misure previste sono poi state effettivamente introdotte negli anni successivi.

 

Interventi a supporto della R&S e dell’innovazione nelle imprese

Il sostegno alla R&S, alla tecnologia e all’innovazione è competenza del Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR). I programmi di incentivo come il credito d’imposta per la R&S e il sostegno alle start-up vengono invece gestiti dal MISE.

Il nuovo Programma Nazionale per la Ricerca (PNR), approvato nell’Aprile del 2016, prevede spese di circa 2,5 miliardi per il periodo 2015-2017.

Nel settembre 2016, il MISE ha presentato il Piano Nazionale ‘Industria 4.0’ 2017-2020. L’obiettivo è quello di favorire l’adozione di nuove tecnologie e strumenti resi disponibili dall’impiego pervasivo “di dati e informazioni, di tecnologie computazionali e di analisi dei dati, di nuovi materiali, componenti e sistemi totalmente digitalizzati e connessi”. Il programma sarà diretto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri, congiuntamente con sei ministeri e altre istituzioni coinvolte, quali le banche principali, Confindustria, i sin-dacati, alcune fondazioni di ricerca senza scopo di lucro e varie istituzioni accademiche. Esso prevede preva-lentemente misure che operino con una “logica di neutralità tecnologica”, di tipo “orizzontale”, volta ad agire sui fattori abilitanti la crescita, la qualità degli investimenti e la forza lavoro. Molte misure previste nella leg-ge di bilancio 2017 rientrano all’interno di questo piano.

 

Crediti d’imposta per R&S

Il credito d’imposta per la spesa in R&S è stato introdotto inizialmente nel 2007 a valere per i successivi anni 2008 e 2009. Dopo una pausa di due anni, la misura è stata reintrodotta nel 2011 per le imprese che finanziano progetti di ricerca in collaborazione con le università e che impiegano lavoratori altamente qualificati nella loro attività di ricerca. Nel 2013 è stato introdotto un nuovo credito d’imposta basato sulle spese incrementali, applicato cioè alla differenza tra le spese in R&S (dell’anno di ri-ferimento) e la media delle spese effettuate nei tre anni precedenti; lo stanziamento iniziale è stato di 600 mi-lioni (per tre anni); la legge di stabilità per il 2015 ha finanziato crediti di imposta per 2,6 miliardi per il peri-odo 2015-2020, aumentando la quantità massima di spese ammissibili per R&S fino a 5 milioni e rimuoven-do il limite al fatturato e alle spese di brevetto (incluse nel “Patent Box”, si veda sotto). Infine, la legge di bilancio per il 2017 ha aumentato i benefici concessi alle imprese che investono in R&S: il credito d’imposta è passato da 5 a 20 milioni di euro per anno e prevede la possibilità di utilizzare i benefici fino al 50% per tutti i tipi di investimento (in precedenza era del 25% e solo per la R&S interna).

 

Il sostegno alle start-up.

Nel 2012 il governo ha introdotto una nuova normativa a sostegno delle start-up innovative, definite come piccole imprese, nate nei cinque anni precedenti, attive nell’innovazione tecnologi-ca, con un fatturato annuo inferiore a 5 milioni di euro, i cui profitti non siano stati distribuiti e con almeno una delle seguenti caratteristiche: a) spesa per R&S pari ad almeno il 15% del fatturato; b) almeno un terzo dei dipendenti in possesso di un dottorato di ricerca o iscrizione ad un corso di dottorato e almeno il 50% della forza lavoro in possesso di un diploma di laurea; c) la proprietà di almeno un brevetto, marchio o licen-za. Sono incluse anche le imprese residenti in un paese dell’Unione Europea ma con almeno una filiale in Italia.

Per le start-up sono disponibili incentivi indiretti, l’accesso facilitato al Fondo di Garanzia, il supporto a-gli sforzi di internazionalizzazione e l’accesso a strumenti finanziari innovativi, come il crowdfunding.

Nel 2015 il governo ha introdotto anche il concetto di “PMI innovativa” con requisiti meno stringenti ri-spetto a quelli previsti per le start-up e la concessione di parte dei benefici sopra richiamati.

 

Il “patent Box”

L’attenzione posta sulla protezione dei diritti di proprietà intellettuale ha portato in Italia – con la legge di stabilità del 2015 – alla definizione di un “patent box”, ovvero un beneficio fiscale per i profitti che le imprese ottengono da brevetti, marchi, licenze e vendite di software. Per le imprese è prevista una detrazione pari al 30% dei redditi ottenuti da queste attività per l’anno 2015, al 40% nel 2016 e al 50% nel 2017. I “patent box” sono strumenti indiretti, basati su incentivi semiautomatici molto comuni nei paesi Ocse, con l’obiettivo di stimolare la produzione di brevetti e diritti di proprietà intellettuale; tuttavia, non è stata prodotta nessuna prova empirica sulla loro efficacia, come sostenuto da Mazzucato (2013). La discipli-na del “patent box” gioca spesso un ruolo chiave nelle strategie delle grandi imprese multinazionali perché viene utilizzata per ridurre la tassazione sui guadagni derivati dalla tecnologia utilizzata. In particolare, le multinazionali sono spesso orientate a “nascondere” i profitti nei pagamenti per royalties associate a brevetti e diritti di proprietà intellettuale. Spesso, infatti, le sussidiarie che posseggono i brevetti e percepiscono le re-lative royalties sono residenti nei paesi che offrono la maggiore riduzione dell’imposizione fiscale.

Per il Patent Box, come per i crediti in R&S, non c’è evidenza di una effettiva addizionalità dei fondi in-vestiti, soprattutto se si tiene conto del possibile trasferimento di attività da un paese ad un altro.

 

ICT e Agenda digitale.

Un piano nazionale per lo sviluppo dell’ICT non è stato disponibile per anni in Italia. Il MISE ha lanciato nel dicembre 2014 il programma “ICT-Agenda Digitale” per il finanziamento di tecnologie abilitanti, finanziato da un fondo istituito ad hoc, il “Fondo per la crescita sostenibile”. Lo stesso Fondo finanzierà con 250 milioni il piano “Industria sostenibile”, promuovendo progetti per la crescita so-stenibile e l’economia verde. Nel 2014 il MISE ha inoltre introdotto i voucher IT per le PMI, finanziando in questo modo l’acquisto di beni materiali informatici.

 

Altri programmi tecnologici.

Il programma per i Cluster Tecnologici Nazionali è stato lanciato nel 2012 con l’obiettivo di favorire le collaborazioni fra imprese, università e enti di ricerca pubblici o privati, attivi nel campo dell’innovazione. Esso si concentra su otto aree tecnologiche24. Nel 2012 il programma Smart Ci-ties ha coinvolto imprese, università e organizzazioni pubbliche di ricerca in progetti innovativi in materia di innovazione sociale in nove aree strategiche, in linea con i progetti europei Horizon 2020 e le sette “Societal Challenges”.

24 Altre forme di aggregazione tra le imprese sono possibili attraverso i contratti di rete, che possono anche essere collegati ad attività e progetti nel campo dell’innovazione tecnologica e dell’internazionalizzazione. Una valutazione è in Caiazzo et al. (2012).

Nel 2017 è atteso poi l’avvio del progetto “Human Technopole”, vale a dire la creazione di un nuovo isti-tuto di ricerca sulla salute, da costruire nella zona di Milano Expo 2015, con un budget previsto di circa 130 milioni di euro all’anno.

Nella legge di bilancio per il 2017, il governo ha anche provveduto a istituire un fondo per infrastrutture e investimenti, pari a 1,9 miliardi di euro, gestito direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (tale fondo potrebbe prevedere anche finanziamenti per spese in ricerca e innovazione). Tuttavia, non sono stati ancora forniti dettagli né sul tipo di spesa né sulle modalità di intervento.

 

Università, R&S e innovazione

I rapporti RIO (Research & Innovation Observatory) sulla ricerca e l’innovazione in Italia (Nascia e Pianta 2015, 2016) hanno ampiamente documentato il progressivo ridimen-sionamento del finanziamento pubblico all’università e alla ricerca che si è avuto negli ultimi anni; come è noto però, il sistema della ricerca scientifica italiana risulta efficiente rispetto al numero e alla qualità delle pubblicazioni prodotte, specialmente in termini di spesa. Il livello di spesa privata in R&S rispetto al Pil ri-sulta ancora molto contenuto e inferiore alla media Ue; la quota di imprese innovative, specialmente quelle tecnologicamente avanzate, è inferiore a quella dei principali paesi europei. Negli ultimi anni è emerso anche un peggioramento del divario tra le regioni settentrionali e quelle meridionali in termini di intensità di ricerca e innovazione.

 

Fondi strutturali UE

I Fondi Strutturali Europei rappresentano la principale fonte di finanziamento per la politica di coesione dell’Unione Europea. Una loro valutazione tuttavia è oltre lo scopo di questo articolo. Il Programma Operativo Nazionale "Ricerca e Innovazione" 2014-2020 (PONREC) è lo strumento con il quale l’Italia contribuisce alla realizzazione della Politica di Coesione dell’Unione Europea a favore delle aree ter-ritoriali più svantaggiate. Esso interessa le regioni in Transizione (TR): Abruzzo, Molise e Sardegna e le re-gioni in Ritardo di sviluppo (LD), Basilicata, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia, con una dotazione finan-ziaria complessiva di 1,3 miliardi di euro, provenienti dal FESR (il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regiona-le), dal FSE (Fondo Sociale Europeo) (930 milioni) e dal finanziamento diretto del governo italiano (360 mi-lioni).

Il MIUR è l’istituzione responsabile del programma; gli investimenti saranno indirizzati in prevalenza su tre aree: cluster tecnologici (327 milioni di euro), tecnologie abilitanti (339 milioni), infrastrutture di ricerca (286 milioni).

I settori tematici del nuovo PONREC sono gli stessi del nuovo Programma nazionale di ricerca (PNR).

La percentuale delle risorse dei Fondi Strutturali Europei investiti in Italia tramite il PONREC e spesi per R&S è aumentata dal 3,1% nel periodo 2000-2006 al 22% nel periodo 2007-2013; per il periodo 2014-2020, tuttavia, la percentuale si è ridotta al 15%.

 

Un nuovo ruolo per Cassa Depositi e Prestiti

Negli ultimi anni il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) è stato simile a quello di una banca di inve-stimento di tipo privato che finanzia attività a supporto della crescita. Negli ultimi anni le sue disponibilità liquide e la sua collocazione al di fuori del perimetro pubblico le hanno infatti permesso di realizzare un nu-mero crescente di operazioni finanziarie che di fatto sono assimilabili a misure di politica industriale (Bassa-nini, 2015; CDP, 2015).

Nel corso degli ultimi anni, CDP ha aumentato costantemente i prestiti alle imprese: nel periodo 2009-2014 ha investito circa 58 miliardi in strumenti di debito, fornendo linee di credito destinate alle PMI. Ha an-che assunto un ruolo decisivo nel finanziamento di fondi di private equity, investendo in imprese “strategi-che”, attraverso il “Fondo Strategico Italiano” (FSI) (dotato di 5,1 miliardi) – istituito con l’obiettivo di so-stenere gli sforzi delle imprese nell’aumentare la loro dimensione, il loro consolidamento finanziario e il miglioramento della loro competitività sui mercati internazionali – e il “Fondo Italiano di Investimento” (FII) (dotato di 1,1 miliardi) – istituito con l’obiettivo di creare un nucleo di “campioni nazionali di medie dimen-sioni” con una capitalizzazione sufficiente ad affrontare la concorrenza internazionale.

Nel dicembre 2015 CDP ha definito un nuovo piano di interventi a valere per gli anni 2016-2020 (CDP, 2015). Il piano estende le risorse investite nel sostegno all’economia reale, con 160 miliardi di investimenti pianificati in cinque anni. Le aree di intervento riguardano il sostegno alle istituzioni pubbliche e alle autorità locali; il finanziamento di nuove infrastrutture; gli aiuti alle imprese; lo sviluppo dell’edilizia. Inoltre, c’è la possibilità di coinvolgere risorse private nel co-finanziamento di progetti infrastrutturali (impiegando anche i finanziamenti del piano Juncker). 117 miliardi sono invece dedicati alla crescita e all’innovazione nelle im-prese.

Dall’azione di CDP non è però mai emersa una chiara strategia d’intervento. In parte, questo è dovuto alla sua stessa natura: essa nasce infatti come istituto privato che ha come priorità la sostenibilità finanziaria e la redditività dei suoi investimenti. Ciò significa che le sue risorse possono essere rivolte ad aziende “sane”, mentre è più complicato sostenere aziende, dotate magari di un potenziale di crescita, ma il cui processo di risanamento risulti rischioso. CDP è poi lontana dal poter assumere un ruolo di primo piano nei settori emer-genti, promuovendo lo sviluppo di specifiche tecnologie sul modello di quelle banche d’investimento nazio-nali descritte in Mazzucato e Penna (2014). Le risorse investite restano del resto limitate per ambire a un ruolo di questo tipo.

 

Una nuova direzione per la politica industriale

Più di venti anni fa, nel 1996, avevamo sostenuto che: “ci troviamo di fronte ad un indebolimento della base tecnologica dell’industria italiana, che si aggiunge al divario negli indicatori aggregati delle attività tec-nologiche (...). Questa dinamica sta allontanando l’Italia dal “circolo virtuoso” tra tecnologia, crescita e oc-cupazione che è comune alle altre economie avanzate”. Con la crisi valutaria del 1992 e la ripresa delle esportazioni trainata dal deprezzamento del 30% della lira, avevamo sostenuto che: “la svalutazione, la crescita trainata dalle esportazioni, la continua specializzazione del paese nelle industrie tra-dizionali e la minore propensione delle imprese al cambiamento tecnologico possono essere viste come il ri-sultato della mancata espansione dell’Italia nei settori ad alta tecnologia negli anni 80”. Il risultato fu che “tra il 1980 e il 1994, l’occupazione nell’industria è diminuita di 1,4 milioni, quasi un quarto del totale. Dopo la recessione dei primi anni 90, l’effetto combinato della fragilità tecnologica dell’industria, di innovazioni ri-sparmiatrici di lavoro, dell’organizzazione internazionale della produzione e della concorrenza in mercati sempre più aperti potrebbe avere un impatto ancora maggiore sul declino della produzione industriale e dell’occupazione in Italia”. La conclusione era che “la natura e il sentiero del cambiamento tecnologico e organizzativo negli anni 90 sono tali da rendere necessario un forte rinnovamento negli stru-menti e nell’approccio alla politica industriale”.

Oggi sappiamo che un nuovo modello di politica industriale deve superare i limiti e i fallimenti delle e-sperienze passate – come le pratiche collusive tra potere politico ed economico, il peso della burocrazia, la scarsa qualità delle istituzioni pubbliche, la mancanza di responsabilità e di spirito imprenditoriale – con meccanismi decisionali che siano democratici, inclusivi dei diversi interessi sociali e aperti alla società civile e ai sindacati. E’ necessario identificare nuove istituzioni e nuove regole che assicurino l’efficace realizza-zione di queste politiche. È fondamentale che le decisioni sul futuro dell’industria italiana siano discusse in un dibattito pubblico e che le priorità vengano definite sulla base di processi di tipo “bottom-up”, dove il ri-conoscimento di priorità comuni fra i vari soggetti interessati possa favorire la selezione di progetti e inve-stimenti prioritari.

Non si tratta quindi di ripercorrere le stesse strade del passato. Le politiche non devono avere come obiet-tivo singole industrie, né essere designate su misura – se non in casi eccezionali – per le esigenze di singole imprese. Al contrario, le politiche dovrebbero sostenere una serie di attività tecnologiche e produttive – che possono essere attuate sia da istituzioni pubbliche e private – che perseguano importanti obiettivi economici, sociali e ambientali.

Un primo elenco delle attività su cui investire comprende le produzioni “verdi”, incentrate sul risparmio energetico e sul trasporto pubblico; lo sviluppo di nuove imprese con capacità innovativa nelle nuove tecnologie della conoscenza e dell’informazione; la produzione di beni e servizi legati alla salute e al welfare. Si tratta di tre attività tutte estremamente rilevanti per l’economia e la società italiana.

 

Ambiente e energia

L’attuale modello industriale deve promuovere una maggiore sostenibilità ambienta-le. Il paradigma tecnologico dei prossimi decenni sarà centrato sullo sviluppo di beni e metodi di produzione eco-sostenibili e a basso impatto ambientale; su processi e produzioni che sfruttano meno energia, meno ri-sorse, meno suolo, e con un minore impatto sul clima e sugli eco-sistemi; sullo sfruttamento delle energie rinnovabili; su sistemi di trasporto che vadano oltre il predominio delle automobili, con sistemi di mobilità integrata con un impatto ambientale ridotto; sulla riparazione e sulla manutenzione di beni esistenti e di in-frastrutture che proteggano la natura e la Terra. Tale prospettiva offre grandi opportunità per la ricerca e lo sviluppo scientifico, l’innovazione e la nascita di nuove attività economiche e sociali, che possono sviluppar-si nella sfera delle attività di mercato e nella sfera delle attività gestite direttamente dal pubblico. Un insieme di politiche coerenti dovrebbe affrontare queste sfide così complesse e importanti per il futuro.

 

Conoscenza e ICT

L’attuale modello industriale è dominato dalla diffusione del paradigma tecnologico basato sulle tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT). L’Europa dovrebbe sfruttare il po-tenziale applicativo delle nuove tecnologie in diversi campi - comprese le industrie tradizionali - così da ot-tenere guadagni di produttività e minori costi, un abbassamento significativo dei prezzi, lo sviluppo di nuovi prodotti, nonché benefici conseguibili sul piano sociale. L’ICT e le attività basate sul web stanno riscrivendo le frontiere tra la sfera economica e quella sociale, come mostra il successo dei software open source, del co-pyleft, di Wikipedia e del peer-to-peer. Le politiche pubbliche dovrebbero incoraggiare l’innovazione intesa come un processo sociale, cooperativo e aperto, in cui siano facilitate le regole sull’accesso e la condivisione della conoscenza, piuttosto che rinforzati i diritti di proprietà intellettuale, più efficaci nel caso di tecnologie più tradizionali.

Infine, nuove regole dovrebbero essere definite per regolare l’interazione fra nuove tecnologie e lavorato-ri, proteggendo il lavoro e i diritti sociali.

 

Salute, welfare e attività assistenziali

L’Europa è un continente che invecchia ma è dotato dei migliori si-stemi sanitari al mondo, sviluppati sulla base di una concezione della sanità come servizio pubblico. Gli a-vanzamenti nel sistema di assistenza, nella strumentazione medica, nelle biotecnologie, nella genetica e nella ricerca farmacologica devono essere finanziati e regolamentati con attenzione alle possibili conseguenze eti-che e sociali (come nel caso degli organismi geneticamente modificati, della clonazione, dell’accesso ai far-maci nei paesi in via di sviluppo, etc.). L’innovazione può essere dedicata ad obiettivi “sociali”, come quelli legati all’invecchiamento della popolazione o al miglioramento dei servizi di welfare, con una partecipazione diretta da parte dei cittadini e delle organizzazioni non profit e con la possibilità di rilanciare il ruolo della fornitura pubblica dei servizi e/o di nuove forme di auto-organizzazione delle comunità.

Tutte queste aree sono caratterizzate da processi produttivi ad alta intensità di lavoro e da una domanda di occupazioni con medie e alte competenze.

Questa nuova direzione politica potrebbe essere introdotta in Italia con l’adozione di una serie di misure concrete, realizzabili a partire dagli strumenti già oggi disponibili.

Prioritario è aumentare la spesa in R&S del settore pubblico, finanziando progetti di ricerca nelle aree so-pra richiamate, sulla base di programmi “mission-oriented”. La spesa per l’istruzione – e le università in par-ticolare – dovrebbe aumentare, riducendo il divario dell’Italia rispetto al resto d’Europa.

La nascita di nuove imprese (o lo sviluppo di quelle già avviate) potrebbe essere favorita dalla creazione e il consolidamento di reti di relazioni durature fra imprese e università ed enti di ricerca, mediante la predi-sposizione di incentivi fiscali mirati volti a promuovere l’innovazione e la valorizzazione economica dei ri-sultati della ricerca, favorendo il trasferimento tecnologico.

Un nuovo programma di public procurement di beni e servizi potrebbe sostenere le imprese ad alta tecno-logia e favorire soluzioni innovative nei servizi pubblici. Anche con le regole attuali imposte dall’Ue, si po-trebbero definire criteri e obiettivi in grado di premiare le realtà italiane più innovative nelle attività sopra ri-chiamate. Si tratta di valorizzare soprattutto il procurement strategico pre-commerciale volto all’acquisto di attività di ricerca, design e prodotti e servizi innovativi che non sono ancora presenti sul mercato e che potrebbero, in particolare, contribuire a migliorare l’efficienza nei servizi forniti dalle amministrazioni pubbliche centrali e locali. Negli ultimi anni il ricorso al public procurement è stato ampio fra i paesi europei e non europei. Alcuni di essi dispongono addirittura di un budget ad esso dedicato. Il public procurement potrebbe dare un segnale preciso alle imprese su quali siano le attività su cui è opportuno investire e dove realizzare investimenti complementari.

La riorganizzazione delle imprese e dei sistemi produttivi locali dovrebbe essere promossa fornendo in-centivi fiscali alla crescita e al consolidamento delle imprese, dotandole di una maggiore capitalizzazione e favorendo gli investimenti. Le politiche di intervento che abbiamo rivisto precedentemente dovrebbero essere più selettive e premiare le imprese che si muovono sulla frontiera tecnologica, che operano nelle aree di ricerca sopra richiamate, che investono in tipologie di investimento rilevanti per la crescita della produttività. È essenziale infatti che gli strumenti adottati a sostegno delle imprese indirizzino le risorse disponibili verso le imprese più innovative e con potenzialità di crescita.

All’interno di questa strategia, il ruolo di Cassa Deposti e Prestiti dovrebbe essere ridefinito, esplicitando il suo ruolo di banca di investimento pubblica: essa però non dovrebbe agire con una logica finanziaria ma con l’obiettivo di sviluppare nuove capacità produttive in settori tecnologicamente avanzati.

In particolare, CDP dovrebbe sostenere l’integrazione tra le attività manifatturiere e quelle dei servizi - e più in generale tra gli attori del sistema innovativo italiano, intervenendo sulle complementarità principali e favorendo la fornitura di servizi alle imprese più innovative.

Il rilancio del sistema produttivo italiano richiede anche un’inversione di rotta nelle politiche europee a sostegno dell’industria.

Un nuovo indirizzo di politica industriale in Europa dovrebbe riconoscere la necessità di ridurre il cre-scente divario nella produzione e nelle capacità tecnologiche all’interno dell’Europa, e ristabilire un forte ruolo pubblico nell’orientare le attività economiche, destinando maggiori risorse a questi obiettivi.

Diverse proposte sono emerse su come progettare un nuovo indirizzo di politica industriale in ambito eu-ropeo, considerando sia lo spazio concesso dalla legislazione vigente sia da una eventuale revisione dei trat-tati.

La confederazione sindacale tedesca, la DGB, ha proposto “un piano Marshall per l’Europa” (DGB, 2013), che prevede un piano di investimenti pubblici della grandezza del 2% del PIL europeo ogni anno per 10 anni. Lo stesso hanno fatto la Confederazione europea dei sindacati (ETUC 2013) e il gruppo parlamenta-re dei Verdi europei, che ha proposto un piano di investimenti per favorire la transizione industriale verso un’economia verde.

Nel seguito presentiamo una sintesi delle proposte che abbiamo avanzato negli ultimi anni e che abbiamo descritto in diversi lavori, cui rimandiamo per maggiori approfondimenti.

Un nuovo indirizzo di politica industriale dovrebbe essere coordinato con le altre politiche dell’Unione - quelle macroeconomiche, monetarie, fiscali, commerciali, della concorrenza, di regolamentazione dei merca-ti, fornendo piena legittimazione all’azione pubblica di influenzare le attività economiche. In particolare vanno cambiate le direttive Ue laddove prevengano l’azione pubblica dal “distorcere” l’azione dei mercati. Poiché questi interventi incontrerebbero l’opposizione di alcuni paesi Ue, è possibile ipotizzare forme di par-tecipazione a “geometria variabile”, che escludano i paesi che non desiderino partecipare.

Al fine di promuovere un nuovo indirizzo di politica industriale, le istituzioni europee esistenti dovrebbe-ro essere rinnovate, assegnando un ruolo strategico alla Banca europea degli investimenti (Bei), cui potrebbe essere direttamente affidata l’erogazione dei Fondi strutturali europei. A lungo termine ci sarà invece la ne-cessità di un’istituzione specifica, una banca d’investimento pubblica europea.

I fondi per il finanziamento di un nuovo programma di politica industriale dovrebbero provenire da risorse “europee”: è essenziale infatti che i bilanci pubblici nazionali dei paesi in difficoltà non siano ulteriormente gravati dalla necessità di fornire risorse aggiuntive. L’ordine di grandezza del finanziamento di un pro-gramma di politica industriale dovrebbe essere quello suggerito dal piano DGB (DGB, 2012) e dalla propo-sta dell’ETUC (European Trade Union Confederation, 2013) – 2% del Pil dell’Ue per un periodo di 10 anni, una cifra pari a circa 260 miliardi di euro l’anno. Come termine di riferimento, la Banca centrale europea ha fornito nel periodo dicembre 2011-marzo 2012 1.000 miliardi di fondi speciali per le banche private all’1% di tasso di interesse; i Fondi Strutturali Europei per il periodo 2007-2013 sono stati pari a 347 miliardi; il prestito annuale da parte della Banca europea per gli investimenti è di 65-70 miliardi di euro all’anno. Uno sforzo investimento di circa il 2% del Pil dell’UE sembra dunque possibile, tenuto conto delle dimensioni delle misure oggi previste.

Si potrebbero prevedere diverse modalità di finanziamento. Per il gruppo di paesi della zona euro, si po-trebbero utilizzare i meccanismi previsti per l’Unione Monetaria o ipotizzare l’emissione di Eurobond, dedi-cati però al finanziamento di specifiche misure di politica industriale. La Bei o una nuova banca di investi-mento pubblica europea potrebbe ricevere fondi direttamente in prestito dalla Bce e fornire finanziamenti ad agenzie di spesa nazionali per gli interventi di politica industriale. Altri fondi dovrebbero essere raccolti sui mercati finanziari o ricavati dall’imposizione di una tassa sulle transazioni finanziarie o una tassa sul patri-monio. Infine, fondi pubblici potrebbero essere utilizzati per mobilitare fondi di investimento privati nel fi-nanziamento di attività a basso rischio ma capaci di realizzare redditività nel breve termine.

Una nuova politica industriale a livello europeo dovrebbe riconoscere la necessità di ridurre il divario cre-scente di capacità produttive e tecnologiche dell’Europa. I fondi per la politica industriale dovrebbero con-centrarsi nei paesi e nelle regioni della “periferia”. Per esempio, il 75% dei fondi potrebbe andare a sostenere attività nei paesi “periferici” – nell’Est Europa e nel Sud, oltre che in Irlanda (e almeno il 50% di questi do-vrebbe andare alle regioni più povere di tali paesi); il restante 25% potrebbe andare alle regioni più povere dei paesi del “centro”.

Un’innovazione importante sarebbe la possibilità, per una banca di investimento pubblica europea, di as-sumere la proprietà di minoranza di start-up ad alto rischio in campi particolarmente innovativi; le azioni po-trebbero essere vendute se le start-up si rivelassero di successo e attraessero capitali privati. Una banca pub-blica europea potrebbe anche finanziare e organizzare reti di innovatori, produttori e utilizzatori di nuove at-tività, al fine di consolidare i rapporti economici e creare nuovi mercati.

Infine, dovrebbero essere finanziati programmi “mission-oriented” per la R&S e l’innovazione. Le lezioni che si possono trarre dalle esperienze di successo al di fuori dell’Europa nel finanziare programmi di ricerca e progetti di investimento innovativi, come ARPA-E negli Stati Uniti o la brasiliana BNDES – discussi in Mazzucato (2013) – potrebbero suggerire forme di intervento pubblico più specifiche ed efficaci.

Infine, dove necessario, si dovrebbe prevedere un sostegno “orizzontale” alle imprese attraverso gli stru-menti di intervento già esistenti, tenendo conto però della diversa natura dei settori (in termini di tecnologie utilizzate, contesto competitivo internazionale, legislazione corrente).

Sul piano della governance, nuovi criteri per il funzionamento, la trasparenza nei processi decisionali, l’accountability nei confronti del Parlamento Europeo e dei cittadini possono contribuire a superare la collu-sione tra politica industriale e potere economico e politico che ha comportato in passato uno spreco di risorse pubbliche e un eccessivo condizionamento esterno sulle imprese.

Le articolazioni dell’intervento pubblico possono essere associate a diversi modelli di governance nella politica industriale dell’Ue: il Parlamento Europeo dovrebbe avere un ruolo di indirizzo degli investimenti, una volta ascoltate le istanze di imprese, centri di ricerca, sindacati, organizzazioni ambientali e della società civile. A livello nazionale, il sistema di governance per la realizzazione dei progetti europei potrebbe ripro-durre quello delineato a livello europeo. Un’istituzione nazionale per gli investimenti pubblici – una nuova Banca pubblica, un’Agenzia, o ad esempio la Cassa depositi e prestiti radicalmente trasformata in Italia – po-trebbe ricevere i fondi europei, definire i progetti d’investimento da realizzare all’interno delle aree sopra de-scritte e identificare i partner – privati, non profit e pubblici – che operano a livello locale e che potrebbero diventare attori chiave nella loro realizzazione.

E’ urgente aprire un dibattito sulla necessità di una nuova politica industriale. Un ampio ventaglio di idee e proposte devono essere condivise e discusse. Gli ostacoli politici ad una nuova politica industriale in Italia e in Europa sono molteplici e profondi mutamenti sono richiesti per superarli. Le opportunità che derivereb-bero da un nuovo indirizzo di politica industriale sono però importanti: il ritorno ad una crescita più sostenu-ta e omogenea in Europa, la creazione di nuovi posti di lavoro, una maggiore coesione sociale e un passo de-cisivo verso la sostenibilità ambientale dell’industria.

 

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