Lunedì, 25 Novembre 2024

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Trump, tra globalizzazione e protezionismo

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Forse il 2016 sarà ricordato come l'anno in cui ha trionfato il populismo su entrambe le sponde dell'Atlantico, negli Stati Uniti, con l'elezione di Donald Trump e in Gran Bretagna con la Brexit. E il 2017 potrebbe essere l'anno in cui, varcando la Manica, il populismo approderà sulle coste del continente, approfittando dei prossimi appuntamenti elettorali nei Paesi Bassi, in Francia, Germania e, probabilmente, in Italia.

Il populismo è sempre più utilizzato come una chiave universale per interpretare la crisi delle democrazie occidentali. Non a caso, la vittoria di Donald Trump in America e la Brexit vengono spiegati come una deriva populista dei rispettivi regimi democratici. La stessa chiave viene utilizzata per spiegare l'avanzata del Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, di Podemos in Spagna o del Movimento cinque stelle in Italia. In realtà, l’alibi del populismo maschera problemi più profondi che riguardano aspetti della crisi che attraversa le democrazie occidentali. Rivediamo brevemente il sorprendente successo Trump.

Il discorso di insediamento di Donald Trump può essere considerato una sintesi del suo approccio demagogico ai problemi degli Stati Uniti e del mondo. Il tono non è stato diverso da quello utilizzato durante la campagna elettorale. Più che rivolgersi al Congresso il suo discorso era indirizzato a quelli che considera normali cittadini americani. E, non a caso, ha scandalizzato la grande stampa americana ed europea.

"Washington è rifiorita, ma la gente non ha condiviso la sua ricchezza". Una dichiarazione che, in effetti, avrebbe potuto fare qualsiasi nuovo presidente, repubblicano o democratico, senza suscitare sorpresa. Nell’ultimo decennio non si contano i libri e gli articoli dei principali commentatori politici americani che descrivono l'estrema polarizzazione della ricchezza. L'1% della popolazione americana che era già ricco ha visto una crescita enorme della ricchezza a seguito della crisi.

Ma il nuovo presidente non si è fermato alla prima dichiarazione. . "I politici prosperarono – ha enfatizzato - ma i posti di lavoro si riducono e le fabbriche chiudono. I membri dell’establishment sono protetti, ma non i cittadini del nostro paese ... I loro trionfi non sono stati i tuoi trionfi, e mentre si celebrava nella capitale della nostra nazione, c'era poco da festeggiare per le famiglie alle prese con le difficoltà di tutti i giorni". Poi alla denuncia ha fatto seguire un’impegno ripetutamente annunciato nel corso della campagna elettorale. “Riporteremo a casa il nostro lavoro (“We will bring back our jobs”)…. Costruiremo nuove strade e autostrade, ponti, aeroporti, gallerie e ferrovie nel nostro meraviglioso paese”. In realtà, una promessa non nuova nei discorsi di insediamento dei presidenti, ma sempre disattesa.
Del tutto nuovo, invece, il forte accento protezionistico “Compra americano e assumi americani” (Buy American and Hire American) - un attacco nemmeno velato al mantra della globalizzazione che ha dominato la politica americana a partire dalla presidenza di Bill Clinton nei primi anni Novanta.

Un discorso sorprendete, se si considera che a Davos, dove si celebra ogni anno l’incontro tra i maggiori uomini d’affari e politici di tutto il mondo, qualche giorno prima il presidente cinese Xi Jinping aveva fatto un elogio sperticato della globalizzazione. La Cina si candida ad assumere la globalizzazione, idea guida nell’ultimo trentennio delle democrazie occidentali e, in primo luogo, degli Stati Uniti che con Trump improvvisamente aprono al vecchio e screditato protezionismo.

In effetti, iI discorso di Xi, interpretato come una sperticata apologia della globalizzazione, conteneva, sia pure meno appariscenti, riserve, precisazioni e clausole restrittive importanti. Come dire che lo stesso discorso fatto da un uomo di governo occidentale sarebbe stato biasimato per l’inclinazione verso obsolete tendenze protezionistiche.
In un commento sul Financial Times il il politologo Eric Li dell’Università di Shanghai, mette in luce alcuni aspetti molto significativi del discorso di Xi. "Nel suo discorso, scrive, il signor Xi ha affermato l'impegno della Cina a preservare e promuovere la globalizzazione economica. Ma ha avanzato alcuni punti che potevano apparire inusuali al suo pubblico. Ha detto che bisogna creare i necessari adattamenti e amministrare attivamente la globalizzazione economica in modo da disinnescare i suoi effetti negativi (corsivo mio),,. Dobbiamo impegnarci verso l’apertura (dei mercati), ha specificato - ma l’apertura può essere utile a tutti, solo se tollera le differenze…La Cina ha tratto grandi benefici dalla globalizzazione…Ma Pechino ha sempre insistito sul suo diritto a determinare il corso del proprio sviluppo nazionale”.

La stampa internazionale ha contrapposto la posizione del presidente cinese a quella di Trump, enfatizzando la prima come un elogio incondizionato della globalizzazione, e la seconda come un arcaico e temerario ritorno al protezionismo. In realtà, nessuna delle due categorie teoriche è mai esistita come una regola assoluta. Il comportamento effettivo di ogni paese è sempre stato condizionato, più o meno direttamente, da quelli che considera i suoi interessi fondamentali. La novità è che la posizione Trump riapre al più alto livello politico una questione che era stata considerata una volta per tutte chiusa dal punto di vista dell’establishment americano. In ogni caso, una questione che non può essere liquidata come "populismo",

E’ indubbio che l’autoregolazione dei mercati come fondamento e corollario della globalizzazione abbia comportato benefici in direzione dello sviluppo di alcuni paesi e la Cina ne è sicuramente tra i massimi beneficiari, come il suo presidente riconosce e sottolinea, ma ha anche enormi conseguenze negative sul piano sociale nel mondo occidentale come nella parte più fragile dei paesi in via di sviluppo.

L’esplosione delle diseguaglianze in America, che della globalizzazione ha la leadership, è un dato di fatto. Come lo è l’impoverimento delle classi lavoratrici e di una grande parte dei ceti medi. Gli Stati Uniti hanno superato la crisi del 2008, ma le classi lavoratrici e una parte importante dei ceti medi non ne hanno tratto beneficio. Le diseguaglianze sono cresciute non ostante la ripresa dell’economia dopo la crisi; i salari reali sono fermi al livello di trent’anni fa. I sindacati sono ridotti a rappresentare il sette per cento dei lavoratori del settore privato, mentre la contrattazione collettiva è sempre di più il ricordo sfocato di un’epoca lontana.

Bisogna chiedersi se i benefici tratti dalla Cina, che ha visto ridurre la povertà per 600 milioni di cinesi, è il frutto della globalizzazione o, piuttosto, come di passaggio rivendicava Xi Jinping, la capacità dello stato cinese di orientare e controllare i fondamenti dell’economia nazionale non contro ma utilizzando la globalizzazione dei mercati come quadro di riferimento. In altri termini come un’opportunità per lo sviluppo non come la sublimazione della sovranità dei mercati a livello globale.

Ridurre la novità Trump al trionfo del populismo rischia di essere fuorviante. Non si è trattato della chiamata a raccolta dei diseredati con promesse puramente demagogiche. Sulla base dell’analisi del voto, è stato calcolato che Trump ha conquistato il 53% dell’elettorato maschile bianco con una laurea, mentre la maggioranza degli americani con un reddito inferiore a 50.000 dollari ha votato per Hillary Clinton.

All’apparenza, una contraddizione: la parte della popolazione maggiormente colpita dalla diseguaglianza ha sostanzialmente votato a difesa della continuità. “ I poveri – scrivono due politologi, Danny Quah and Kishore Mahbubani - sono stati più favorevoli a Clinton e i ricchi a Trump…”. Questo mostra, a loro avviso, che oltre ai dati materiali della diseguaglianza, gioca tra i lavoratori e nei ceti medi “un diffuso sentimento di frustrazione per la perdita di controllo del proprio destino”.

La sconfitta del Partito democratico non può essere archiviata come improvvisa e passeggera febbre populista.

Vi sono molte ragioni per diffidare della "rivoluzione" di Trump. Non è sufficiente fermare, con lusinghe minacce, i programmi della Ford e della General Motors in Messico, e di altre grandi imprese per rilanciare l’industria manifatturiera negli Stati Uniti, quando ormai tutte le multinazionali operano attraverso grandi catene produttive a livello globale, e Wallmart, con un milione e mezzo di dipendenti negli Usa, produce in Cina una straordinaria quantità di beni che distribuisce a prezzi imbattibili nei suoi ipermercati ai consumatori americani.

E, tuttavia, il discorso di Trump ha un valore politico simbolico di contestazione di un modello economico che negli ultimi trent’anni ha fatto della globalizzazione, basata sulla sovranità dei mercati, la ragione dell'ineluttabile progressivo ritiro dello stato dai processi economici e sociali. In linea di principio si tratta di una piattaforma politica che si prefigge di rilanciare la crescita e l’occupazione ripartendo dalle politiche industriali e da un grande piano infrastrutturale.
E’ possibile – scrive Michael Spence, premio Nobel per l’economia – che (Trump) cerchi di cambiare una cultura d'impresa e di investimenti che esalta gli interessi del capitale, delle imprese e degli azionisti, considerando sacrificabile il lavoro…Nei prossimi mesi, potremo giudicare … se gli sforzi di Trump per combattere la delocalizzazione e stimolare la crescita e l'occupazione potranno avere un impatto a lungo termine e se prevalga il protezionismo”.

Si potrebbe osservare che è stato preso a prestito un pezzo importante delle politiche tipiche della sinistra. Il punto è che le sinistre di governo come le conosciamo in America e in Europa hanno da decenni mandato in soffitta questa linea politica, considerandola un residuo di interventismo statalista novecentesco.

L’accusa di populismo corrisponde a un rifiuto di principio di un cambiamento che, se realizzato (e il se merita di essere sottolineato) entrerebbe in conflitto con le pratiche saldamente radicate nella politica corrente. Può essere che le promesse elettorali di Trump si rivelino il frutto di un surplus di demagogia, deludendo gli elettori che sono corsi a votarlo. Tutto questo si vedrà. Intanto, Trump ha aperto un nuovo capitolo nel dibattito politico sulla globalizzazione e sul ruolo dello stato, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto l’occidente.

Non è un caso che nei partiti di destra dell'Unione europea, così come nell’opinione e nei movimenti orientati a sinistra, si guardi alla svolta di Trump con curiosità e interesse.

L'esperienza europea, e in modo specifico quello dell’eurozona, rappresenta un esempio forzato di globalizzazione su scala continentale. Un modello che si è dimostrato economicamente perdente e, dal punto di vista della democrazia, pernicioso. Non ci sarebbe da sorprendersi se, le imminenti scadenze elettorali nell’‘Unione europea, iniziando con l'Olanda e la Francia in primavera, e continuando con la Germania e, eventualmente, l'Italia in autunno, dovessero riservarci sorprese e “Imprevisti”. Alcuni “imprevisti”, come la vittoria di Trump e la Brexit, sono, infatti, più che frutto dell’imprevedibilità, la testimonianza di una percezione distorta delle reali sfide sociali e politiche che agitano le democrazie occidentali nell'epoca della globalizzazione.

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