Domenica, 24 Novembre 2024

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Lavorare invecchia, soprattutto in Italia

lavoratore anziano

“Siamo in otto, ai forni. Io, che faccio 60 anni quest’anno. Un collega più grande, ne ha 61 e deve stare altri due anni qui. Poi uno di 58 e un altro di 55”. La squadra dei forni alle fonderie Zen, in Sant’Agostino di Albignasego (provincia di Padova) è fatta per metà da operai sopra i 55 anni. Ce la presenta Diego Panizzolo, che è il secondo per età e precisa: ci sono anche “due ragazzi di 50-51 anni”, e infine due giovani veri, uno di 38 e l’altro di 35.

In letteratura, e nelle direttive sui buoni propositi europei, lo chiamano “age management”, quel fenomeno che richiederebbe di adeguare tutto il nostro universo del lavoro all’invecchiamento dei suoi protagonisti, i lavoratori. In pratica, spesso funziona come nella fonderia di Panizzolo, alle prese da quasi dieci anni con un abbattimento dell’ordine dei due terzi della materia fusa e colata che esce dalla fabbrica e dunque con una crisi che ha quasi chiuso le entrate: i più anziani restano sulle mansioni più dure. “Bisogna caricare i forni, metterci dentro il materiale ferroso, pulirli dalle scorie tutti i giorni: è un lavoro pesante, in tanti lo rifiutano”.

Diego e la sua squadra di tute blu-grigio sono un piccolo avamposto, nella terra di lavoro del nordest, dell’avanzata più grande e crescente che sta cambiando la faccia del mercato dell’impiego. L’allungamento della vita, e della vita lavorativa, non è un fatto solo italiano. Anzi, a guardare i numeri sembra che siamo sotto la media: 48,2 per cento il tasso di occupazione della fascia d’età tra i 55 e i 64 anni in Italia, 53,3 per cento quello della media Ue.

Ma il ritmo di incremento è stato impressionante negli anni della crisi che ha rarefatto gli ingressi e delle riforme pensionistiche che hanno chiuso le uscite: dal 2008 al 2015 l’occupazione di quella fascia d’età è cresciuta in Italia di quasi quattordici punti percentuali, contro gli 11 della media nell’Unione europea. Sale anche l’occupazione della fascia immediatamente successiva, quella tra i 65 e i 69 anni: adesso è all’8,6 per cento in Italia, contro il 6,9 per cento di dieci anni prima. Al contrario di altri paesi europei, in Italia le fasce d’età più avanzate sono le sole nelle quali l’occupazione cresce. È come un esercito senza rimpiazzi. Le sue dimensioni si capiscono meglio se guardiamo ai numeri assoluti: dall’inizio della crisi a oggi, l’Istat registra 625mila occupati in meno; ma ci sono al lavoro centomila ultrasessantacinquenni in più, e ben 1,23 milioni di occupati in più tra i 55 e i 64 anni. Siamo in testa nella classifica dei paesi più “maturi”, quanto a età della sua forza lavoro. Con giganteschi problemi e contraddizioni. Come quelle che emergono, nelle discussioni sulla politica economica, tra opposte rivendicazioni: intere categorie che si battono per avere l’anticipo della pensione (ape social), e altre che lottano per non andarci.

Come i magistrati (che sono al 21º posto su 100 nella classifica per età dei mestieri pubblicata dal “Sole 24 ore”, con età media di 49,9 anni), che seguono in questo l’analoga lotta di qualche anno fa dei professori universitari (primo posto nella stessa classifica, età media 59,6 anni). Lo scontro sulle regole che spostano la soglia dell’età del passaggio alla pensione ha però oscurato quel che succede, al di qua della soglia: come si lavora da anziani? Che succede sui posti di lavoro, nelle teste e nelle braccia? Come sta quell’esercito che volente o nolente resta al fronte mentre i rimpiazzi non arrivano mai? E infine: ma si può, per sempre e per tutti, ritirarsi davvero dal lavoro di una vita e da una vita di lavoro?

Alla cassa e alla linea
“Ho cominciato a desiderare di andare in pensione nel momento esatto in cui hanno allungato l’età pensionabile”. Se non ci fossero state le varie riforme delle pensioni che hanno via via alzato l’asticella, da Dini a Monti-Fornero, Claudio Mattei sarebbe a riposo da un anno. Invece deve lavorare fino al 2020. Alla cassa della libreria Feltrinelli di largo Argentina a Roma non si sta come in fonderia o su una linea di montaggio. Ma Claudio – 63 anni, 38 di contributi – non ce la fa più. Quaranta ore settimanali, in piedi a passare codici, con turni che arrivano a dieci ore. “Non era così quando ho cominciato. Stavo da Ricordi, nel reparto degli strumenti musicali”.

Consigliare, seguire e vendere gli strumenti per suonare non è come far passare innumerevoli bip sotto un lettore, e tenere a bada l’ansia di sbagliare i resti. Alcune svolte arrivano all’improvviso, non previste. “Per me, quando Ricordi è stata assorbita da Feltrinelli è cambiato il mondo”, racconta Mattei, che ha dovuto accettare anni fa una mansione e un lavoro diversi. “Stare alla cassa qui è come starci in un supermercato, non è che il fatto di avere i libri intorno cambia qualcosa”. E mentre si allontanava un lavoro più pieno e soddisfacente, i suoi progetti originali – raggiungere la pensione, vendere l’appartamento di Roma per aiutare i figli, ritirarsi fuori città – andavano in fumo per esigenze macroeconomiche. Ma nel livello micro, sul piccolo posto di lavoro, non c’è stato nessun adeguamento alle novità. Per esempio, al fatto di avere in piedi alla cassa maturi sessantenni invece che elastici ventenni.

A Claudio sembrano fantascienza i racconti della Bmw, che già da qualche anno ha in funzione una “linea pensionati” a Dingolfing, in Baviera, modellata su operai con un’età avanzata, dunque con più esperienza ma anche alcune esigenze fisiche: una catena un po’ più lenta, sedie ergonomiche, mensa ad hoc, luci speciali. “Macché ergonomica. O stai in malattia, e prendi il permesso, o lavori come gli altri”. Ma non sono solo le mansioni o i ritmi a non essere adattati all’età. Quel che è peggio, non lo sono i contratti e le carriere. “Da noi il lavoro è rimasto ‘datato’ in 30 anni, con dieci scatti di anzianità ogni tre anni. Dopo, non hai più nessun incentivo ad andare avanti. Vai al lavoro proprio perché ci devi andare, non hai altre possibilità. Non posso smettere, i miei figli sono grandi ma con lavori saltuari o sottopagati. Per questo vado avanti. Ma è umiliante”.

Tutto in dieci anni
Le chiamano “carriere zippate”. Compresse, come per occupare poco spazio. Retaggio di un mondo del lavoro antico. “Tradizionalmente la carriera si gioca tutta tra i 35 e i 45 anni, dopodiché quel che è stato è stato. Alcune aziende addirittura bloccavano sotto una certa età la possibilità di accesso alla dirigenza”. Laura Innocenti, ricercatrice Luiss, lavora in un laboratorio dell’università di Confindustria chiamato ALlab, che si occupa proprio di “age management”. Del quale, fino a pochi anni fa, le imprese non volevano sentir parlare.

“Abbiamo fatto un’indagine nel 2012, e solo il 14 per cento dei responsabili delle risorse umane ha inserito il tema dell’invecchiamento del personale nell’elenco delle priorità”, racconta Innocenti, dicendosi sicura del fatto che adesso la consapevolezza è cresciuta, insieme all’età media della forza lavoro. Soprattutto in grandi aziende di servizi, agli sportelli delle banche e delle poste, ma anche alle Ferrovie, insomma in tutti i posti dove prima si assumeva molto e da anni si assume poco. In molte organizzazioni quasi la metà dei dipendenti è sopra i 50 anni. Avanti con l’età, ma nel mezzo della vita lavorativa: “Se consideriamo un’età di pensionamento a 67 anni, e che spesso si è entrati al lavoro non prestissimo, questo vuol dire che a 50 anni una persona ha davanti a sé un periodo di lavoro lungo quasi come quello che ha già fatto”.

“Devi continuare a lavorare fino a quasi 70 anni ma a 50 ti dicono che non sei più capace”, conferma Barbara De Micheli, ricercatrice alla fondazione Brodolini, che a sua volta fa consulenza per le (poche) imprese che stanno cercando di gestire l’onda dei lavoratori anziani: un’emergenza nata prima con la rivoluzione tecnologica che ha reso inutili alcune mansioni e poi con le riforme pensionistiche che hanno mantenuto al lavoro i loro titolari; ma che, per il combinato disposto delle due, non accenna a ridursi. E il fatto che spesso il lavoro anziano si svolge in piccole aziende, o anche in proprio, non aiuta ad affrontare l’enormità dei problemi che porta con sé: dalla motivazione all’aggiornamento, dall’organizzazione materiale (la flessibilità degli orari è la richiesta più forte che viene fuori, laddove i lavoratori sono consultati) alla salute.

La strage dei nonni
La prima emergenza, parlando di salute, è quella degli infortuni. Da un po’ i dati dell'Inail segnalano che le fasce dei lavoratori anziani sono in controtendenza: gli infortuni si riducono tra i più giovani, crescono sopra i 60 anni. Tra il 2011 e il 2015 le denunce di infortunio sul lavoro sono calate mediamente del 22,1 per cento, mentre sono salite del 37,7 per cento tra i 60 e i 64 anni, e del 7,2 per cento tra i 65 e i 69. Nell’insieme, l’incidenza della fascia d’età over 60 sul totale degli infortuni è raddoppiata, da 3 al 6 per cento.Un fenomeno speculare a quello dell’andamento dell’occupazione, e in gran parte spiegabile proprio con questo: ci sono più lavoratori anziani, dunque si fanno male di più. L’aumento degli infortuni, spiegano all’Inail, è “coerente con la composizione per età degli occupati”. E porta a un’emergenza drammatica in settori più rischiosi e anche più invecchiati, come quello edile. Nel quale, dal Veneto, la Cgil parla della “strage dei nonni”. “Non si può stare sulle impalcature a 60 anni suonati”, ha denunciato il sindacato edili Fillea-Cgil, riportando i dati di ottobre sull’aumento delle morti sul lavoro in edilizia: più 27 per cento rispetto al 2015, con il raddoppio delle vittime con più di 60 anni.

Il segretario regionale, Leonardo Zucchini, ricorda che con la crisi “sono rimasti al lavoro in maggioranza gli anziani, spesso si sono messi in proprio e sono più esposti al rischio”. Di andare in pensione non se ne parla, neanche con la stabilità 2017: il lavoro edile in sé non è considerato usurante, adesso, dice Zucchini, si è aperta la finestra dell’ape social ma quasi tutti ne restano di fatto fuori, perché i requisiti di reddito (stare sotto i 1.100 euro netti al mese) sono più bassi di quanto, mediamente, si guadagna nei cantieri.

Con le mani e con la testa
Nell’ape social sono rientrate invece le maestre della materna: aiutate ad andare in pensione prima perché dopo una certa età a stare con bambini così piccoli non ce la fai più. Ma quante e quali sono le cose che diventa difficile fare, dopo una certa età? Andiamo a parlare con Cristina Gremita, che per l’Ats di Pavia (azienda provinciale di tutela della salute) ha il compito di verificare, tra le altre cose, l’idoneità al lavoro. “C’è un’emergenza tra gli infermieri. Che con l’età diventano inadatti ad alcune mansioni, come quella di movimentare il carico dei pazienti. Ma spesso, se noi lo certifichiamo, fioccano i ricorsi. Da parte degli ospedali, ma anche degli stessi infermieri, che temono conseguenze per il posto di lavoro”.

Non a caso anche gli infermieri sono tra le categorie previste per l’ape social: però sempre con quei requisiti di reddito che è molto difficile trovare, nella categoria. Ma la stessa pressione per entrare nelle finestrelle – piccolissime – dei lavori usuranti fa capire che altre soluzioni, sul posto di lavoro, sono lontane. Perché è raro che le aziende si pongano il problema dell’età dei dipendenti, dalla prevenzione all’organizzazione del lavoro al rischio di malattie. Allargando lo sguardo ai grandi numeri, vediamo che l’aspettativa di vita dei nostri over 65 è maggiore di quella media dell’Ue (22,6 anni per le donne e 18,9 per gli uomini, contro una media Ue, rispettivamente, di 21,3 e 17,9), ma la salute è minore: in Italia una donna a 65 anni ha in media davanti a sé 7,3 anni in buona salute, un uomo 7,8 contro una media europea di 8,6 e 8,5.

Più anziani e più acciaccati. Ma la relazione tra salute e lavoro non è così univoca. La stessa Cristina Gremita da Pavia avverte che ci sono anche “opportunità” nell’allungamento della vita lavorativa, ad alcune condizioni. Che però richiedono sforzi organizzativi che in pochi vogliono o possono fare. “Io sto in linea come vent’anni fa, quando sono entrato qui”, racconta Salvatore Stanca, metalmeccanico in una fabbrica di radiatori di Loreto, nelle Marche. Ha 62 anni e 40 anni e mezzo di contributi. “Mi passa tutto per le mani”, sintetizza, dopo aver spiegato come i pezzi arrivano sulla sua linea, sono presi e saldati, sfilettati e assicurati, e poi escono pronti per essere verniciati. “Sette ore e mezzo, giorno per giorno”. E giorno per giorno Stanca va sul sito dell’Inps a fare la simulazione della sua pensione. “Prima facevo l’impiegato in un’altra azienda, sono venuto qui quando ha chiuso. Ho chiesto di passare ad altra mansione ma la domanda non è stata proprio presa in considerazione”.

Il dottor Luca Cravello, geriatra esperto di demenze senili, traccia una linea di distinzione che non è tanto tra il lavoro manuale e quello intellettuale, ma tra mansioni più o meno ripetitive: se il cervello deve lavorare o no, insomma. La malattia di cui Cravello si occupa, e che riempie il centro in cui lavora – il centro Alzheimer dell’Asst Rhodense di Garbagnate Milanese, uno dei più grandi d’Italia – non fa distinzioni in base agli studi e alla carriera. La malattia è “trasversale”, però, dice, è diverso il suo decorso. “Chi ha svolto un lavoro intellettuale ha una riserva cognitiva maggiore, che può ritardare l’insorgenza della malattia”. Ma dal suo osservatorio dell’hinterland milanese Cravello vede arrivare prima di tutto l’emergenza sociale dei lavoratori anziani come “figli”: schiacciati spesso tra la cura di genitori molto vecchi, i propri figli da mantenere e il lavoro che non si può lasciare. “Spesso non ce la fanno, le spese possono essere molto alte, e ci arrivano istanze e richieste a cui non sappiamo dare risposta”.

Inoltre, le contraddizioni spesso sono anche trasversali e non prevedibili, nell’interrogarsi di ciascuno circa il momento del passaggio dal lavoro al non-lavoro. Diego Panizzolo, che andrà in pensione a giugno dell’anno prossimo solo perché ha cominciato a lavorare a 15 anni e dunque ha maturato i requisiti, chiude con quarantadue anni e dieci mesi passati a lavorare tra magazzini, fabbriche e un bar che ha aperto per una parentesi di lavoro autonomo, poi chiusa. È contento? “Sono contento, però se ci penso… sono diventato vecchio. Qualcosa dovrò trovare, non posso rimanere a casa fermo. Anche se è vero, pure a casa c’è sempre qualcosa da fare”.

Rimettere gli anni in moto
“Ho più di 90 anni e anche io sono andata in pensione”, esordisce Annamaria Galdo, psicoanalista napoletana – ma sarebbe meglio dire: pioniera napoletana, cofondatrice del Centro di psicoanalisi di Napoli negli anni in cui la pratica e la professione psicoanalitica erano sconosciute ai più – che interpelliamo sul difficile passaggio della soglia tra il lavoro e il non lavoro, e sulla sua scelta di non attraversarla. Galdo, classe 1922, nella sua casa luminosa, appollaiata all’ultimo piano di un bell’edificio della riviera di Chiaia, collabora con i colleghi, fa supervisioni, svolge seminari; insomma continua a essere una psicoanalista.

È andata in pensione dall’università a 76 anni, ma per lei “il lavoro intellettuale non si interrompe mai, l’intellettuale ha una sola maniera di andare avanti”. E racconta di aver risentito moltissimo del pensionamento; di aver sofferto dell’uscita dal gruppo di lavoro formato con i suoi ricercatori. Spiega di aver cercato il modo, e impiegato un po’ di tempo, per compiere quel passaggio, per “superare l’angoscia di aver perduto il futuro”. Lo ha fatto, racconta, collaborando con un suo amico in un progetto artistico, recuperando così uno studio e una passione che aveva dovuto abbandonare pur essendosi laureata proprio in storia dell’arte, subito dopo la guerra: “Una parte della mia vita che mi sembrava di non aver vissuto”. Lo dice con altre parole in una poesia – e quella della poesia è un’altra attività scoperta “dopo”, e praticata tra gli ottanta e i novant’anni:

“È stato il tuo dolore a sfrondare il mio
perché gli anni si rimettessero in moto
futuro mio solo tempo tu rendi meraviglia la paura.”

Nelle classifiche dei “mestieri” più anziani, quelli intellettuali stanno ovviamente ai primi posti: docenti universitari, prefetti, quadri ministeriali, notai, altri professionisti. Ma un conto è “godere” del proprio posto di lavoro e di una carriera all’apice, un altro, superata l’età della pensione, è mantenere e coltivare una relazione quotidiana con l’oggetto del proprio lavoro, con il mondo fuori, con i colleghi.

Annamaria Galdo lo fa, anche se ha severi impedimenti fisici tra i quali un abbassamento della vista che le impedisce di leggere. Con semplicità, dice di aver rinunciato da molti anni al suo lavoro di terapeuta infantile “perché non potevo più mettermi a giocare a terra”. Sottolinea il valore della cura, come attenzione continua alla propria attività intellettuale, e non solo: “Ho sette persone che mi aiutano”, da chi fa la spesa a chi legge per lei. Ha organizzato le sue giornate in modo preciso, con la radiolina sempre a portata di mano per restare in contatto con i problemi e i luoghi del mondo che l’hanno sempre interessata. “All’inizio ho pensato che continuavo a lavorare per vivere. Poi ho capito che non è così: io lavoro per mantenere la mia identità personale”. Perché è riuscita a rimettere in moto gli anni.

 

*www.internazionale.it

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