Si è conclusa, con oltre tre milioni di adesioni, la raccolta di firme per i referendum abrogativi del Jobs Act e a sostegno della proposta di legge popolare per un nuovo statuto dei lavoratori. Una volta verificata la validità delle firme, verrà fissata la data dei referendum, presumibilmente per la prossima primavera (salvo elezioni anticipate, che li farebbero slittare di un anno). Qui sotto riportiamo tre storie che raccontano il lavoro ai tempi del jobs act.
“Ho 22 anni, sono nato in Moldavia, ma ormai sono italiano e vivo qui da parecchi anni. Il mio nome non ve lo dico, è meglio così, altrimenti non vi racconto niente. Nel 2014 ho iniziato a lavorare in una piccola fabbrica di Castelfranco Emilia associata a Confindustria con un contratto a tempo determinato. Nel dicembre del 2015 questo contratto è stato trasformato in un'assunzione a tempo indeterminato, un contratto a tutele crescenti. Ma è durata poco, solo due mesi: il 18 gennaio 2016 sono stato licenziato per ristrutturazione aziendale, la motivazione parla di 'un calo delle esigenze produttive'. Per andarmene senza far storie mi hanno offerto 3.100 euro, già nella lettera di licenziamento - così prevede la legge – praticamente due mesi di stipendio. Questo è quanto vale il mio posto di lavoro, meno di quanto prevedeva la tutela del licenziamento nella piccola impresa (da due mensilità e mezzo a sei, ndr). Non avendo nessuna possibilità di essere reintegrato – l'articolo 18 per noi non esiste – ho accettato l'offerta evitando la causa, che mi avrebbe solo provocato delle rogne e magari gettato su di me la cattiva fama del piantagrane. Con il rischio di non trovare più lavoro in zona. Io i principi della solidarietà li condivido, ma con queste leggi meglio prendere i soldi e andarsene senza fare causa. Anche perché, con il Jobs Act, se vinco la causa non vengo reintegrato e prendo qualche soldo; ma se la perdo mi costa tanto, dovrei pagare i danni di un procedimento civile.
Due giorni dopo il mio licenziamento l'azienda ha aperto una procedura di crisi per la cassa integrazione speciale. Ma questo riguarda gli altri lavoratori, quelli che non puo' licenziare su due piedi perché hanno i vecchi diritti, quelli che per noi non sono mai esititi. Il mondo del lavoro va avanti così, anche dopo il Jobs Act: a doppio regime”.
“Alla Tcnogear di Reggio Emilia ci hanno licenziati in tre. Io mi chiamo Fulvio, ho 42 anni, lavoravo lì dal '97, al controllo qualità e rifinitura. Da qualche anno sono delegato Fiom. La fabbrica ha 82 dipendenti, produciamo ingranaggi di precisione. Fino al 2008 c'era un proprietario in carne e ossa, poi siamo finiti nelle mani di un fondo bancario della Credem. Nel 2014 l'amministratore delegato ha iniziato a dire che bisognava tagliare i costi. Abbiamo proclamato un pacchetto di ore di sciopero e le minacce sono rientrate. Poi negli ultimi mesi del 2015 è tornato alla carica chiedendo di ridiscutere il contratto aziendale: lavorare mezz'ora in più e straordinari pagati meno. Contemporaneamente negava che ci fossero problemi occupazionali, anzi: 'l'azienda va bene – diceva – si tratta di migliorare l'efficienza, discutiamo come'. E' iniziata una discussione ma l'amministratore delegato ha annunciato che da febbraio 2016 avrebbe 'comandato' la trasformazione in lavoro di una mezz'ora di pausa. Gli abbiamo risposto che in quel caso avremmo dichiarato mezz'ora di sciopero ogni giorno. Alla fine è stato fissato un appuntamento di trattativa per il 16 febbraio. Il 10 febbraio, alle 10,30 del mattino, mentre ero al lavoro, mi consegnano la lettera di licenziamento, dicendomi di lasciare immediatamente l'azienda: 'non servivo più'. Dovevo svuotare l'armadietto e andarmene subito, insieme agli altri due licenziati. La motivazione ufficiale, 'riassetto organizzativo aziendale', utilizzando la legge Fornero che ha iniziato a smantellare l'articolo 18, il 'lavoro' poi completato da Renzi.
Siamo scesi in sciopero per nove giorni di fila, con un presidio che ha bloccato tutto. Ciascun lavoratore sapeva di essere a rischio - 'oggi a loro, domani a noi' si diceva ai cancelli -, perché si trattava di un messaggio di potere mandato ai lavoratori e al sindacato, in concomitanza con il rinnovo del contratto aziendale, per dire che in fabbrica decidono loro e fanno ciò che vogliono. Il 'riassetto aziendale” non c'entrava nulla, si sarebbero potute trovare altre soluzioni senza cacciarmi, visto che l'azienda andava bene. E' stato un licenziamento politico, un atto per dimostrare chi comanda.
Lo sciopero è andato bene, all'inizio. Poi, dopo qualche giorno, sono iniziati i problemi e le divisioni tra noi. Abbiamo dovuto sospendere la lotta a oltranza, l'azienda non ha voluto accettare nemmeno la mediazione del prefetto. Oggi in fabbrica c'è paura; da quando la proprietà è del fondo bancario la pressione sui lavoratori è aumentata, il dialogo con la direzione è diventato sempre più difficile, anche perché abbiamo a che fare con dirigenti che di produzione ne sanno poco o nulla, che ragionano solo con i numeri dei bilanci. Oggi, dopo i licenziamenti, chiunque può pensare che la prossima volta toccherà a lui – qualcuno pensa di tutelarsi fondando un sindacato autonomo, su ispirazione della direzione - anche perché l'articolo 18 è stato violato dalla legge Fornero. La legge ha cambiato il quadro e addossa l'onere della prova al lavoratore, non è più l'azienda che deve dimostrare che licenzia perché è in crisi o perché la tua mansione non c'è più; per riavere il tuo posto di lavoro sei tu che devi dimostrare che non è vero, altrimenti ci sono solo quattro soldi di risarcimento. E' anche umiliante, ti viene persino un senso di colpa, ti chiedi perché è toccato proprio a te, arrivi a pensare che sia colpa tua, ti vengono in mente vecchie discussioni con i capi sulla produzione e ti chiedi se forse hai perso il lavoro per quelle cose lì.
Io oggi sono disoccupato, in attesa della causa legale per dimostrare che non c'è motivo di licenziamento economico, visto che l'azienda fa utili che poi accantona per ammortare l'investimento. Mi tormento di giorno e non dormo la notte. Mi hanno offerto dodici mensilità per dimettermi, ma non ho accettato. Per dignità. Ho iniziato a cercare un nuovo lavoro, come ho fatto quando sono arrivato qui da ragazzo, dal mio paese del sud; ma allora era più facile, oggi c'è troppa fame di lavoro, alla mia età poi è più difficile, non te lo danno”.
“Mi chiamo Cristiano, lavoro alla Gibentech di Bologna, ho iniziato come operaio e sono arrivato a essere un settimo livello, responsabile di pianificazione, produzione e della certificazione di qualità. Dopo 26 anni di lavoro, lo scorso 4 marzo, mi hanno detto che non gli servivo più e licenziato. In realtà si è trattato di mobbing, quello che colpisce una buona metà degli operai da parte di un capo officina despota, che – per dire – per consegnarti le buste paga te le tira a terra. Io sono stato fisicamente aggredito dal capo dopo una discussione di lavoro. Ho chiesto un chiarimento al padrone, ma lui non mi ha nemmeno risposto, ha chiuso i rapporti con me. A quel punto ho mandato una diffida al capo officina, perché non lo facesse più. Dopo tre mesi – passati i termini per un'eventuale denuncia penale – sono stato chiamato in direzione e mi hanno licenziato in base alla legge Fornero, per motivi economici, per 'crisi' e perché la mia mansione sarebbe stata soppressa. Dicendomi che dovevo uscire subito dall'azienda, fare la scatola con le mie cose e andarmene senza toccare il computer. Ma l'azienda non è in crisi, anzi, e qualche giorno dopo il mio licenziamento hanno fatto un paio di assunzioni. Mi hanno cacciato per dimostrare chi comanda: il capo è andato dal padrone a dirgli di chiarire chi decideva in fabbrica.
In attesa della seduta di conciliazione al Dipartimento territoriale del lavoro, i miei compagni hanno iniziato a scioperare: 4 ore di fermata ogni giorno per un'intera settimana e poi un'ora di sciopero al giorno: per solidarietà con me e per farsi forza di fronte alla paura di nuove prepotenze. E così il 22 marzo l'azienda ha ceduto, ha revocato il licenziamento e mi ha reintegrato con effetto immediato senza aspettare la procedura legale. Hanno voluto dare una prova di forza e l'hanno ricevuta.
La mia vittoria è stata la vittoria di tutti, ottenuta grazie al sindacato e solo grazie allo sciopero, perché non possiamo più contare, come prima, sulle leggi; che dobbiamo riconquistare per ribaltare il brutto clima che si è creato, quella prepotenza insopportabile che si respira in fabbrica. Per questo per me il reintegro era fondamentale, per sconfiggere chi pensa di poter comandare quel che vuole, che usa la paura per governare il mondo. Io sono abituato a reagire alle sberle della vita, ma mica è così per tutti. Quando mi hanno licenziato, la cosa più difficile è stata dirlo a mia madre: per lei – anziana e malata – una cosa simile era spaventosa, una botta più per lei che per me”.