Domenica, 01 Dicembre 2024

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L’occupazione e le sue domande

 

piazza affari

 

Il 3 settembre la Bce ha annunciato di essere pronta a immettere ancora liquidità nella zona euro: come risultato l’euro a ricominciato a perdere terreno nei confronti del dollaro e le borse europee si sono messe a correre per qualche ora allettate dal doping valutario e dall’aumento di competitività a buon mercato. Sono queste le notizie (e le promesse) che piacciono ai cosiddetti mercati, e persino al mercatino della Piazzaffari milanese. Quest’ultimo è rimasto pressoché impassibile invece due giorni prima quando sono usciti i dati Istat su pil e occupazione. Evidentemente alle borse interessano poco i dati sulla cosiddetta economia reale, oppure hanno creduto poco agli ansiosi entusiasmi renzian-polettiani. O tutte e due le cose. “Saremo la maglia rosa della Ue” ha del resto subito sparato il capo del governo, dopo che nei giorni precedenti era stato costretto a redarguire il suo ministro per la figuraccia rimediata sui dati taroccati con cui ha cercato di dimostrare quant’è bello il jobs act.

 

Di certo le stime dell’Istat non lasciano troppo spazio agli ottimismi, nemmeno a quelli facili che scambiano una classica stagnazione con una ipotetica ripresa. Registrano una lieve risalita dell’occupazione a luglio, con il solito balletto fra la condizione di disoccupazione e quella di inattività (http://www.istat.it/it/archivio/167287). E registrano un lieve rialzo del pil nel secondo trimestre (http://www.istat.it/it/archivio/167323), ancora molto incerto poiché in buona parte determinato dalla variazione delle scorte e accompagnato da una lieve crescita dei consumi delle famiglie e da una domanda estera netta negativa.

 

Rispetto al mese precedente, l’occupazione cresce un pochino a luglio (+44 mila). Ma più dell’aumento degli occupati rilevano la riduzione dei disoccupati (-143 mila) e il contestuale aumento degli inattivi (+99 mila), al cui interno sono classificati anche i senza lavoro che non cercano attivamente lavoro pur desiderando lavorare. Sono stime mensili, e sono soggette a un errore statistico perché sono basate su un campione ridotto, ossia un terzo di quello usato per le stime trimestrali e un dodicesimo di quello delle stime annuali. E in più sono stime destagionalizzate e non stime effettive, sono cioè trattate per rendere confrontabili direttamente i dati relativi ai singoli mesi. Quando, come promette l’Istat, a partire dal prossimo comunicato verranno diffusi anche gli intervalli di confidenza di queste stime mensili ci si renderà conto della cautela con cui dovranno essere trattate variazioni così lievi prima di lasciarsi andare. E così vedremo se l’ansia da prestazione si trasformerà in analisi più serie e articolate: ma c’è da dubitarne. Nel frattempo vale la pena di sottolineare qualche domanda fra le tante che questi dati da un po’ ci fanno.

 

Un primo quesito che merita per esempio una grande attenzione - e oramai magari anche qualche risposta - è il seguente: perché la crescita dell’occupazione (+180 mila stimati nel secondo trimestre di quest’anno) è tutta concentrata nel segmento degli ultra-cinquantenni mentre continua a scendere al di sotto di quella soglia di età? Non sarà mica “merito” delle riforme pensionistiche che ritardano l’uscita dal lavoro? E quali “nuovi” occupati sono questi, quali storie hanno alle spalle? Se si opera un confronto con gli altri paesi Ue ci si accorge che siamo in presenza di una vera e propria anomalia italiana che data all’indietro a prima della crisi. In Francia e Germania, ad esempio, questa forbice occupazionale è stata di entità molto minore ed è rapidamente rientrata; in Svezia e nel Regno unito non c’è proprio stata.

 

Un altro quesito riguarda il part-time, che continua ad aumentare (+41 mila nel secondo trimestre). Questa cosa di per sé non sarebbe un male se non fosse che è soprattutto involontario: lavoratori costretti ad accettarlo in mancanza di un occupazione a tempo, e soprattutto a salario, pieno. È certo il governo che questa sia una buona occupazione, o non nasconda piuttosto evasione contributiva, perdita di risorse e riduzione di diritti? Vale forse la pena di descrivere, come minimo, in quali settori e regioni questo fenomeno è più acuto. Anche i 77 mila dipendenti a termine in più meritano qualche analisi, soprattutto a fronte della riduzione dei collaboratori: l’aumento dell’occupazione dipendente non è altro che la trasformazione di precari formalmente indipendenti (i cococo appunto) in precari dipendenti, probabilmente delle stesse imprese.

 

Vi è poi la questione delle ore effettivamente lavorate che costituiscono la variabile più importante del mercato del lavoro. In questa fase di stagnazione sarebbe interessante conoscere l’evoluzione del monte ore complessivo e dei valori pro capite, la cui tendenza alla riduzione potrebbe confermare la necessità di redistribuire l’occupazione attraverso riduzioni di orario: la diffusione del part-time potrebbe significare anche questo. Dalla crisi del ’29 si uscì proprio con una grande riduzione di orario.

 

Altro punto importante sono i cosiddetti inattivi, quelli che non sono né occupati né disoccupati secondo le convenzioni della statistica ufficiale: sono 14 milioni nella fascia in età di lavoro e sono diminuiti di 271 mila unità nel secondo trimestre. Sarebbe una buona notizia, ma in realtà non lo è. Al loro interno sta infatti aumentando (+133 mila) la componente costituita da quanti sono disponibili a lavorare o cerca lavoro ma non in maniera assidua. L’osmosi di quest’area con la disoccupazione e con il lavoro sommerso è talmente importante e rilevante che non ha più senso ormai commentare il tasso di disoccupazione o il calo dei disoccupati senza tenerne conto. E allora, dove sono finiti i disoccupati cresciuti a giugno e poi spariti a luglio? Non sarebbe il caso di pubblicare stime mensili anche di queste componenti dell’inattività, la cui stima (vista la loro consistenza) dovrebbe essere piuttosto affidabile? Non dovrebbero le autorità di governo prestare la massima attenzione all’inattività (altra tipica anomalia del mercato del lavoro nostrano) e investire sulle politiche del lavoro, visto che l’inattività è legata proprio alla loro assenza?

 

Infine, due parole sulla questione “maglia rosa”. Nonostante il peso dell’inattività che implicitamente riduce il numero di disoccupati, il tasso di disoccupazione in Italia (12%) è il sesto peggiore dei 28 paesi Ue: stiamo messi meglio solo di Grecia, Spagna, Cipro, Croazia e Portogallo. La Germania sta al 4,7%, il Regno unito al 5,6%, la Svezia al 7,4%. La crescita su base annua del pil italiano nel secondo trimestre (+0,7%) è la più bassa di tutta l’Ue, fanno peggio solo la Finlandia del falco Katainen (profeta in patria) e l’Austria, mentre una decina di paesi stanno oltre il +2%. Serve il doping spacciato da Draghi…

 

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