Era il 1964, quando la Fiom di Milano chiese ai propri iscritti - operai e impiegati metalmeccanici - di “mettere su carta” le proprie esperienze dentro e oltre i luoghi di lavoro, i bisogni, le aspettative, le lotte. Cinquant’anni dopo, il risultato di quell’iniziativa è stato ritrovato in archivio: sono 21 racconti che ci parlano di un mondo assai diverso da quello di oggi.
Quelle storie, ambientate nella Milano dei grandi insediamenti industriali, all’indomani della straordinaria lotta degli elettromeccanici del 1960/1961 e della conquista del contratto nazionale del 1963, ci descrivono conflitti aspri tra padroni che facevano i padroni ma sapevano cosa accadeva in azienda e lavoratori che conoscevano come le proprie tasche il ciclo produttivo e che la catena sapevano farla funzionare, ma anche bloccare. Ci parlano di presa di coscienza, emancipazione e di quel “cambiare la fabbrica per cambiare il mondo” che ha portato migliaia di donne e uomini a essere protagonisti, a sentirsi classe e a conquistare tutele i diritti.
Oggi è un altro tempo: della resistenza, più che della conquista; del tentativo di riaffermare l’agire collettivo come anticorpo all’individualismo e alla rassegnazione; della lotta per mantenere in attività le aziende, per contrastare i licenziamenti, per tenerci stretto quel che resta dei diritti acquisiti, per non cedere ai ricatti.
E allora perché non provare a utilizzare la parola scritta per raccontare noi il mondo del lavoro oggi: le aspettative, la determinazione, la passione, il conflitto ma anche il malessere, la paura che spesso regnano nei luoghi di lavoro e le difficoltà di chi non è solo un operaio, un’impiegata, un tecnico, ma ha scelto di essere un delegato, un iscritto, un militante della Fiom? E perché non provare a rompere il muro della solitudine e condividere le esperienze, mescolarle per dare vita a un “prodotto” corale?
Ed eccoci, seduti attorno a un tavolone, pronti a iniziare un esperimento: il laboratorio di scrittura collettiva.
Per noi la “scrittura collettiva” è un oggetto misterioso, non abbiamo idea di come funzioni e non sappiamo dove ci porterà. Ma abbiamo scelto di provarci: in fondo la nostra è una storia di tentativi convinti, non di certezza del risultato.
A guidarci c’è Wu Ming2, alias Giovanni, che ha scelto la scrittura collettiva come chiave per assemblare storie, costruire trame e “produrre” gran bei libri.
Il primo passo non è complicato: mettere sulla carta, individualmente e senza pensare troppo, un episodio, una riflessione, un aneddoto e poi leggerlo e discuterlo con gli altri. E già qui si apre un mondo. Si perché quello che ciascuno di noi descrive di getto, senza alcuna mediazione, è altro dall’intervento in assemblea.
Il risultato dell’esercizio è una lavagna piena di parole, di nessi e contrasti, di linee che si intrecciano, di frecce e sottolineature. Un guazzabuglio da cui poi emergono i temi attorno ai quali costruire i racconti: la socialità, il tempo, l’identità, lo scarto tra realtà e rappresentazione, la lotta.
Sono cornici dentro cui muoversi, per inventare contesti, trame, personaggi, azioni.
A questo punto il gioco si complica. E la difficoltà, paradossalmente, sta in quello che noi dovremmo saper fare benissimo: socializzare, condividere, fidarsi e affidare agli altri il nostro personaggio, il nostro pezzo di racconto che non devono più essere “mio” o “tuo”, ma “nostri”.
Così la Teresa che nella mia mente era bionda e un po’ tonda si trasforma tanto che quasi non la riconosco e quell’episodio che per me si svolgeva in estate ora è ambientato in novembre e il dialogo tra il padre operaio e il figlio ingegnere ha parole diverse, e…
E scopriamo che fatichiamo a “cedere” convinzioni, punti di vista; che siamo un po’ permalosi, “combattivi”, tentiamo di convincere l’altro e soffriamo all’idea di “mollare il colpo”; che (chi più chi meno) facciamo i sindacalisti quasi istintivamente.
Scopriamo che fatichiamo a lavorare insieme, eppure insieme abbiamo fatto cose straordinarie: superato momenti duri, reagito collettivamente in situazioni complicate, retto conflitti aspri. Eppure abbiamo una forte identità collettiva.
Proseguendo in questo percorso forse scopriremo altro e magari saranno persino dei bei racconti il risultato del nostro maneggiare e rimaneggiare, cancellare e riscrivere, cambiare un aggettivo, modificare una frase. Non lo sappiamo ancora.
Però non è male essere liberi di mandare a stendere il personaggio che incarna il “me ne frego degli altri”, descrivere la trasformazione della giovane “in carriera” in donna consapevole, instillare l’ombra del dubbio in quel lavoratore un po’ razzista, decidere come va a finire una lotta.
Certo che c’è molto di noi nei nostri racconti, ci sono le esperienze vissute, le emozioni provate, anche le aspettative deluse, la frustrazione e la rabbia.
Ma nelle nostre storie possiamo essere liberi, mettere in campo l’immaginazione, quella che a volte non riusciamo a utilizzare: persino permetterci il lusso d'ignorare il Jobs act.