L’Istat ha stimato nel primo trimestre di quest’anno 133 mila occupati in più, 145 mila disoccupati in meno e 51 mila inattivi in meno rispetto allo stesso periodo del 2014. Il ministro Poletti ne ha ovviamente dedotto che è tutto merito del Jobs Act, e gran parte della stampa si è affrettata a dargli ragione: “l’ulteriore segno che siamo fuori dalla recessione”. Ma queste interpretazioni sono tendenziose perché quei dati raccontano un’altra storia e pongono casomai ulteriori quesiti: basta guardarci dentro.
Va detto anzitutto che quei 133 mila occupati in più stimati dall’Istat sono in maggioranza a termine: poco meno di tre quarti dei 107 mila occupati dipendenti in più sono a termine (72 mila), quasi la metà a part-time (45 mila, per lo più involontari, cioè avrebbero voluto un impiego a tempo pieno), e 27 mila contemporaneamente a termine e part-time. Tuttavia, in pochi si sono chiesti come mai quell’aumento riguarda solo individui - diciamo così - non più giovani.
Quei 133 mila in più derivano in effetti da una maggiore occupazione nelle file degli ultra 45-enni (+377 mila) e anzi è dovuto in massima parte agli occupati con più di 55 anni (+267 mila). Per contro, nelle classi di età centrali e giovanili si è avuta una riduzione di 244 mila occupati. Dunque, è occupazione anziana quella che si sarebbe creata. Ma è più che mai legittimo il sospetto che non si tratti di “creazione” ma casomai di un possibile effetto perverso dell’inasprimento delle regole per andare in pensione: aumentano gli anziani al lavoro perché non viene loro concesso di smettere di lavorare. L’esiguità dei trattamenti pensionistici inoltre costringe questo segmento, anche quando potrebbe lasciare, a rimanere al lavoro, magari al nero se necessario, per integrare il proprio reddito e non mollare definitivamente la ricerca di sostentamento.
Il fenomeno è più eclatante se lo si esamina su un orizzonte più lungo. Rispetto al primo trimestre del 2011 sono stati persi nel complesso 378 mila occupati: questo dato deriva però per un verso da un aumento di quasi un milione di occupati over 55 (1,3 milioni se si estende la platea agli over 45) e per l’altro da una riduzione di 1,7 milioni degli occupati al di sotto della soglia dei 45 anni. Fra questi ad essere maggiormente colpiti sono non solo e non tanto i giovanissimi (i quali comunque registrano 300 mila occupati in meno) quanto piuttosto gli individui nel pieno della loro vita lavorativa (25-44 anni, -1,4 milioni). Vale la pena di rimarcare il fatto che gli andamenti appena descritti sono peraltro comuni al nord e al sud del paese: gli incrementi occupazionali sono concentrati presso gli over 55 (sono aumentati di un terzo in quattro anni) mentre gli occupati sotto i 45 anni diminuiscono ovunque (meno 11%). Viene allora alla mente la retorica del “conflitto fra generazioni” strombazzata fino alla noia dai difensori delle riforme pensionistiche la quale invece non ha fatto altro che inasprire perversamente la condizione occupazionale nelle fasce di età medio basse. Un effetto del tutto prevedibile: se impedisci alla gente di andare in pensione è difficile che crei occupazione.
Questa distorsione nella struttura dell’occupazione la si ritrova peraltro nel segmento degli inattivi, ossia fra gli individui in età di lavoro (15-64 anni) che non sono occupati e che non sono collocati fra i disoccupati poiché non cercano attivamente lavoro o non sono disponibili a lavorare. In totale sono oltre 14 milioni e fra di essi si annidano importanti segmenti di disoccupazione nascosta e, come spesso viene chiamata, scoraggiata. In Italia la sua incidenza è assai elevata, e questo è un problema assai grave fino a diventare una vera e propria emergenza soprattutto al sud e fra le donne. Ebbene, nel primo trimestre di quest’anno il numero totale degli inattivi è sceso di 51 mila unità, proseguendo una tendenza alla riduzione in corso da più di un anno. A prima vista apparirebbe un dato positivo e incoraggiante: un aumento della partecipazione al mercato del lavoro. Ma sembra che non sia proprio così.
Quel numero è infatti figlio di una riduzione degli inattivi concentrata solo fra gli over 55, mentre nelle classi di età più giovani gli inattivi stanno invece aumentando fortemente. Non a caso l’area di inattività più contigua con quella della disoccupazione – dove sono concentrati gli inattivi più giovani - cresce quasi del 10% in un anno (+311 mila nel primo trimestre 2015 rispetto all’analogo periodo del 2014): si tratta di oltre due milioni di persone che non cercano attivamente lavoro anche se vorrebbero lavorare. Al tempo stesso si assottiglia invece l’area delle persone che sono fuori dal mercato del lavoro perché in pensione (-7,6%). Un quadro dunque coerente con quello che emerge dall’esame dell’andamento dell’occupazione. Aumenta solo l’occupazione dei “più anziani” mentre si assottiglia quella dei “più giovani”, si riduce l’inattività ma soprattutto perché diminuisce il numero dei pensionati mentre aumenta vistosamente la zona grigia della disoccupazione, quella nascosta e scoraggiata, concentrata fra gli under 45.
Non stupisce a questo punto la riduzione dei disoccupati in senso stretto, quelli che non sono occupati e cercano attivamente lavoro. Sempre nel primo trimestre di quest’anno l’Istat ne stima 145 mila in meno (sono comunque 3,3 milioni), pari a una riduzione percentuale del 4,2% rispetto a un anno prima. Il sospetto, più che fondato a questo punto, è che questa riduzione sia figlia dell’aumento dello scoraggiamento: in tutte le classi di età la riduzione nel numero dei disoccupati è più che compensata dall’incremento della zona grigia della disoccupazione. Non a caso l’unica componente in crescita (+35 mila) è data dalle persone over 55 che si sono messe a cercare un lavoro. E qui siamo alla seconda perversione: l’aumento della disoccupazione nascosta (che coinvolge, è bene ricordarlo, oltre due milioni di individui) mantiene bassa quella in senso stretto, che è l’unica che viene commentata.
Colpisce perciò la superficialità con cui governo e media compiacenti (ci sono o ci fanno?, verrebbe da chiedersi) giudicano positivamente l’attuale evoluzione del mercato del lavoro con un “tutto bene madama la marchesa” che non è comunque un buon segno. Gli strumenti da mettere in campo dovrebbero essere incentrati sul contrasto alla disoccupazione nascosta e al lavoro nero e sulla riduzione dell’orario di lavoro, e non possono essere affidati alla buona sorte né a commenti estemporanei né tanto meno alle forze di un mercato che non c’è.