Domenica, 01 Dicembre 2024

ZOOM. Articoli e commenti

Occupazione, l'ansia da prestazione fa dare i numeri al governo

Freccia crescita 1

Come racconta il Sole-24 ore, la notizia ha voluto darla per primo Renzi in occasione della sua prima visita il 27 marzo scorso al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in qualità di ministro ad interim al posto del dimissionario Lupi: «Tra qualche ora saranno diffusi i dati dei contratti a tempo indeterminato siglati nei primi due mesi dell’anno: sono davvero sorprendenti, mostrano una crescita a doppia cifra. È il segnale che l’Italia riparte». L’Italia che riparte starebbe perciò nell’annuncio fatto poco dopo dal ministro del lavoro Poletti: 79 mila contratti in più a tempo indeterminato registrati nei primi due mesi del 2015 rispetto allo stesso mese del 2014 e tracciati dal ministero del lavoro attraverso il sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie.

Queste ultime, va detto, sono le comunicazioni che i datori di lavoro pubblici e privati sono obbligati a fare per trasmettere tutti gli eventi di attivazione, proroga, trasformazione e cessazione di un rapporto di lavoro nonché quelli relativi alle variazioni aziendali (cambio di ragione sociale, fusioni, incorporazioni, ecc.) che hanno effetto sul rapporto di lavoro. Una mole di dati notevole, parecchie centinaia di migliaia di informazioni individuali ogni mese, i quali tra l’altro rappresentano se ben utilizzati e incrociati con quelli di altre banche dati istituzionali un patrimonio informativo importantissimo per valutare e monitorare le politiche sociali. Il ministro sembra però interessato a un loro utilizzo mordi e fuggi, per darli in pasto ai media e per dire che l’occupazione cresce e per merito del decreto Poletti del 2014 e la legge di stabilità hanno avuto effetti benefici. Il ministro ci aveva già provato alla fine del 2014, quando aveva scelto di diffondere i suoi dati proprio lo stesso giorno in cui l’Istat diffondeva le proprie stime sulle forze di lavoro, le quali registravano – guarda un po’ - un aumento della disoccupazione: più di qualcuno aveva notato il cattivo gusto del ministro e soprattutto il brutto segnale di interferenza. Alla fine a Poletti non è andata benissimo dal momento che ben presto si è capito che una lettura appena più attenta dei dati delle comunicazioni obbligatorie dimostrava l’esatto contrario di quello che lui voleva dire: non c’è nessun effetto Poletti, anzi. Ma l’interessato non si è scapicollato a raccontarlo in giro.

Lo scaltro diversivo di Renzi e l’annuncite del suo ministro del lavoro non colgono di sorpresa, come non coglie di sorpresa l’iniziativa mediatica del governo sui temi dell’occupazione e tutto sommato nemmeno il fatto che si metta a diffondere dati basati sulla elaborazione delle basi informative dell’Inps e del ministero del lavoro. Ci si affanna a dimostrare la bontà delle misure intraprese finora e spianare per questa via il terreno all’assai discutibile oggetto che va sotto il nome di Jobs Act (con inglesismo tanto inutile quanto ipocrita e presuntuoso). L’ossessiva ansia da prestazione dell’esecutivo da un lato e dall’altro il perdurante approccio ideologico e miope ai temi del lavoro, dal dopo-Fornero sempre più debole e dunque incattivito, rendono ineludibile per il governo la scelta di forzare sul fronte dell’informazione “statistica" per provare a piegare il dibattito e l’opposizione (qualunque essa sia).

Adesso - con la storia dei 79 mila tempi determinati in più - la speranza di governo e Confindustria è sempre quella di agganciare con un po’ di renziana fortuna la cosiddetta ripresa che prima o poi arriverà, quasi fosse una manna che piove dal cielo o il frutto dopato della svalutazione dell’euro, e poter dire che sì, togliere diritti a chi lavora garantisce un occupazione migliore e stabile per più persone. Il tutto senza che Poletti abbia chiarito che cosa significa quella cifra per davvero, e come quel dato nato per finalità amministrative sia trasformabile in un dato statistico affidabile e confrontabile con le statistiche pubbliche diffuse dall’Istat. Ad esempio, sono tutti nuovi posti di lavoro? Quanti doppi conteggi ci stanno? Come si sono evolute le cessazioni dei rapporti di lavoro? Sono stati depurati dalle variazioni societarie? Qual era la condizione lavorativa precedente del singolo lavoratore? Quante vere posizioni lavorative sono state attivate? Non si sa. Le comunicazioni obbligatorie non sono così semplici da maneggiare: è sicuro il ministro di quello che dice o ha solo fretta di farsi bello? Visto il precedente ….

Colpisce sempre l’ostinata superficialità con cui si continuano a leggere e commentare i dati relativi al mercato del lavoro. Ai primi di marzo, quando l’Istat ha pubblicato le stime provvisorie su occupati e disoccupati relativi al mese di gennaio 2015 - e insieme a quelle relative all’intero 2014 -, si sono levate grida di giubilo per i 131 mila occupati in più stimati dall’Istat rispetto allo stesso mese del 2014. Una non notizia la quale, chissà perché, dovrebbe confermare la lungimiranza delle riforme polettiane. A gennaio 2015 infatti non è successo un bel niente: secondo l’Istat, rispetto al mese precedente gli occupati in più sono solo 11 mila, un numero peraltro così ridotto da non essere nemmeno granché significativo dal punto di vista statistico (le stime mensili naturalmente comportano un errore mediamente più elevato rispetto a quelle trimestrali o annuali). Ma tanto è bastato a incoraggiare gli autori del Jobs Act. E invece l’occupazione che è cresciuta un po’ nel 2014 continua a essere una mala occupaciòn, concentrata sui part-time involontari (sottoccupati) e sui tempi determinati, con una disoccupazione che cresce anch’essa.

Viene però da chiedersi come mai i dati sul mercato del lavoro vengano sistematicamente sottoposti a letture parziali, sempre e solo con riferimento agli indicatori tradizionali (occupazione, disoccupazione) mentre la storia che raccontano richiede attenzioni e soprattutto soluzioni assai diverse e comunque evolute. Per esempio, soffermiamoci su un paio di temi: quello della non-occupazione e dell’accesso al mercato del lavoro, e quello relativo al lavoro sommerso. Perché se c’è una cosa che caratterizza drammaticamente il mercato del lavoro nel nostro paese è la ridotta partecipazione al mercato del lavoro e l’elevata incidenza del lavoro parzialmente o totalmente sommerso.

Vale la pena sempre di ricordare che gli standard statistici internazionali adottati dalla statistica pubblica nelle indagini campionarie sull’occupazione identificano come disoccupati gli individui che oltre a non avere un lavoro fanno di tutto per averne uno: ossia compiono azioni di ricerca attiva di lavoro e sono al tempo stesso disponibili a iniziare immediatamente qualsiasi eventuale nuova occupazione. Un senza lavoro che non soddisfa tutte e due queste condizioni non è tecnicamente un disoccupato ma è un inattivo e non rientra nel calcolo del tasso di disoccupazione: il criterio, apparentemente discutibile, è in realtà molto utile poiché serve per identificare un criterio “stretto” e confrontabile a livello internazionale per identificare i disoccupati tout court. D’altra parte, tutti i paesi Ue pubblicano anche i dati dettagliati sugli inattivi, identificando le cause dell’inattività, mentre il tasso di disoccupazione come pure il numero di disoccupati sono indicatori sempre meno utili per comprendere la realtà.

E’ noto che l’Italia ha da molto tempo la percentuale di inattivi di gran lunga la più alta dell’Unione europea, soprattutto presso la popolazione femminile e giovanile. Nel quarto trimestre 2014, a fronte di 3,4 milioni di disoccupati in senso stretto stimati dall’Istat vi erano altri 2,4 milioni di individui che non hanno cercato lavoro attivamente pur desiderando lavorare e altri 300 mila che lo hanno cercato ma senza essere immediatamente disponibili per lavorare. Nel corso dell’intero 2014 il numero di quanti non cercano attivamente lavoro o pur cercandolo non sono immediatamente disponibili a lavorare è aumentato di quasi 300 mila unità, ed è aumentato di oltre 170 mila unità il numero di persone che non cercano lavoro perché “scoraggiate”. Se fossero contati fra i disoccupati (il che sarebbe a sua volta probabilmente un’esagerazione) il nostro tasso di disoccupazione salirebbe attorno al 20%!

È il circuito vizioso dell’assenza di politiche del lavoro sul territorio. Da noi chi non ha lavoro spesso non ha interlocutori istituzionali che lo seguono e orientano, e se cerca lavoro lo fa attraverso conoscenze e canali informali che alimentano clientele e condizionamenti, indebolendone in partenza la capacità di difendere i propri diritti: con il risultato che non cercando attivamente lavoro non è disoccupato ma inattivo, e se non è disoccupato non contribuisce al tasso di disoccupazione. Quest’ultimo resta “basso” e non fa notizia: la cattiva politica del lavoro fa bene il mestiere di tenere bassa la disoccupazione! Paradossalmente, uno dei motivi per cui in Spagna il tasso di disoccupazione è basso sta nel fatto che i servizi di collocamento funzionano assai meglio che da noi e la ricerca attiva di lavoro è alla portata di tutti. E così mentre il nostro governo si imbrodava per gli 11 mila occupati di gennaio 2015, si dimenticava di notare che in tutto il 2014 gli inattivi per mancata ricerca di lavoro sono cresciuti di quasi 300 mila unità. Questo è il fatto grave: il segnale che attende il mercato del lavoro del nostro paese non sta fra le pieghe del Jobs Act né nei numeri di Poletti (chissà quanti dei suoi nuovi contratti sono fra ex-inattivi) ma sta nelle politiche sul territorio e nel far valere il diritto a un lavoro e a un reddito.

Nel frattempo, l’orario di lavoro effettivo pro capite di chi è occupato prosegue un trend di lenta ma costante decrescita iniziato ben prima del manifestarsi della “crisi”. Questo anche perché cresce solo l’occupazione part-time (4 milioni nel 2014, +124 mila rispetto al 2013) mentre quella a tempo pieno invece nel 2014 è diminuita. Aumenta l’incidenza del part-time involontario (occupati che avrebbero preferito il tempo pieno) che sfiora ormai i due terzi degli occupati a tempo parziale: negli ultimi anni è stata soprattutto la componente maschile, di gran lunga minoritaria per questo tipo di contratti, la protagonista di questo incremento. L’incidenza dei contratti a tempo parziale di lavoro dipendente a tempo parziale è peraltro ancora più elevata: recenti studi hanno rilevato come un quinto circa dei contratti part-time nascondono in realtà prestazioni a tempo pieno, retribuite in parte fuori busta e con una consistente evasione contributiva. E’ una fetta significativa della più ampia componente “grigia” del lavoro sommerso, quella che deriva dagli straordinari dei dipendenti regolari retribuiti parzialmente e fuori busta e comunque evadendo le corrispondenti copertura previdenziali. Un fenomeno che assume ormai connotati rilevanti e che può essere osservato agevolmente confrontando le statistiche sulle ore lavorate misurate presso le famiglie con quelle dichiarate dalle imprese.

Il lavoro interamente sommerso è in effetti l’altro pezzo che manca nel cosiddetto dibattito sul mercato del lavoro. Eppure nel nostro paese ha queste caratteristiche fra il 10 e il 15 per cento degli occupati, con punte superiori al 20% in alcune regioni del mezzogiorno e in taluni settori topici (soprattutto in agricoltura e nei servizi). Un’enormità, 2,5 milioni di vite precarie allo stato puro, e non si tratta solo di stranieri e di meridionali, né solo di giovani o di persone senza qualifiche: sarebbe interessante capire come le attività lavorative sommerse sono collegate con la parte regolare dei processi produttivi, quale responsabilità ha l’assenza di politiche territoriali di orientamento e collocamento, come si collegano con i percorsi formativi ed educativi, quali specializzazioni evidenziano, quale perdita di capitale umano e sociale comportano, quante risorse si libererebbero per una previdenza più equa. E invece non si sa quasi niente: su questi temi l’investimento previsto nel Jobs Act e nelle politiche del lavoro che lo hanno preceduto è praticamente nulla.

Il fatto è che, proprio grazie alle basi informative dell’Inps e del ministero del lavoro con cui Poletti adesso gioca a nascondino, molte di queste cose si possono già sapere, proprio sfruttandole meglio e sfruttando meglio gli incroci con le altre banche dati istituzionali (su fisco, percorsi formativi, anagrafi, ispezioni, ecc.). Il futuro prossimo del monitoraggio del mercato del lavoro sarà inevitabilmente basato su un utilizzo efficiente delle informazioni dettagliate già disponibili: ed è già chiaro che le buone politiche del lavoro non potranno prescinderne ed è anche chiaro che questa cosa la dobbiamo pretendere. Perché il Jobs Act è una roba vecchia e non è buona politica.

La Fiom è il sindacato delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Cgil

Iscrizione Newsletter

Ho letto e accetto Termini e condizioni d'uso e Informativa sulla privacy