Dall’inizio della crisi scoppiata sul finire del 2007 il numero dei senza lavoro nell’eurozona è cresciuto di circa sette milioni e la sola Italia ha oltre un milione e mezzo di disoccupati in più. La crisi, però, non ha colpito allo stesso modo le diverse economie del Continente. Si pensi che il numero dei senza lavoro in Germania si è ridotto di circa un milione di unità, mentre in Grecia e Spagna è triplicato. In questi anni, infatti, stiamo assistendo a un forte incremento degli squilibri tra aree centrali e aree periferiche d’Europa.
La rivista on line Economia e Politica, che raccoglie intorno a sé gli economisti italiani più critici verso l’impianto liberista dell’Unione monetaria europea e le sue politiche di austerità, ha approfondito ripetutamente questi temi, anche con un recente articolo su “Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato” (pubblicato il 2 dicembre 2014) nel quale si dimostra che l’assetto dell’Unione monetaria europea non ha fatto altro che aumentare la divergenza economica tra gli Stati membri.
Guardiamo ai tassi di disoccupazione, cioè alla quota di persone senza lavoro rispetto al totale della popolazione attiva. La Figura 1 illustra l’andamento dei tassi di disoccupazione di alcuni Paesi appartenenti all’eurozona. Nel 2007, alla vigilia dello scoppio della crisi mondiale, quei tassi erano molto vicini e si potevano osservare differenze di massimo 2, 3 punti percentuali. Successivamente, il divario si è allargato sempre di più. Alla fine del 2013 si è arrivati addirittura ad oltre 20 punti di differenza agli estremi, con alcuni Paesi che hanno ridotto la disoccupazione (si veda la Germania) ed altri che l’hanno raddoppiata (come l’Italia) o addirittura più che triplicata (Grecia e Spagna). E queste tendenze risultano confermate anche dagli ultimi dati ufficiali.
Tassi di disoccupazione nell’eurozona (anni 2007-2013)
Come se tutto ciò non bastasse, l’accentuarsi dei divari tra Paesi centrali e aree periferiche diviene socialmente ancora più insostenibile alla luce dei dati relativi alla distribuzione dei redditi. Prendiamo in considerazione la quota salari sul Pil, che misura la parte della ricchezza complessivamente prodotta nel Paese che va ai lavoratori salariati, che sono naturalmente la grande maggioranza dei soggetti attivi nell’economia (la parte restante va, naturalmente, ai percettori di profitti e rendite). Secondo la Commissione Europea, dal 1990 al 2013 si è assistito a una riduzione progressiva della parte della ricchezza che va ai lavoratori, calata mediamente del 3%. In Germania, ad esempio, la quota salari si è ridotta di tre punti percentuali tra il 1990 e il 2013, fermandosi al 56,7%. In altri Paesi l’impoverimento dei salari a favore dei profitti e delle rendite è anche più marcato. In Italia, ad esempio, la quota del prodotto interno lordo che è andata a remunerare i lavoratori salariati si è ridotta di ben 5 punti, attestandosi al 53,8% a fine 2013.
Queste gravi disparità tra aree centrali e aree periferiche di Europa (tra cui l’Italia) e la distribuzione del reddito che premia sempre più i ricchi e sempre meno i lavoratori non sono fatti casuali. Si tratta al contrario degli effetti delle politiche di austerità che si sostanziano in progressivi tagli della spesa pubblica e dello stato sociale, aggravati dalla presenza di una moneta unica che non consente nemmeno il ricorso alle svalutazioni competitive tanto praticate ad esempio in Italia negli anni ’80.
Ma è ormai chiaro che l’Unione monetaria europea non può reggere a lungo questi squilibri crescenti. Come previsto dal Monito degli economisti pubblicato nel 2013 dal Financial Times, continuando con le politiche di austerità previste dai Trattati europei, la crisi dell’eurozona è solo questione di tempo. I Paesi periferici più in difficoltà potrebbero trovarsi costretti ad abbandonare l’euro. Si pensi al duro braccio di ferro in corso tra il nuovo governo anti-austerity eletto in Grecia e le inflessibili istituzioni dell’Unione europea (Commissione Europea e Banca Centrale Europea). L’uscita dall’euro è una possibilità sempre sullo sfondo.
Attenzione però a considerare l’abbandono dell’euro come la soluzione per tutti i mali. Questa strategia, infatti, di per sé non garantisce affatto gli interessi del mondo del lavoro, a cominciare dalla difesa dei posti di lavoro e dal livello dei salari.
Per comprendere la questione è sufficiente leggere lo studio “Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari”, che ho pubblicato con Angelantonio Viscione sempre su Economia e Politica (il 22 gennaio scorso). In questo lavoro abbiamo provato a effettuare una analisi delle possibili conseguenze di una uscita dall’euro prendendo in esame le esperienze del passato che più si avvicinano alla eventuale euroexit. In particolare, abbiamo studiato le 28 crisi valutarie successive al 1980 che hanno comportato l’abbandono dei precedenti accordi di cambio tra le valute e al tempo stesso ampie svalutazioni (superiori al 25% rispetto al corso del dollaro). Tra questi 28 casi ce ne sono 7 che hanno riguardato economie ad alto reddito come, ad esempio, la maxi-svalutazione italiana del 1993.
La Tabella 1 è tratta da quello studio e mostra gli andamenti del tasso di disoccupazione nell’anno dello scoppio della crisi valutaria, nell’anno successivo e nei due anni successivi. Come si può osservare, vengono indicati gli effetti sul tasso di disoccupazione per tutti i 28 casi considerati, per i soli paesi ad alto reddito (indicati anche uno per uno) e infine per l’insieme dei paesi a basso reddito. Ebbene, come si osserva nella tabella, nonostante l’abbandono degli accordi di cambio e alle successive svalutazioni, nelle esperienze dei Paesi ad alto reddito il tasso di disoccupazione è restato stazionario (intorno al 9,5%). Addirittura, in alcuni casi, come quello italiano, la disoccupazione è sensibilmente aumentata. Mentre risultati un po’ più incoraggianti sotto questo aspetto si sono avuti nelle esperienze dei paesi a basso reddito.
La disoccupazione dopo la crisi valutaria – Tasso di disoccupazione negli anni successivi alla crisi (anni 1980-2013) Fonte: Ameco – Commissione Europea, Banca Mondiale, Eclac CepalStat
Anche se spostiamo la nostra attenzione alle dinamiche salariali i risultati non sono molto confortanti. Le svalutazioni che seguono l’abbandono degli accordi di cambio rendono infatti la moneta del paese in questione meno costosa in termini delle monete estere. Ciò fornisce normalmente un impulso positivo alle esportazioni e può anche innescare un processo di crescita rilevante, che il nostro studio espone ampiamente.
Tuttavia, al tempo stesso, la svalutazione fa sì che i beni che il paese in questione deve importare dall’estero (ad esempio, materie prime) diventano più costosi. Ciò tende a generare una spinta inflazionistica nei paesi che abbandonano l’accordo di cambio e ovviamente il risultato è che i percettori di salari e pensioni accusano il colpo. L’inflazione infatti riduce il potere di acquisto dei salari e delle pensioni. Come si può osservare nella Tabella 2, infatti, le crisi di cambio storicamente comportano mediamente un iniziale calo dei salari reali (cioè dei salari al netto dell’inflazione e, dunque, il potere d’acquisto dei lavoratori). Soprattutto si riduce gravemente la quota salari sul prodotto nazionale; il che significa che anche una uscita dall’euro potrebbe generare un poco auspicabile spostamento di ricchezza dai lavoratori ai percettori di profitti e rendite.
Salari reali e quota salari sul pil – Valori cumulati nei tre anni successivi alla crisi valutaria (anni 1984-2013)
Naturalmente, l’esperienza dell’euro è per molti aspetti inedita e per questo ciò che è accaduto nel passato non può gettare luce con certezza sugli esiti di un’uscita dall’euro. Al tempo stesso, però, lo studio delle esperienze storiche rappresenta il modo più serio che abbiamo per valutare in anticipo gli effetti delle scelte che potremmo dovere compiere. E l’esperienza storica ci dice che l’abbandono della moneta unica da parte di un Paese periferico potrebbe costituire una occasione per tornare a crescere, ma che non è un toccasana. È vero che la svalutazione può favorire le esportazioni del paese in questione e ciò tende a favorire la crescita. Tuttavia, i rischi maggiori riguardano proprio il mondo del lavoro, in particolare l’occupazione e i livelli salariali.
Alla luce di tutto ciò, è chiaro che cambiare il segno delle politiche europee sarebbe senz’altro l’opzione migliore. Abbandonare l’austerità in favore di politiche economiche espansive, coordinate sul piano europeo, con investimenti pubblici nelle infrastrutture, in politiche industriali e nello stato sociale costituirebbero la risposta più adeguata alla crisi. Anche per disegnare una Europa più giusta e solidale. Si tratta, però, di una soluzione sempre meno probabile, dal momento che i Trattati europei impongono l’austerità e la Germania, con i suoi paesi-satellite, continua a insistere per le politiche liberiste. Se dunque un Paese periferico, come l’Italia, si trovasse costretto ad abbandonare l’euro è indispensabile che i lavoratori e le loro organizzazioni conoscano a fondo i rischi che corrono in assenza di adeguate politiche di sostegno dei salari e della domanda. In effetti, la lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza del passato è che la tutela degli interessi del mondo del lavoro oggi dipende da come si resta nell’euro e da come, eventualmente, se ne esce. L’assetto attuale dell’Unione europea si sta dimostrando molto ostile al mondo del lavoro, ma una uscita dall’euro senza meccanismi di difesa dei salari e senza politiche espansive per l’occupazione potrebbe non schiudere la strada a un futuro migliore.