Il titolo del libro di Mario Sai “Vento dell’Est, toyotismo, lavoro e democrazia” (Ediesse) è a prima vista sorprendente e riecheggia espressioni e titoli degli anni Settanta quando il vento dell’Est veniva associato al pensiero di Mao, alla rivoluzione culturale e quant’altro. Nel libro si parla di un vento che soffia nella stessa direzione ma con contenuti ben diversi, anzi opposti. Si tratta di tutt’altro che un libro sulle speranze dell’avvenire tipo “ L’Oriente è rosso”, in effetti il vento che soffia non solo dalla Cina ma anche dal Giappone è un vento che riguarda la condizione dei lavoratori, l’organizzazione del lavoro e i diritti. Dal Giappone arrivano le forme che partono dal Toyotismo e arrivano all’applicazione nelle fabbriche italiane del Wcm (World class manifacturing), l’organizzazione del lavoro della Fiat di Marchionne.
Ciò che viene anche dalla Cina, con la competitività dei suoi prodotti che ne fanno “l’officina del mondo” è un vento pericoloso per la concorrenza sui mercati delle merci, grazie ai bassi costi di produzione e a loro volta legati alle condizioni di lavoro e di salario: condizioni paragonabili solo a quel che in Occidente si aveva all’epoca della rivoluzione industriale. Ma su questo il libro non si sofferma. Giustamente per Sai, “ciò che ha reso potente il vento dell’Est è stato soprattutto il complesso di idee in ambito gestionale e produttivo sviluppatosi in Giappone attorno alla produzione just in time e al kaizen, lo sforzo per il miglioramento continuo”. E questa tendenza che, nata a Est con il toyotismo, si aggiorna e diventa più aggressiva con l’ideologia del Wcm che recupera anche contenuti, principi e assunti del taylorismo.
Nel libro Sai porta avanti la sua argomentazione muovendosi su diversi filoni di discorso che spesso si incrociano: quello della organizzazione del lavoro in senso stretto, quello delle relazioni industriali, dei diritti e della rappresentanza e quello del cambiamento strutturale del mercato del lavoro e in ultima analisi delle classi sociali. L’analisi si dipana nei diversi capitoli partendo proprio dall’organizzazione del lavoro e delle forme del controllo del lavoro che si sono succedute – dal taylorismo (e successivi intrecci con il fordismo) alle imposizioni della flessibilità, alle implicazioni delle tecnologie della informazione e della comunicazione. Prosegue poi con le implicazioni che queste forme hanno per il sindacato e le relazioni industriali, soffermandosi ovviamente sui cambiamenti e le innovazioni recenti. E conclude nei capitoli finali con una più esplicita analisi e proposta politica e sindacale. Ma non entrerò nel merito di quest’ultimo punto per altro trattato da diversi autori a cominciare da Valentino Parlato sul Manifesto oltre che nelle loro prefazioni anche da Ivan Pedretti (con riferimento più concreto al sindacato) e da Fabrizio Barca.
L’aspetto per me cruciale, proprio in coerenza con il titolo del volume, è quello della organizzazione del lavoro e connesse ideologie (fondamentali per l’esercizio del controllo). Mantenendoci sempre nella metafora del vento, possiamo dire che Il libro parte proprio da un vento che ha a lungo soffiato in direzione opposta: il vento dell’Ovest portatore delle tendenze, affermatesi inizialmente in America a partire dalla fine dell’800 e l’inizio del 900, che hanno caratterizzato l’organizzazione del lavoro e la condizione dei salariati dentro e fuori la fabbrica fino alla prima metà degli anni settanta del secolo scorso. In quel periodo sviluppo industriale e crescita della classe operaia andarono di pari passo mentre progressivamente si affermava il modello produttivo fordista-taylorista, estendendo le esigenze e i tempi della fabbrica progressivamente anche alla società, secondo quanto è ben stato studiato e illustrato sia dalle analisi critiche che da quelle apologetiche di quel modello.
Sai fornisce un breve ed efficace resoconto della storia di quel modello produttivo non tanto per rievocarne l’esistenza o per fissare un punto di partenza quanto per valutare l’eredità e la persistenza del taylorismo anche quando il modello fordista (che al taylorismo univa produzione di massa per il consumo di massa e salari elevati con stabilità occupazionale nel quadro del moderno welfare state) tramonta e con esso tramontano non solo le condizioni materiali di vita e le forme di organizzazione del lavoro e di controllo sul lavoro ma anche le forme di rappresentanza e gli spazi di contro-potere operaio (come contrasto al controllo manageriale).
Il vento dell’Ovest ci aveva regalato la catena di montaggio e la dequalificazione operaia (mai totalmente realizzata comunque ) legata all’ideologia taylorista con la parcellizzazione delle mansioni e l’illusione della one best way. A suo tempo Harry Braverman nel pieno dello sviluppo fordista ( in presenza tuttavia – è bene non dimenticarlo – di un dualismo nel mercato del lavoro) aveva individuato i processi di degrado del lavoro nel XX secolo (come recita il sottotitolo di Lavoro e Capitale Monopolistico). Braverman aveva notato che la dequalificazione e la parcellizzazione del lavoro di stampo taylorista si erano estese, oltre i confini della fabbrica, al lavoro amministrativo e impiegatizio e in generale al lavoro nei servizi. Ma mentre egli, forse esagerandone anche la portata , aveva visto il degrado essenzialmente all’interno del processo lavorativo, ora la tragedia si comincia a consumare nel mercato del lavoro non solo con la disoccupazione vecchia e nuova – vecchia quella dei giovani, nuova quella dei più anziani – ma anche e soprattutto con la mancanza di prospettive per il futuro, dentro e fuori la fabbrica. Su questo, sulla modificazione della composizione di classe del lavoro, si sofferma Sai in più di un capitolo affermando in coerenza con Guy Standing che “dentro la retorica della fine del lavoro cresce la “discordanza di status”: individui con un livello relativamente alto di qualifiche formali sono costretti ad accettare una posizione e una retribuzione considerate inadeguate alle proprie qualifiche” (pag.26).
Ma il cuore del discorso riguarda l’organizzazione del lavoro. Dopo aver definito le coordinate generali del toyotismo, Sai afferma che “Nel suo passaggio a Ovest a partire dagli ottanta il toyotismo della forma del World class manifacturing ha messo al centro la competizione sul mercato mondiale quindi il risparmio. Laddove si lavora con il sistema Wcm si mischiano le tecniche di gestione finalizzate ad acquisire coinvolgimento, partecipazione e consenso da parte dei lavoratori con i principi dello scientific management (un neo-taylorismo fatto di standardizzazione di metodi e procedure , intensificazione di ritmi e di carichi di lavoro, crescente controllo)” (pag.35). E tuttavia “la capacità di fondo deve essere rivolta al problem solving”.(Ivi) Insomma un mix di richieste di responsabilizzazione e di pretesa di subordinazione al controllo tecnico e burocratico. Su questa contraddizione e sul modo in cui si riflette sulla organizzazione del lavoro e la condizione operaia nelle fabbriche Fiat che stanno applicando il modello Sai insiste sempre con il suo approccio storico con riferimento alle fasi della implementazione del modello giapponese prima con la qualità totale all’Italiana, poi con la versione autoritaria e centralizzata del Wcm con lo stile Marchionne del “Tutto il potere all’ A.D.” (come titola un capitolo) e il tentativo ridurre in qualunque modo – a parte la retorica – la partecipazione dei lavoratori. Sai cita al riguardo diverse inchieste anche di fonte sindacale (Cisl compresa) che documentano il malessere dei lavoratori. Non fa invece riferimento – a meno che mi sia sfuggito – all’ultima nota indagine della Fim Cisl che ha un carattere piuttosto apologetico. Ma su questo basta rimandare all’ultimo numero di Economia e lavoro che presenta un’articolata panoramica delle posizioni più o meno critiche sul Wcm e le sue applicazioni in Italia.
Come si diceva, la ricerca di Sai non si ferma al livello dell’organizzazione del lavoro e del controllo in fabbrica. L’ottica è più generale e fa riferimento ai cambiamenti nella condizione operaia e più in generale dei lavoratori – con un’attenzione particolare a quelli della conoscenza – in rapporto all’affermarsi del modello e in connessione alla diffusione crescente e all’applicazione in fabbrica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Così in un interessante paragrafo dal titolo Taylor nel web argomenta come “In quello che doveva essere il regno delle nuove libertà si è determinato un processo di centralizzazione che ha interessato proprio i settori trainanti del capitalismo internazionale” (pag.93). E per quel che riguarda i lavoratori della conoscenza – rispetto ai quali Sai segue l’orientamento di Federico Butera – sottolinea che c’è “un conflitto di tipo nuovo tra la capacità crescente di questi lavoratori di usare conoscenze (con le conseguenti richieste di autonomia) e la capacità del sistema aziendale di mantenere il governo dei comportamenti e il controllo dei tempi”(pag.71)
L’ultima e particolarmente importante tematica è l’analisi dei riflessi sindacali di questo processo, il suo impatto sulla forza e la qualità dell’azione sindacale. In questo il libro ha una utilità particolare proprio perché lega l’organizzazione del lavoro e il terremoto nella struttura occupazionale e nel mercato del lavoro all’azione sindacale. Al riguardo è bene ricordare che se l’Italia soffre insieme a tutti i paesi industriali di un calo della densità sindacale, cioè dell’incidenza degli iscritti ai sindacati sul totale dei lavoratori, la sua collocazione nella scala dei livelli di sindacalizzazione non è particolarmente cattiva. Insomma il sindacato italiano , nelle diverse anime e articolazioni, è riuscito a resistere – o quanto meno a non esserne travolto – a un attacco concreto e ideologico che ora con Jobs Act ha assunto anche una veste giuridica.
Sai mostra quali sono state le vicende e i conflitti nei diversi paesi e come la linea vincente padronale sia stata quella di spostare il baricentro delle relazioni industriali verso le aziende. E la centralità della contrattazione di secondo livello, punto fermo della ideologia manageriale dominante, non dà grandi risultati per il sindacato e i lavoratori mentre priva di quegli elementi di indirizzo sociale ed economico (e di difesa dei settori più deboli) che è propria della contrattazione nazionale. Ed è particolarmente la tradizione e la pratica della Cgil, sindacato ‘di classe’ cioè portatore di interessi generali, a essere incompatibile con la linea manageriale che è alla base del Wcm. Di questo ha dichiarato di accorgersi, con una certa sorpresa, Sergio Marchionne in una intervista a Repubblica del 2011 “Ho sottovalutato un sindacato che aveva obiettivi politici e non di rappresentanza di un interesse specifico come invece accade negli USA”. Così soffia il vento dell’Est.
*Sbilanciamoci.info