Atene un anno dopo le elezioni e a sei mesi dall’imposizione delle “cure” della Troika in salsa tedesca, appare ancora sotto ricatto costante e il suo sforzo incessante rischia di uscire dagli onori della cronache europee.
La voragine che si è aperta in Grecia negli ultimi anni è molto lontana da una ricomposizione, i tassi di disoccupazione sono ancora altissimi e quello giovanile - attorno al 60% - testimonia come la crisi si sia inghiottita due intere generazioni.
Per le stesse strade percorse un anno fa qualche negozio è tornato ad aprire ma ciò che più colpisce chi arriva da una qualsiasi delle altre capitali europee è l'assenza del clima d'emergenza che attanaglia l'Occidente: niente camionette o pattuglie armate a difesa della sicurezza minacciata dal terrorismo, niente sensazione d'ansia di civiltà assediata dalla barbarie.
Attorno alla lunga strada che porta al Pireo e che attraversa l’aerea industriale di Atene, ancora tutto è fermo e nelle tende davanti al Ministero del lavoro ancora si danno il cambio lavoratori che rivendicano il diritto al lavoro e nel migliore dei casi un diritto a essere pagati per il lavoro che si svolge - con arretrati che in alcuni casi arrivano fino a 40 mesi.
In questi dodici mesi tutti si sono occupati della Grecia, ma pochi hanno capito l'importanza e anche il “peso” del mandato democratico chiesto al poplo greco per ben tre volte in meno di un anno. Chi si trova a governare il Paese oggi sconta la difficoltà principale di un’agenda imposta, di obiettivi inflitti e di un’eredità pesante; si trova sostanzialmente a dover reimpostare il Paese, intrappolato in una posizione in cui muovere un passo è d’obbligo ma allo stesso tempo dove ogni passo mosso rischia di stringere ancora di più i vincoli che strangolano il popolo ellenico.
Non è bastato infatti il Memorandum e la sensazione è che a partire dalla rinegoziazione del debito, così come dall’emergenza migranti, la Grecia si trovi periodicamente a che fare con una ricognizione europea che rimetta in discussione i programmi di lavoro.
Per fare un esempio: in Grecia la contrattazione collettiva è ritenuta incompatibile con il risanamento dello Stato non da parte del governo ma da parte delle istituzioni che hanno imposto il terzo memorandum al Paese; e anche se il sindacato richiede con forza la sua reintroduzione, l’Ilo abbia preso posizione chiara al riguardo e il governo sia concorde, non si scorge ancora il momento in cui sarà ripristinato il diritto alla contrattazione per le lavoratrici e i lavoratori greci.
La scorsa settimana, durante un incontro tra le organizzazioni sindacali dell’Industria del sud, è intervenuto il Segretario generale del Ministro del lavoro. Come sindacati europei presenti ad Atene abbiamo consegnato al Ministero del lavoro una dichiarazione congiunta sulla necessità di reintrodurre la contrattazione, evitare ulteriori tagli alle pensioni e sul ripristino del dialogo sociale tra governo e parti sociali. In risposta il Ministero ha inviato un suo alto rappresentante a spiegare come si stanno comportando riguardo alle priorità d'affrontare e alla riforma delle pensioni. La constatazione è che se avessero avuto la possibilità di scegliere non sarebbe stata quella la prima riforma che avrebbero affrontato, avendo trovato come eredità le casse depredate per 13 miliardi e il 40% del totale delle pensioni tagliato in undici manovre consecutive.
Le imposizioni europee hanno un peso sostanziale su agenda e tempi, lo sforzo creativo tuttavia consiste tutto nel cercare di attuare le misure imposte evitando i tagli lineari e cercando soluzioni che rimettano in sesto il Paese, preservando i cittadini più esposti e cercando quindi di avanzare delle proposte lungimiranti, con una capacità riformatrice basata sul consenso popolare.
Consenso che, al momento, non è al massimo: il sindacato che a luglio si era espresso contro la necessità di un referendum è sul piede di guerra e gli agricoltori hanno bloccato le strade della Grecia. Tuttavia quello che dichiara il rappresentante del Ministro del lavoro è una totale apertura al dialogo e non è trascurabile che abbia voluto confermarlo incontrando un’intera delegazione europea.
Le preoccupazioni principali riguardano anche i rapporti di lavoro: sempre più lavoratori infatti chiedono di poter essere pagati ed è impellente la necessità di dotarli di uno strumento anche giuridico che dia delle risposte; così come combattere contro il 15% di lavoro sommerso e implementare una regolamentazione contro i licenziamenti collettivi. Al Ministero dicono di aver trovato “una macchina per firmare licenziamenti”: “Non è possibile che per aprire un’azienda in Grecia devi dimostrare di essere conforme a tutta una serie di regole e che invece per chiuderla e spostarla in un altro paese dalla mattina alla sera non esistano vincoli. O che si possa tranquillamente chiudere e riaprire per abbassare i salari ai lavoratori”.
Lo sforzo creativo sta, appunto, nel cercare di rispettare i vincoli dando però ossigeno e risposte d'insieme. In questa direzione vanno tutta una serie di iniziative: dalla difficile battaglia contro le privatizzazioni alla sperimentazione sul reddito minino introdotta come test in 13 comuni e che a marzo verrà valutata per capire se sia estendibile, diventando un programma generale; fino alla lotta all'evasione e al lavoro irregolare creando anche una legislazione sperimentale per poter far emergere dall'irregolarità gli stranieri che lavorano in maniera massiccia in agricoltura e riconoscere loro tutele e protezione.Tutti tentativi affiancati da iniziative sociali come i 150 milioni per sussidi per affitti ed elettricità e l’avvio di altri due programmi con sussidi per persone di terza età non
assicurate che hanno più di 67 anni – e che si possono con troppa facilità incontrare anche vicino i cassonetti nelle strade della capitale - cui elargire 350 € in base a criteri precisi che li aiutino a superare la soglia di povertà estrema in cui sono segregati.
Poi sarà la volta del debito, per rinegoziare gli obblighi in modo che siano sostenibili e ridurne quindi il peso sull’economia; e qui, di nuovo, emerge la preoccupazione sulle verifiche imposte in sede europea che peseranno come una spada di Damocle su ogni tentativo di costruire un modello diverso di risposte alla crisi della finanza e del debito sovrano.
La questione dei migranti poi riapre in maniera violenta il peso del ricatto a cui la Grecia è esposta: in cambio della sospensione di Schenghen - e quindi dell’affossamento dell’idea stessa di Europa - sarebbero pronte misure di sostegno alla Grecia, che, esiliata fuori dall’Europa, dovrebbe trasformasi nel campo profughi più grande del continente con il ricatto che se non accetterà di gestire la situazione comunque potrebbero esserle imposte tutta una serie di misure ob torto collo.
La sola responsabilità della Grecia in questo caso è quella di essere collocata in quel punto del Mediterraneo in cui milioni di persone per salvare la vita devono rischiarla. Diversamente da quanto accade alla Turchia, che riceve aiuti europei da destinare all’accoglienza nonostante non offra garanzie né sugli assetti politici dell'area, né sui diritti civili e le tutele del popolo kurdo.
Il problema di fondo è che la Grecia non è inserita in un contesto di solidarietà europeo che sembra anzi diventato soltanto lo spazio di rivendicazione dei nazionalismi. In molti, durante la settimana in cui ho partecipato ai lavori in Grecia, si sono soffermati a chiedere che valore avessero le dichiarazioni di Renzi in Europa, perché l’impressione che molti avevano anche ad Atene è che si stia aprendo una campagna elettorale italiana e che in realtà, pur nelle accuse mosse a Bruxelles, non ci sia spazio per una rivendicazione comune, per qun percorso che apra un discorso collettivo sul funzionamento dell’Unione. Eppure su questo tema i greci rivendicano collettivamente un forte ruolo, sono consapevoli che la loro battaglia non è stata e non è solo una battaglia greca, sono consapevoli che la loro forza nel tenere aperto uno spazio di difesa della democrazia non fosse una necessità nazionale e che l’esito di alcuni cambi di equilibrio in Spagna come in Portogallo siano stati possibili anche grazie alla determinazione con cui il popolo ellenico ha contribuito a denudare
meccanismi di ricatto e d'ingerenza che rendono i piani finanziari dell’Unione incompatibili con delle politiche che perseguano la giustizia sociale.
L’ambito europeo non è stato e non è favorevole, la Grecia si è trovata a dover fare dei passi indietro, ricevendo l’attenzione morbosa di chi ha tentato di dimostrare che doveva essere normalizzata per evitare che il contagio di un’ondata anti-austerità si propagasse per l’Europa e di chi, dall’altro lato, attendeva da questi primi mesi e dalla trattativa greca che il sistema-Europa si riformasse a partire dalla Grecia senza mettere in campo alleanze sociali europee. Oggi questo dibattito sembra affievolito, drogato dalle tempistiche della mediaticità delle vicende. Eppure è ancora qui il nodo principale: la Grecia continua a essere un paese-cavia, in cui si possono imporre
supervisioni continue sulle politiche nazionali, in cui non è consentita la libertà di contrattazione sindacale, in cui l’unico intervento dello stato in economia che si vuol permettere è quello delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Più di ogni altra cosa la Grecia è quella parte di Europa che si vorrebbe confinare fuori dall’Europa, la sua frontiera su cui trattenere milioni di persone che stanno interrogando le politiche europee e rimettendo in discussione i principi fondativi dell’Unione.
Il ruolo di chi continua a guardare la Grecia, nonostante il calare dei clamori, è esattamente quello di smettere di guardare. Spetta a tutti coloro che si trovano in paesi con condizioni un minimo più
favorevoli provare ad andare più in là rispetto a dove la Grecia da sola non può andare. Spetta a tutti noi assumere le sfide che i cittadini greci assumono sfidando Fmi, Bce e Commissione Europea quando reclamano il diritto al ripristino della contrattazione collettiva - che è sotto attacco in tutta Europa -, tocca a noi tutti dire che abbiamo bisogno di un’Europa libera, sociale, aperta invece che continuare a reclamare ognuno il proprio pezzetto di Europa nazionale.