Un fantasma si aggira per il mercato del lavoro italiano. Si tratta del lavoro a progetto (c.d. “co.co.pro.”), del quale il governo ha annunciato la scomparsa presentando i decreti attuativi del Jobs Act. A partire dal primo gennaio 2016 non sarà infatti più possibile assumere con questa forma contrattuale, il che – si sostiene- comporterà la fine della precarietà per circa mezzo milione di lavoratori “autonomi”. Certo, al posto del contratto a progetto, ai lavoratori spetterà l’assunzione con il nuovo contratto a tutele crescenti, privo delle tutele in caso di licenziamento illegittimo. Ma si tratta comunque di un sostanziale miglioramento delle loro condizioni di occupazione.
Questa narrazione della riforma in atto è sorprendentemente presa per buona dagli organi di informazione e da tutti gli attori politici e sociali. Perfino i sindacati non ne mettono in dubbio la fondatezza ed appuntano le loro critiche sul fatto che la fine delle collaborazioni a progetto non riguarderà tutti i lavoratori, non toccando - ad esempio- quelli pubblici.
Nessuno sembra essersi accorto che proprio intorno a questa tipologia di lavoratori si sta realizzando una clamorosa opera di mistificazione della realtà, superiore persino a quella sottesa alla messa a regime delle tutele crescenti. Il che rende il dibattito in corso vagamente surreale.
E’ vero infatti che il Jobs Act - una volta pienamente attuato - cancellerà il lavoro a progetto. Gli effetti di tale operazione saranno però ben diversi da quelli raccontati dal governo, per la semplice ragione che la sua scomparsa non impedirà il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative (c.d. co.co.co), che così rinasceranno a nuova vita.
La beffa sta nella norma con la quale si intenderebbe stabilizzare come lavoratori subordinati i lavoratori autonomi (“collaboratori”) sino ad oggi assunti a progetto. Si legge infatti nell’art.47 del decreto attuativo che i futuri collaboratori avranno diritto ad essere assunti come lavoratori subordinati se svolgono “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Ora, una simile norma non fa che dire una cosa ovvia, ripetendo –male- quanto i giudici del lavoro affermano da decenni sulla base del codice civile: e cioè che un lavoratore autonomo (co.co.co, co.co.pro. o partita iva, nulla cambia) non è tale se si trova a prestare la propria attività senza alcuna autonomia. E nessuno ha mai dubitato del fatto che debba considerarsi subordinato un lavoratore che svolge prestazioni di “contenuto ripetitivo”, con “tempi” ed in “luoghi” determinati dal committente. Il problema è che questo pacifico principio di diritto - a causa della sua vaghezza e difficoltà applicativa - non ha impedito il proliferare dei “finti” lavoratori autonomi e non garantisce alcun diritto a quelli “veri”.
Ma c’è di più. Le vigenti norme che regolano il lavoro a progetto impongono vincoli formali al committente che utilizza un co.co.co. (la redazione di un progetto scritto, appunto) e attribuiscono un minimo di tutele al lavoratore (malattia, maternità e retribuzione, in primo luogo). Da questo punto di vista si tratta dell’unica parte della legge Biagi ispirata a una finalità protettiva e di tutela del lavoratore; per quanto deboli possano essere considerate le tutele previste, è un fatto che prima del 2003 i co.co.co non avevano neppure quelle. Cancellando questa parte della legge Biagi dunque, non si contrasta la precarietà ma, al contrario, si eliminano i (pochi) limiti che negli ultimi anni hanno arginato le forme più estreme di sfruttamento del lavoro autonomo “economicamente dipendente”.
Insomma con il Jobs Act, i co.co.co, lungi dallo scomparire, potranno tornare a moltiplicarsi e a lavorare senza regole e senza neppure quei pochi diritti benevolmente concessi dal governo Berlusconi. Così va il mondo del lavoro nell’era della sinistra moderna e post-ideologica.
Giovanni Orlandini. Professore associato di diritto del lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Siena.