Care compagne, cari compagni,
abbiamo voluto aprire questo nostro Congresso con le immagini di un 12 dicembre di qualche anno fa, quello della strage fascista di Milano, delle bombe contro la democrazia che diedero il via alla strategia della tensione che insanguinò per più di un decennio il nostro paese. Quelle bombe volevano destabilizzare la Repubblica antifascista, spaventare l'opinione pubblica, spingere a destra – fino al limite del golpismo – un potere politico in difficoltà. Erano bombe contro di noi, contro i nostri valori, contro le lotte operaie di quell'autunno caldo, di quel contratto dei metalmeccanici.
Quella strage – come altre che seguirono – era ispirata da chi aveva paura del protagonismo dei lavoratori che portavano la Costituzione dentro le fabbriche, da chi temeva che la nostra democrazia diventasse finalmente anche una democrazia sociale e che la modernizzazione del paese significasse un allargamento dei diritti. Poteri palesi e oscuri, spaventati da tutto quello che in quegli anni le lotte studentesche e operaie praticavano e da ciò che chiedevano le rivendicazioni delle donne e degli uomini, furono i mandanti della manovalanza fascista con la complicità anche di apparati dello Stato. Perché i fascisti per questo sono nati e questo continueranno a essere, anche quando cambiano i protagonisti, i nomi e il contesto. Ieri come oggi.
Abbiamo voluto ricordarlo perché la memoria non è una mummia da conservare in bacheca, ma serve per rammentarci ciò che siamo e per costruire ciò che saremo. Altre, dopo di me, ne parleranno meglio, ma noi abbiamo voluto collegare da subito – fin dal primo minuto di questo Congresso – quella nostra memoria comune con ciò che sta succedendo oggi, per condividere la consapevolezza del mondo intorno a noi, delle sfide che ci pone nelle nuove forme che assumono i vecchi pericoli; quando, ad esempio, la minaccia per la nostra democrazia sono i nazionalismi, la caccia allo straniero, il razzismo. Nuovi fascismi che non sono un lascito residuale del passato, ma si nutrono delle paure e dei problemi che il nostro mondo – la nostra gente – vivono oggi, delle crisi che spezzano la coesione sociale quando le persone vengono messe le une contro le altre, in una competizione che diventa lotta per la sopravvivenza. Sono problemi che vanno affrontati e combattuti con uno sguardo aperto e consapevole, perché è un impegno difficile, quotidiano: lo sappiamo bene, lo viviamo ogni giorno nel nostro lavoro, nelle tante crisi industriali che abbiamo conosciuto in questi anni.
Qui, prima che altrove, sta il senso del nostro Congresso, il modo in cui abbiamo scelto di farlo, nel coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori, delle iscritte e degli iscritti di tutta la confederazione, a partire dalle assemblee generali dei territori e delle categorie nella fase di costruzione dei documenti, perché così deve fare una grande organizzazione di massa come la Cgil; perché solo il sindacato, in questo Paese, oggi può farlo. Questa scelta Qq rappresenta già un successo, ma è soprattutto una premessa per ciò che dobbiamo fare da domani. In una fase storica così difficile, complessa e segnata da profonde e continue trasformazioni, le migliaia di assemblee che abbiamo tenuto sui posti di lavoro sono una grande risorsa a cui attingere l'energia e le conoscenze utili ad affrontare la necessaria trasformazione di una realtà che non ci piace e che non possiamo accettare.
Nel mondo, in Europa, nel nostro Paese, si sono verificati processi di trasformazione così profondi da cambiare il corpo e il volto del mondo del lavoro: per questo abbiamo messo al centro della nostra discussione cosa significhi mantenere e allargare la rappresentanza del lavoro subordinato per affrontare la grande offensiva delle imprese e della finanza contro le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori e contro la loro rappresentanza collettiva. Ingiustizie e frantumazioni: in queste due parole si possono riassumere i nostri avversari di oggi.
Le ingiustizie che sono aumentate a dismisura, soprattutto in questi anni di crisi economica, misurate dalla crescente povertà, dall'1% della popolazione mondiale che possiede più del 50% della ricchezza; dalla forbice che si allarga tra le retribuzioni dei manager e quelle dei loro dipendenti; dai pochi che possono formarsi, curarsi, scegliere il proprio lavoro e i tanti che sono costretti nella precarietà e nell'insicurezza del domani; dall'estendersi del lavoro povero e sottopagato nei paesi “ricchi”; da milioni di persone che per sopravvivere emigrano dai tanti “sud” ai pochi “nord” del mondo, dall'Africa all'Europa ma anche dal nostro Mezzogiorno verso le capitali europee. Africa, dove il mondo ricco ha fatto e continua a fare razzia delle ricchezze naturali e che per prima con la progressiva desertificazione paga il prezzo del cambiamento climatico, di un modello di sviluppo cieco rispetto ai disastri umani e ambientali che produce.
Le frantumazioni che hanno accompagnato la lunga ristrutturazione capitalistica della globalizzazione, la possibilità per le multinazionali e la finanza di spostare il lavoro e l'estrazione del profitto dov'era per loro più conveniente; di aumentare lo sfruttamento del lavoro fino a quello del sapere; di parcellizzare le filiere produttive in una catena di appalti in cui il lavoro è diviso ma il suo controllo è centralizzato in un comando ferreo, spesso autoritario, a volte illegale; di mettere in concorrenza le persone tra loro, con un consistente esercito di disoccupati e precari; di garantirsi leggi che hanno terremotato il diritto del lavoro e smontato gran parte delle conquiste dell'ultimo dopoguerra.
Il risultato di ingiustizie e frantumazioni è che le lavoratrici e i lavoratori sono più poveri e più divisi rispetto a quando è iniziata la globalizzazione liberista. Contro l'ingiustizia e la frantumazione noi dobbiamo costruire il senso della nostra iniziativa. La Fiom ha voluto titolare il proprio Congresso all'uguaglianza. Mai come oggi questa parola ha un senso moderno, costruttrice del futuro. Non solo perché le disuguaglianze esplodono e nella storia repubblicana del nostro Paese non ce ne sono state mai così tante. Ma anche perché il valore dell'uguaglianza è il solo che ci permette di affrontare l'offensiva contro i diritti e le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Che in questi anni è stata globale, fortissima e alla cui altezza non siamo sempre stati capaci di essere. Basti pensare a quanto poco la nostra rappresentanza – quella di tutto il movimento sindacale, nel nostro Paese, in Europa, nel mondo – sia riuscita a rispondere ai processi di ristrutturazione delle imprese e alle leggi che li hanno accompagnati tenendo uniti e con un progetto comune le lavoratrici e i lavoratori delle diverse aziende e dei diversi paesi che spesso sono invece finiti con l'essere messi in competizione tra di loro. Per questo, se vogliamo trarre un insegnamento dall'esperienza di questi anni, dobbiamo porre il tema della ricomposizione al centro del nostro metodo di lavoro: ricomporre ciò che il capitale ha diviso e frantumato, spezzare il meccanismo della concorrenza tra lavoratrici e lavoratori, ritrovare e mettere al centro della nostra azione l'interesse comune e l'azione comune. Il significato stesso del sindacato: insieme con giustizia.
Un sindacato che si proponga di combattere le ingiustizie e riunificare il lavoro per rappresentarlo non può che essere un sindacato confederale e perciò autonomo e indipendente. Dalle imprese e dalla politica. Sono temi non nuovi per la Fiom, sono stati posti fin dalla fine degli anni 90 e credo che oggi nessuno possa negare che sono stati praticati con rigore grazie alla democrazia che noi abbiamo posto al centro del rapporto con le lavoratrici e i lavoratori. Naturalmente per essere indipendenti dalle imprese e autonomi dalla politica bisogna avere un proprio punto di vista, una propria idea del lavoro e del mondo grazie alla quale ci si confronta con quelle di altri. Questa è la nostra idea di confederalità: la coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori, a partire dai luoghi della produzione e quindi dalle categorie, con le loro pratiche e i loro bisogni, che dà vita a un'idea complessiva di giustizia sociale e quindi a un'idea politica del mondo.
È con questo bagaglio che noi ci confrontiamo con gli altri, con le imprese e con i governi; con questo bagaglio contrattiamo, contrastiamo ciò che ci sembra ingiusto, proponiamo le soluzioni. Perché la democrazia è confronto, conflitto, sintesi tra diversi punti di partenza. È in questo senso che facciamo politica, nell'indipendenza dal quadro politico e dai governi, cosa che – naturalmente – non significa indifferenza. Noi non sottovalutiamo la mancanza in Italia ormai cronica di una rappresentanza politica del lavoro a livello istituzionale. Perché le leggi le fanno i parlamenti e in questi ultimi anni i lavoratori hanno visto governi di sinistra fare leggi di destra: lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle più volte, dalle leggi che hanno esteso la precarietà a quelle che hanno attaccato la contrattazione permettendo le deroghe ai contratti nazionali di lavoro. Ed è proprio in questo senso che, senza voler supplire ai vuoti della politica, il sindacato confederale deve avere una sua idea di società, a partire dalle materie che riguardano la condizione del lavoro, e non cedere a vincoli corporativi o aziendali, né di appartenenza ai partiti. L'unico vincolo per noi è quello che ci deriva dalle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, dalla loro rappresentanza e dalle regole democratiche che la devono governare. Ed è per questo che chiediamo da tempo la legge sulla rappresentanza, rivendicazione radicata nella Fiom e sostenuta da tutta la Cgil, questione posta anche nel Testo unico sulla rappresentanza di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria.
Il punto di partenza di ogni nostra analisi e azione sono sempre le condizioni di lavoro, che determinano i rapporti di forza, non solo nelle imprese ma a partire da lì a livello più generale. E la lunga crisi – che non abbiamo alle spalle perché è diventata un elemento strutturale di questa fase storica – ha ridefinito sia le condizioni di lavoro che i rapporti di forza. È stato un processo di selezione tra le imprese di cui molte aziende hanno approfittato per ridefinire i meccanismi di sfruttamento e controllo della forza lavoro. L'elenco è lungo: la precarietà del rapporto di lavoro, l'esplodere dei contratti di somministrazione, la catena degli appalti, l'attacco al contratto nazionale, le delocalizzazioni, il salario individuale, le leggi che hanno favorito i licenziamenti e le sanzioni, l'esigibilità e il comando su orari e prestazione, fino all'attacco al diritto di sciopero e alle pressioni contro la prevenzione che provocano gli incidenti, le morti e gli infortuni, le malattie professionali. In senso generale abbiamo dovuto contrastare una grande svalorizzazione del lavoro, dettata da una “cultura” che ne nega il lavoro come soggetto autonomo – sociale e politico – e diventa condizione necessaria per il suo impoverimento, per la sua riduzione a pura merce. Pensiamo a ciò che avviene nelle catene degli appalti. Solo nel nostro settore ci sono circa 400.000 lavoratori che lavorano in appalto e le catene si allungano sempre più ai subappalti, alle finte cooperative, fino al vero e proprio lavoro nero. E non si tratta sempre e solo di “lavoro povero” – in Fincantieri la maggioranza assoluta dei lavoratori sono in appalto e ormai siamo anche a forme di caporalato – ma gli appalti si estendono agli informatici, agli installatori e ai manutentori d'impianti. Tutte persone che subiscono una condizione di separazione, che all'interno di uno stesso posto di lavoro vivono condizioni salariali e normative diverse, che perciò non riescono a riconoscersi in una comunità al lavoro e in una possibile coalizione del lavoro. Questa organizzazione del lavoro non è una legge di natura. È una scelta politica dettata dalla legge dei costi e dalla necessità di controllare le persone non più attraverso un comando personale ma grazie a un meccanismo contenuto nella stessa organizzazione della produzione: metterlo in discussione significa contestare – e cercare un'alternativa – al modo in cui è organizzata quella data produzione. Così di fronte a condizioni parcellizzate, a contratti diversi per una stessa produzione, per noi si pone il problema di come riconquistare una chiave collettiva che superi la frammentazione e l'individualismo che provoca scarsa forza contrattuale, alimentando le disuguaglianze.
La condizione di lavoro ne ridefinisce la piramide, questo vale per tutte le tipologie di lavoro, dalle prestazioni più vincolate e faticose a quelle più professionalizzate, dai servizi alla linea di montaggio alle nuove tecnologie. È questa la situazione che dobbiamo affrontare e contrattare. Come in ogni momento cruciale della storia del movimento operaio si pone un problema di conoscenza e di riconquista dei saperi. È questa la sfida che il capitale ha posto su cui dobbiamo recuperare. Partendo dallo specifico dei rapporti di produzione e delle loro condizioni ma puntando a una visione d'insieme del sistema produttivo.
Oggi si fa un gran discutere di algoritmi. Non che gli algoritmi siano una novità dell'ultima ora, sono un sistema di calcolo integrato che gli informatici usano da decenni; ma la rivoluzione digitale è ormai diventata un sistema molto veloce di organizzare la produzione e d'integrarla con i servizi. Se ne ignoro la specificità perché non so come quel determinato algoritmo stia dentro un determinato processo produttivo e quindi non posso pormi il problema del suo controllo e di come organizzare la forza per condizionarne gli effetti, dal punto di vista dei lavoratori, è chiaro che mi ritrovo impotente di fronte a un meccanismo che in pratica mi spiazza. L'unica possibilità che noi abbiamo per contrattare la condizione del lavoro nell'appalto più degradato come nella più sofisticata filiera tecnologica, è quello di sempre del movimento dei lavoratori: ricostruire l'unicità della catena produttiva, riconquistare quel sapere collettivo e su questa base organizzare, contrastare, contrattare. È un problema di conoscenza e di organizzazione della conoscenza. Che in epoca di crisi strutturale, di vincoli di mercato, si misura con tutte le ricadute proprie del ricatto occupazionale e salariale, dalla sicurezza agli infortuni sul lavoro che crescono rapidamente eludendo spesso regole e leggi alla nocività, dalle malattie professionali alle tutele ambientali.
In questi anni tutta la legislazione del lavoro, in Italia e in Europa, ha cambiato segno: il giuslavorismo era nato per tutelare il soggetto più debole nel rapporto capitale-lavoro, cioè il singolo lavoratore di fronte all'impresa; ma negli ultimi anni abbiamo assistito a un rovesciamento di questo paradigma e la precarietà della condizione lavorativa – quella che da noi ha trovato il suo compimento nel Jobs Act – è diventata l'asse portante di tutte le scelte politiche sul lavoro, di tutte le leggi; dall'Italia alla Germania, dalla Francia alla Spagna questo è stato il tratto comune. Contemporaneamente sono state attaccate le pensioni e ogni qualvolta si trattava di fare cassa o di rispondere alle politiche d'austerity dettate da Ue, Fmi e Bce lì si andava a pescare e a tagliare; scuola e sanità pubbliche sono state ridimensionate via via nel ruolo (e nella spesa) a favore della formazione e dei servizi privati.
E poi, naturalmente, c'è stato – e c'è – l'attacco al contratto nazionale, vero cardine della svalorizzazione del lavoro e della sua rappresentanza. Per i metalmeccanici, per la Fiom, è un tema ben noto e da tempo. Da quando all'inizio degli anni 2000 abbiamo capito sulla nostra pelle che le imprese non avevano più bisogno di contrattazione, anzi la consideravano un ostacolo al loro obiettivo di avere dei lavoratori complici e in concorrenza con quelli di altre imprese. L'abbiamo visto esplicitamente nella stagione dei contratti separati, alla Fiat, in tante vertenze con le multinazionali. Oggi, sempre più frequentemente, il contratto nazionale di lavoro è sotto attacco e si cerca di ridurne la portata.
Noi abbiamo rifiutato e contrastato il modello che dalla Fiat voleva imporsi a tutta l'industria metalmeccanica. È un modello che mette in contrasto l'occupazione con i diritti perché li considera incompatibili con la vita di un'impresa, che – in sintesi – mette la Costituzione fuori dai cancelli delle fabbriche. Non solo la Corte Costituzionale, ma anche le vicende di questi anni, ci hanno dato ragione, vista la realtà dell'occupazione oggi negli stabilimenti Fca e Cnhi, dove c'è ancora tantissima cassa integrazione, dimostrazione che sacrificare i diritti e le condizioni di lavoro non garantisce di per sé un'occupazione stabile e sicura.
Ma il punto vero da svelare su questo attacco al contratto nazionale di lavoro è quello che le imprese pretendono l'esigibilità del lavoro nel senso che vogliono essere le sole a controllare la prestazione, i suoi modi e i suoi tempi; insomma, la vita delle persone dentro gli stabilimenti. Lavori tanto quando c'è da lavorare tanto, lavori niente quando non c'è da lavorare, ti spostano da uno stabilimento all'altro, decidono dei turni. Per questo propongono un modello di relazioni sindacali basato sul comando, sul rapporto individuale, sulla cosiddetta fidelizzazione all'impresa, di cui il salario – nelle voci che lo compongono – è un aspetto importante ma non unico; si pensi al welfare aziendale, che se non governato e contrattato collettivamente diventa un benefit deciso unilateralmente dall'impresa, si pensi ai superminimi individuali che tolgono risorse al salario collettivo e contrattato. Sull’esigibilità così intesa Marchionne ha imposto i plebisciti a Pomigliano e Mirafiori (dove, come sappiamo, è stato tutt’altro che un plebiscito) e questo è diventato il fulcro del Contratto specifico di Fca che viene riproposto in varie forme dalle multinazionali pur senza uscire dal Ccnl. Il punto fondamentale non è e non è mai stato il costo del lavoro – nei metalmeccanici calcolabile tra il 2 e il 10% dei costi di produzione – ma l’affermazione del potere discrezionale dell'azienda sul lavoro. Questo è il nodo che ci siamo trovati di fronte negli ultimi vent’anni e su questo la nostra risposta è stata netta nella difesa dei due livelli contrattuali, del ruolo dei delegati negli stabilimenti e per conquistare le regole democratiche sulla validazione di accordi e contratti. Perché senza tutto questo il sindacato in fabbrica fa fatica a contrattare, dagli orari alla produttività e alla fine sui nodi decisivi del rapporto di lavoro rischia di non avere più voce. Lo abbiamo fatto con i nostri limiti e con rapporti di forza per nulla favorevoli. Ma lo abbiamo fatto convinti che tagliare i diritti in fabbrica comporti conseguenze negative per tutta la società.
Quando la Costituzione viene espulsa dalle fabbriche c'è un impoverimento complessivo della democrazia del Paese, esattamente il contrario di ciò che era successo negli anni 70 quando abbiamo portato la Costituzione nei posti di lavoro, realizzando ciò che Di Vittorio auspicava fin dalla Costituente, la necessità che il cittadino lavoratore godesse dei diritti costituzionali anche in fabbrica, mentre allora quei diritti si fermavano ai cancelli. E per questo, con questa coscienza, consapevoli che spesso ciò che succede tra i metalmeccanici anticipa ciò che poi accadrà al Paese, abbiamo intrapreso “La Via Maestra”, la difesa della Costituzione, insieme ad associazioni come Libera, Libertà e Giustizia, Arci e tanti altri, insieme a personalità come Stefano Rodotà.
È questo il quadro in cui la Cgil sta svolgendo il suo Congresso. Per rispondere alla svalorizzazione del lavoro, alle ingiustizie e alla frammentazione sociale che ha provocato, abbiamo puntato sul coinvolgimento e sulla partecipazione. Su un'inversione di tendenza. Spesso si parla di crisi del sindacato: è ovvio che in un mondo in cui le condizioni dei lavoratori peggiorano e in cui sono più ricattabili, anche chi li rappresenta non può stare tanto bene. Inoltre il movimento sindacale nel suo complesso, in Italia come in Europa, non ha saputo superare i limiti dei propri orizzonti – settoriali e nazionali. Se oggi avessimo fatto dei passi in avanti nella costruzione di un sindacato europeo – una vecchia battaglia della Fiom, un proposito che rimane sempre attuale – avremmo in mano strumenti più efficaci per difendere i lavoratori dalla frammentazione e dalla solitudine. Ma un sindacato deve avere la lucidità di affrontare la realtà e di trovare delle soluzioni adeguate. Partendo dalla sua natura di coalizione tra lavoratori, anche quando deve fare i conti con processi di trasformazione radicale, tecnologiche e produttive. Per quanto ci riguarda direttamente, da quando l'industria è industria, cioè da quando il lavoro è vincolato, il problema per una coalizione dei lavoratori è riconoscere il processo produttivo e riconoscere se stessi in esso senza annullare la propria soggettività. Questo è un altro fronte di lotta, perché l'annullamento della soggettività del lavoro ha segnato tutti questi anni. Partendo dall'organizzazione d'impresa per arrivare alla politica e alla cultura, il lavoro è stato cancellato dalla scena pubblica, persino negato nella sua esistenza materiale, salvo essere rappresentato come dramma individuale. È una mistificazione della realtà, una bugia di successo. Noi nei contratti firmati negli ultimi due anni – Federmeccanica/Assistal, Unionmeccanica, Artigiani, Cooperative, Orafi – rappresentiamo due milioni e mezzo di metalmeccanici: se non altro questi numeri dovrebbero indicare una solida esistenza in vita. I metalmeccanici producono l’8% del Pil nazionale e sono il 47% del settore manifatturiero – senza contare quindi ad esempio l’informatica – generano oltre il 48% delle esportazioni e rappresentano il 42% degli occupati nell’industria del nostro Paese; eppure negli ultimi vent'anni da più parti ci siamo sentiti raccontare la favola della scomparsa del lavoro industriale, di quello manuale in particolare, perché ormai tutto diventava “cognitivo”, perché le produzioni industriali migravano verso altre parti del mondo e qui ne rimanevano solo i residui. Ora lo stesso schema logico viene applicato all'avvento dell'industria 4.0: nei Paesi ricchi il lavoro umano è destinato a scomparire, “la fabbrica”, nel senso più ampio del termine, è roba residuale. Una grande bugia, perché naturalmente si continuano a produrre vecchi e nuovi prodotti, l'innovazione cambia il quadro, il lavoro cognitivo e quello vincolato sono sempre più intrecciati: vale per il Wcm in Fca e in Leonardo, nell’elettrodomestico e in siderurgia, nell’informatica e in tutto il resto della metalmeccanica, come vale per le piattaforme della logistica e dei servizi. La realtà è che semplicemente cambia la piramide del lavoro e la sua divisione internazionale. Eppure la narrazione è un altra. Si tratta di una scelta politica che serve a negare la soggettività del lavoro, il suo ruolo decisivo e, con esso, il suo valore sociale e il suo potenziale rivendicativo. Una grande operazione ideologica che ha accompagnato e aiutato tutte le ristrutturazioni di questi anni, insieme alle legislazioni compiacenti. Il lavoro deve essere ridotto a semplice merce, a elemento d'impresa, a capitolo di spesa. Non può avere autonomia, non può avere voce, tanto meno una voce unica, quella che nasce dalla coalizione dei lavoratori, cioè dall'organizzarsi in sindacato.
Questo è il quadro. Di fronte al quale noi dobbiamo lavorare per riconoscere – e far riconoscere ai diretti interessati – gli elementi comuni della condizione lavorativa. Perché se la conoscenza del processo produttivo e delle condizioni lavorative sono il nutrimento del rapporto con i lavoratori, la soggettività che interpreta quelle condizioni, scova e spiega le connessioni tra le diverse figure lavorative di uno stesso processo è la condizione fondamentale per l'esistenza della coalizione dei lavoratori, il nostro modo di essere e fare sindacato.
Nelle migliaia di assemblee congressuali che abbiamo fatto, pur incontrando e partendo da storie anche diverse, abbiamo verificato quanto sia indispensabile costituire un nucleo comune in cui rimettiamo assieme le intelligenze e le conoscenze, per evitare che la frantumazione attacchi ed eroda le fondamenta e la natura stessa del sindacato.
Di un sindacato confederale, che unifica e fa sintesi tra storie e condizioni specifiche diverse. La vera scommessa che abbiamo di fronte è continuare a dare rappresentanza collettiva a un mondo del lavoro sempre più parcellizzato. Questo congresso e la nostra recente storia dimostrano che è possibile, che la Cgil può riuscirci.
Tra Fiom e Cgil negli anni recenti ci sono state divergenze non irrilevanti. Sul ruolo dei contratti, su importanti vertenze, sulla relazione col mondo politico, sul rapporto democratico con i lavoratori. Abbiamo avuto letture diverse della fase, come spesso è accaduto nella nostra storia, in una dialettica tra Fiom e Cgil che un tempo e con un po' di eufemismo si definiva come “un confronto franco e fraterno”. Ma è sempre stata una discussione di merito, un confronto tutto sindacale e partendo da punti di vista distinti abbiamo conquistato un Congresso unitario. Unitario che –- vorrei ricordare a qualche compagno di altre categorie in questo momento con la matita rossa sempre in mano verso la Fiom – non significa unanime, ma in grado di valorizzare le differenze, i percorsi, le autonomie di categoria, allargando e non certo mettendo sotto tutela la capacità di iniziativa e partecipazione nella relazione vitale con i lavoratori e la società civile.
La confederalità è la prima delle condizioni per costruire la coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori, nella capacità di costruire dei percorsi comuni sapendo che ognuno ci porta ciò che è e ciò che sarà, che ogni categoria, ogni territorio ha una sua specificità e una sua missione che non si cancellano. Ma la ricerca di sintesi oggi è fondamentale, oggi ancor più di ieri di fronte alla frantumazione del mondo del lavoro.
In questo percorso, partendo da punti diversi, abbiamo costruito le tappe di una nuova unità. Non è stata un'operazione studiata a tavolino, non è stata l'elaborazione di una strategia di palazzo: è stato un viaggio vissuto con la nostra gente sui bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, nel confronto con le imprese e nello scontro con un quadro politico ostile alle ragioni del lavoro. È stato così per la carta dei diritti, per riconquistare ciò che hanno tolto allargando il campo della rappresentanza e delle tutele ai nuovi lavoratori del XXI secolo, quelle figure che nemmeno esistevano quando avevamo conquistato lo Statuto dei lavoratori. È stata la ripresa di dialogo nelle assemblee e dell'iniziativa sulle pensioni dopo la legge Fornero e la nostra scarsa reazione ad essa – che i lavoratori ci hanno sempre rimproverato – a riaprire la connessione della Cgil con la nostra gente. Abbiamo costruito insieme la raccolta di firme per tre referendum contro altrettante norme del Jobs Act, costringendo l'allora governo Gentiloni a cambiare le norme sul lavoro a chiamata e sulla legislazione sugli appalti, mentre sulla riconquista dell'articolo 18 non abbiamo potuto votare perché il quesito è stato bocciato dalla Corte costituzionale. Abbiamo difeso la Costituzione contribuendo alla vittoria referendaria con cui è stata bocciata la legge che la voleva modificare.
Questa è stata la conquista di un Congresso unitario, in un percorso dentro il quale il confronto è servito a cambiare un po' tutti e a crescere insieme. Dovremmo essere felici e orgogliosi di questo percorso, perché in esso la Confederazione è cambiata e cresciuta.
È questo il metodo che dovremmo applicare alla ricostruzione di una nuova coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori per superare le divisioni che impediscono l'espressione di quella soggettività del lavoro indispensabile per poter criticare efficacemente l'esistente e cambiarlo. Per porre rimedio a quei blocchi che sono ben visibili nel rapporto che con il sindacato hanno i soggetti più colpiti dalle disuguaglianze e dalla frammentazione sociale, difficoltà di relazione e sono leggibili persino nei dati sul tesseramento. Le donne in Fiom sono sempre state attorno al 21-22% sul totale degli iscritti, ora sono scese al 15% mentre le lavoratrici metalmeccaniche sono circa il 20% della categoria; i giovani sotto i 35 anni sono il 15%, anche perché l’ingresso nel lavoro stabile è sempre più posticipato e bloccato dall’aumento dell’età pensionabile; i migranti sono quasi 50.000, tutti dal centro-nord al nord, soprattutto nei lavori più gravosi e nelle piccole imprese. Sono dati che indicano come in questi anni qualcuno è diventato più diseguale degli altri. Se a questo aggiungiamo che fra gli iscritti gli impiegati, i tecnici e gli informatici sono molto meno della reale consistenza nella categoria e che gli iscritti complessivamente sono molto meno di quanti votano Fiom alle elezioni delle Rsu, ci rendiamo conto che possiamo e dobbiamo fare del tesseramento e dell'allargamento del consenso un punto centrale del nostro impegno sindacale. Proprio per la strategicità della rappresentanza e per dare maggiore forza ai delegati nella costruzione delle politiche della Fiom, proponiamo al Congresso che l’assemblea generale, per noi assemblea generale del Comitato centrale, dove i delegati pesano per oltre il 50%, sia l’organismo convocato di norma ogni mese.
La nostra esperienza quotidiana ci insegna come la reazione della società alle crisi economiche e sociali non sia sempre positiva. Anzi, prendono piede e raccolgono consenso pulsioni pericolose che rivitalizzano antichi fantasmi. Di fronte alle difficoltà e in assenza di un'alternativa credibile, la ricerca del capro espiatorio rappresenta la più facile delle soluzioni. Dobbiamo interrogarci su quante responsabilità abbia la nostra parte culturale sul vuoto in cui si ripropone la più classica delle guerre tra i poveri, il rovesciare tutto il proprio disagio – economico, sociale, esistenziale – sul diverso da sé. Contro i migranti viene proposta un'alleanza che divide il mondo del lavoro nel nome del “prima gli italiani” basandosi sulla bugia dell'invasione. Non c'è un dato che la giustifichi, anzi, ma i nostri compagni nelle fabbriche constatano ogni giorno quanto sia difficile smontare quel luogo comune e indirizzare il conflitto verso le vere ragioni del disagio e i suoi veri responsabili.
Eppure anche qui, con tutte le difficoltà che la nostra campagna antirazzista incontra, verifichiamo come sia il lavoro il vero campo di contesa. Del resto la legge che regola (e seleziona) la presenza delle persone extracomunitarie in Italia, la Bossi-Fini, è una legge sul lavoro: chi perde il lavoro non può più rimanere in Italia, perde ogni diritto di cittadinanza, di fatto è una legge varata nell'era della precarietà, la variante razzista della precarietà. Noi la battaglia antirazzista e quella per i diritti le dobbiamo tenere assieme, come le tiene insieme, all'opposto, il Decreto Sicurezza rendendo i migranti tutti clandestini e contemporaneamente attaccando il diritto a manifestare. La Fiom li ha tenuti insieme andando a Macerata o sostenendo Mimmo Lucano e l’esperienza di inclusione di Riace. Dobbiamo capire e far capire che la scelta è tra la centralità della persona e quella del mercato, tra la centralità del lavoro e quella dell'impresa; che quando si intaccano i diritti universali di qualcuno, qualcun altro può illudersi di essersi salvato ma prima o poi arriva il conto anche per lui. Così la lotta contro il razzismo non va affrontata solo come una campagna di solidarietà ma come la necessità di spezzare la concorrenza tra lavoratori, partendo dalle condizioni di lavoro. Anche qui – in maniera analoga a ciò che succede sul terreno contrattuale – l'avversario è l'idea corporativa che pretende dai lavoratori italiani la complicità con il potere contro i lavoratori stranieri.
Ridare soggettività al lavoro significa oggi battersi contro la disintermediazione – il tentativo di bypassare la rappresentanza sociale – che questo governo persegue in continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di destra, con l'obiettivo di cancellare la soggettività collettiva del lavoro, il sindacato confederale, appunto; noi, in altre parole.
Da questo punto di vista la nostra esperienza con il governo in carica ha dei tratti significativi che è bene riassumere. Noi – tutta la Cgil – abbiamo avuto duri scontri con i precedenti governi, da Berlusconi a Gentiloni, passando da Monti e Renzi e con il Pd da lui guidato. Come è noto, abbiamo criticato e sviluppato un'opposizione via via crescente contro le politiche sociali ed economiche degli ultimi governi. A partire dalle ricette di austerity imposte dall'Europa – che non ci è mai piaciuta se ridotta a soggetto finanziario che penalizza l'aspetto sociale di un'auspicabile unione politica –, passando per il pareggio di bilancio in Costituzione e culminando in uno scontro vero e proprio quando hanno attaccato la Costituzione, varato il Jobs Act e cancellato dell'articolo 18. Al punto che contro tutto questo, per la prima volta nella sua storia, la Cgil ha promosso la raccolta di firme per dei referendum abrogativi. La nostra azione è il risultato di una lotta di carattere sindacale, una lotta basata sul merito delle cose, propria di un sindacato che per la sua natura confederale interviene su questioni di carattere generale – e quindi fa politica, interferisce con l'azione di partiti e governi.
La Lega e i 5stelle hanno vinto le ultime elezioni come partiti antisistema, alternativi a tutto ciò che veniva presentato come élite dominante, dall'Europa ai partiti tradizionali. Hanno vinto presentandosi in due schieramenti politici diversi, entrambi puntando sul disagio sociale – quindi anche per ciò che aveva fatto il centrosinistra al governo e che in generale la sinistra politica non era stata in grado di rappresentare – e entrambi articolando un aspetto particolare del malcontento dell'opinione pubblica: la Lega cavalcando l'onda sovranista e nazionalista della paura per tutto ciò che appare ostile solo perché “lontano” e “diverso”, il Movimento 5stelle puntando sulla critica alle caste e alla loro corruzione. Nello stallo provocato da una legge folle elettorale, Lega e 5stelle hanno sottoscritto tra loro un contratto di stampo “privatistico” in sostituzione di un vero e proprio programma di governo, rendendo il confronto con soggetti esterni a loro quasi impossibile.
Sappiamo bene che molti lavoratori, molti nostri iscritti, hanno votato per Di Maio e Salvini, e questo ovviamente non mette in discussione la nostra autonomia e indipendenza. Anzi, ci chiede di essere fermi sui princìpi fondamentali e di giudicare nel merito l’azione del governo.
Sicuramente non ci piace proprio l’attacco alla libertà delle donne che ciclicamente si ripete nelle fasi sociali regressive e che in questo caso ha trovato espressione, in particolare, nella riscrittura del diritto di famiglia contenuta nel Ddl Pillon, contro il quale le associazioni, i movimenti e i sindacati hanno subito reagito.
La legge di bilancio sta dimostrando le divisioni di fondo che separano Lega e 5stelle al di là delle dichiarazioni. A partire dal Def, in particolare su pensioni e reddito di cittadinanza, i rispettivi cavalli di battaglia elettorale dei due partiti al governo.
La manovra economica in discussione è ancora molto confusa e i suoi singoli capitoli cambiano di giorno in giorno. Cambia – o così sembra, visto che niente pare definitivo – la sua cornice generale, il famoso rapporto deficit/Pil su cui è in atto un complicato – ma pure confuso – confronto con le autorità finanziarie dell'Unione europea. Il rapporto Censis di qualche giorno fa ci parla di un’Italia ancora più incattivita, anche per il cambiamento che il governo aveva promesso e che ancora non arriva. Salvini l’8 dicembre è sceso in piazza a Roma consapevole di questo, per cercare il consenso a trattare con l’Europa dilazionando le promesse, per rinsaldare con la piazza i vincoli dell’italianità; ha poi incontrato Confindustria, cosa del tutto irrituale per un ministro dell’Interno, mentre il premier Conte ha udito senza interlocuzione Cgil, Cisl e Uil. In modo analogo Di Maio incontra solo le imprese sulla questione dell’ecotassa e lascia fuori la porta del ministero le delegazioni di lavoratori.
Il governo non sembra interessato a dare ascolto alle ragioni del lavoro, contenute nel documento unitario. Ecco, questo è l’elemento che si ripete, pericolosissimo. Anche la Francia il movimento dei “gilet gialli”, cavalcato a destra e sinistra, ci dice come la volontà di ignorare le organizzazioni sociali, nell’impoverimento porta alla rivolta che si sostituisce al confronto e alla partecipazione democratica.
L’8 dicembre però l’attenzione di qualche dirigente di categoria Cgil si è concentrata nello sbeffeggiare una manifestazione di popolazione – la No Tav a Torino – cui la Fiom ha partecipato perché da sempre considera importante il valore democratico e il contenuto sul modello di sviluppo di quel punto di vista. Sarebbe importante riconoscere la voglia e la capacità di partecipazione intorno a noi come un valore, anche magari in modo dialettico, anziché di contribuire ad allargare le distanze.
Per tornare al Def, noi non abbiamo particolare passione per i pareggi di bilancio e il rigore finanziario; osserviamo che più che far diventare qualche decimale il simbolo dell'indipendenza nazionale sarebbe bene valutare la quantità del deficit misurandola con la qualità delle misure da mettere in campo, con come verrà usato lo sforamento, se per investire nel lavoro o per avere un argomento in più in campagna elettorale. Il Def – per quel che ne sappiamo a oggi – non contiene alcuna vera svolta sul terreno dello sviluppo e della ricerca, non cambia di un millimetro la totale assenza di politiche industriali che ha caratterizzato tutti i governi degli ultimi vent'anni, quelli che hanno segnato una contrazione del peso industriale ed economico del nostro paese e segnato un deficit occupazionale che la crisi ha reso drammatico.
Della riforma pensionistica Fornero abbiamo già detto più e più volte tutto il male possibile: in sintesi ha sacrificato il futuro e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori sull'altare dell'austerity, rispondendo in maniera supina e ottusa al diktat delle autorità finanziarie contenuta nella lettera dell'estate 2011 inviata dalla Bce al governo italiano. È una riforma da rifare completamente. Ma la soluzione “quota 100” risponde positivamente ai problemi di una limitata fascia di lavoratori, mentre non c’è alcuna soluzione positiva per le donne, i giovani, e per chi ha avuto lunghi periodi di cassa integrazione o disoccupazione, non cambia sostanzialmente la prospettiva di chi ha iniziato a lavorare molto presto. E non tiene conto che i lavori non sono tutti uguali. Quello che noi da tempo chiediamo è una riforma che abbassi la soglia dell'età pensionabile, oggi la più alta d'Europa, degli anni di lavoro per maturare il diritto, e metta in campo le flessibilità necessarie e il riconoscimento dei lavori di cura, anche attraverso la fiscalità generale a correttivi del contributivo.
Quanto al reddito di cittadinanza, la Fiom da tempo ha maturato una posizione favorevole a un intervento pubblico di sostegno a chi non possiede un lavoro e un reddito. Perché in una fase storica in cui a moltissime persone – non solo giovani – è negato il diritto al lavoro che la Costituzione sancisce, è necessario che lo stato garantisca un livello di vita almeno dignitoso, quando la disoccupazione è involontaria: nessuno deve essere condannato all'indigenza perché non riesce a trovare un'occupazione. Il diritto al reddito di chi non ha lavoro deve andare insieme alla creazione delle condizioni affinché il lavoro ci sia davvero, sia accessibile, sia tutelato nei momenti di crisi, sia dignitoso; altrimenti si trasforma in sussidio di povertà accettata come strutturale e inevitabile. Se continuiamo a non avere delle politiche industriali degne di questo nome per un paese che è la seconda manifattura d'Europa, se la precarietà accentuata dal Jobs Act viene fronteggiata solo con misure tampone, se non si rimette mano agli ammortizzatori sociali ripristinando le garanzie tagliate dai precedenti governi e collegandoli alla formazione e alla riduzione degli orari di lavoro, se non si inverte la rotta sulla restrizione dello stato sociale, allora il reddito di cittadinanza diventa anche quello solo uno spot elettorale. Noi chiediamo un intervento pubblico che faccia da volano anche al privato per la struttura industriale di questo paese, da rendere ecosostenibile e innovativa, per la manutenzione straordinaria del territorio, per la ricerca, la formazione, la scuola e la sanità pubblica, aprendo una trattativa con l’Europa su cosa escludere dai parametri del fiscal compact.
Proprio perché noi conosciamo l'importanza dell'intervento del governo in politica economica – l'abbiamo sempre sostenuto e anche richiesto – quando è il caso, ne riconosciamo anche il ruolo positivo. Come segretaria della Fiom in questi mesi ho avuto l'opportunità di partecipare direttamente ad alcune importanti trattative e valutare il ruolo che ha assunto in esso il ministero dello Sviluppo economico e del Lavoro. Penso, ad esempio, alla vertenza Ilva, dove i lavoratori e i sindacati hanno ottenuto un buon risultato, che all'inizio era abbastanza insperato, considerate tutte le diverse difficoltà della situazione, dallo stato dell'azienda a quello dell'ambiente. Ci siamo riusciti perché, dall'inizio alla fine, abbiamo tenuto fermi alcuni punti: nessun licenziamento, conferma dell'articolo 18, no a ribassi salariali, bonifiche e tutele ambientali.
In questa trattativa Di Maio si è correttamente comportato da ministro dello Sviluppo economico, ha mediato positivamente tra le parti, ma il risultato della trattativa, compresa la conferma dell'articolo 18, ce la siamo conquistati da soli e a questo punto, visto che ha apprezzato il risultato, chiediamo al ministro di reintrodurre per tutti l'articolo 18.
Un altro caso positivo è stata la vertenza Bekaert, in cui il ministero ha agito sotto la spinta della mobilitazione dei lavoratori. Come metalmeccanici a partire da lì abbiamo posto per tutti i lavoratori il tema degli ammortizzatori sociali falcidiati dal Jobs act e alla nostra mobilitazione il ministero ha risposto contribuendo alle soluzioni.
Naturalmente un analogo giudizio non possiamo darlo, ad esempio, su ciò che sta succedendo nella vertenza dell'Industria italiana autobus, in cui alle iniziali attenzioni e promesse non hanno fatto seguito impegni e fatti concreti; e, altrettanto naturalmente, noi possiamo solo dire che non faremo alcun sconto a nessuno e che la mobilitazione dei lavoratori sarà sempre più forte per dare un futuro, lavoro e occupazione stabile a due stabilimenti importanti a cui, in qualunque altro paese d'Europa – considerato quello che producono e il ruolo strategico che dovrebbero avere la mobilità collettiva e il trasporto pubblico – sarebbero già stati garantiti i finanziamenti e le commesse per funzionare a pieno ritmo.
Sono solo alcuni riferimenti alla nostra più recente esperienza, ma come si vede, i nostri sono giudizi di merito e sul merito.
Queste vertenze ci hanno visto insieme a Fim e Uilm e l’unità dei lavoratori ne è stata un punto di forza. L’unità è un valore da costruire insieme alle lavoratrici e ai lavoratori, e questa costruzione ha come cemento la pratica della democrazia. La democrazia è la principale condizione dell'unità sindacale, insieme alla partecipazione di tutti i lavoratori. È stato su questo che, in passato, abbiamo conosciuto la più importante stagione di unità e pratica sindacale, quando attorno ai delegati abbiamo costruito delle strutture unitarie che si sono nutrite della spinta dal basso, grazie alla partecipazione di lavoratrici e lavoratori che sono cresciuti nella pratica sindacale di tutti i giorni, dai delegati ai dirigenti sindacali. Una grande scuola di partecipazione sociale che ha dato dei frutti importanti di cui ancor oggi si nutre il nostro Paese, in una stagione di conquiste non solo sindacali, ma anche sociali, civili, politiche.
È quella lezione che dobbiamo ricordare per rilanciare il progetto unitario, il sindacato come insieme, come coalizione, delle lavoratrici e dei lavoratori. Ed è proprio ricordando quella lezione e alla luce delle esperienze più recenti, anche di quelle precipitate in aspre divisioni e persino in rotture, che consideriamo la democrazia l'unica pratica possibile per l'unità del mondo sindacale. Finita l’epoca dei partiti che hanno contribuito con culture diverse alla Costituzione repubblicana e con questa al rapporto cinghia di trasmissione partiti-sindacato, le diverse culture sindacali rappresentate dalle Confederazioni possono trovare sintesi radicandosi nella relazione democratica con i lavoratori, a partire dalla consultazione e dal voto su accordi e contratti che li riguardano. Su questo abbiamo punti di vista diversi con Fim e Uilm: per noi il sindacato – e il contratto – che risponde solo agli iscritti è un'associazione privata di lavoratori, mentre crediamo che il sindacato debba rispondere di ciò che fa a tutti i lavoratori che vuole rappresentare e che i contratti che sottoscrive debbano nascere da una consultazione generale ed essere votati da tutte e tutti.
Sono modi d'intendere il sindacato diversi, ma non crediamo incomunicabili, che possono produrre esiti distinti. Del resto abbiamo due esempi macroscopici che confermano questa duplicità: il contratto specifico di Fca – su cui ci siamo divisi e su cui rimaniamo distanti – e il contratto nazionale della nostra categoria, che abbiamo costruito e firmato insieme. Nel primo caso i lavoratori non hanno votato, nel secondo sì. Eppure i protagonisti sindacali di queste due vicende sono gli stessi: Fim, Fiom e Uilm. Per cercare di capire il perché e le differenze è necessario entrare nel merito.
È noto a tutti che il Ccsl è nato dalla volontà dell'allora Fiat – ora Fca – di avere il totale controllo sulla prestazione lavorativa con una ristrutturazione produttiva basata sul taglio dei tempi di lavoro e delle pause, sulla cancellazione dei due livelli contrattuali ridotti a uno solo, sulla sostanziale abrogazione del diritto di sciopero, con l'espropriazione di qualunque ruolo contrattuale dei delegati e ponendo al sindacato la condizione di condividere tutto questo, pena la sua espulsione dagli stabilimenti e il suo disconoscimento come rappresentante dei lavoratori. Noi siamo potuti rientrare in Fiat solo grazie a una sentenza della Corte Costituzionale e solo alcuni anni dopo, mentre – nel frattempo – Fiat è uscita da Confindustria, i lavoratori non hanno più il contratto nazionale di lavoro e vivono un “regime speciale”, la promessa sulla piena occupazione per tutti gli stabilimenti italiani – sulla cui base era stato proposto lo scambio diritti-lavoro – che all'inizio era solo un ricatto, ora si è semplicemente rivelata una grande illusione. Tutto questo è storia. Nel frattempo le nostre delegate e i nostri delegati – in una condizione difficilissima – hanno continuato a battersi. La nostra rappresentanza è stata resa visibile in tutta la sua consistenza nelle elezioni per i rappresentanti sindacali sulla sicurezza, in cui la Fiom è risultata il primo sindacato nell'insieme del gruppo Fca e Cnhi. Con quelle delegate e quei delegati abbiamo costruito una piattaforma rivendicativa per il rinnovo del Ccsl frutto di decine di assemblee e votata da 23.000 lavoratori. Piattaforma che abbiamo chiesto di discutere in un tavolo comune a tutti, azienda e sindacati. Abbiamo proposto ciò che era già successo per il contratto nazionale di Federmeccanica, quando abbiamo iniziato a trattare partendo da piattaforme diverse. Questa nostra proposta non è stata accettata, e non è un bene, ma la trattativa è comunque iniziata, parallelamente al confronto sul piano industriale di Fca e Cnh e sul futuro occupazionale degli stabilimenti italiani, ancor oggi interessati da cassa integrazione e contratti di solidarietà, con prospettive occupazionali e produttive tutte da verificare. Un confronto che per noi deve necessariamente proseguire su entrambi i piani, perché sarebbe assurdo discutere di un contratto di gruppo che incorpora il Contratto nazionale – perché questo è il Ccsl – a prescindere dall'urgenza maggiore che interessa oggi i lavoratori di Fca e Cnhi, quella occupazionale. Per questo continuiamo a chiedere un tavolo al governo che metta insieme tutte le parti sociali con al centro l’industria dell’auto, il lavoro e la mobilità sostenibile.
In questi incontri abbiamo verificato la disponibilità aziendale a discutere della nostra piattaforma, a partire dall'emergenza salariale e dalla nostra richiesta di aumentare la paga base – ferma dal 2013 – e le altre indennità. Contemporaneamente stiamo verificando come sul sistema di relazioni sindacali e sulla negazione di un ruolo contrattuale per i delegati negli stabilimenti, le distanze restino tutte. In questi 8 anni la Fiom, nonostante l’esclusione e la sanzione permanente ai delegati, per senso di responsabilità verso i lavoratori ha svolto il suo ruolo di rappresentanza nell’affrontare e discutere cassa integrazioni e contratti di solidarietà. Oggi continuiamo a chiedere a Fim e Uilm di farsi garanti anche in Fca e Cnhi dell’accordo interconfederale che prevede la presenza a un unico tavolo di trattativa anche con piattaforme diverse. Noi siamo aperti a una discussione sulle procedure di raffreddamento – del resto le abbiamo contrattate in diversi accordi di secondo livello – e, a partire anche da un confronto su quanto informalmente avviene concretamente negli stabilimenti, a ragionare insieme sul ruolo dei delegati nel confronto in fabbrica. La produzione per funzionare ha sempre più bisogno del ruolo attivo dei lavoratori e dei delegati, non certo del comando. Per questo va sgombrato il campo da sanzioni e divieto di sciopero. Perché non c’è partecipazione senza democrazia.
Ciò che la Fiat ha imposto nel 2010 non è invece passato nell'ultimo Contratto nazionale dei metalmeccanici. Federmeccanica, all'inizio della trattativa, chiedeva di cancellare nei fatti il doppio livello contrattuale, compenetrando i due livelli a partire dal salario. Di fronte a una crisi che aveva terremotato l'industria, le imprese puntano a differenziare il più possibile le condizioni salariali e normative della categoria in chiave aziendale, tra i pochi che possono redistribuire qualcosa e i tanti per cui non c'è nulla. Noi siamo riusciti a respingere unitariamente questa proposta che avrebbe segnato semplicemente la fine del contratto nazionale di lavoro. Abbiamo salvaguardato i due livelli contrattuali, perché solo questo ci permette di praticare l'uguaglianza dei diritti, di unire una categoria che va dai siderurgici agli informatici impedendo la frantumazione in decine o centinaia di contratti di settore. Grazie a questa unità – conquistata e difesa negli anni – abbiamo cinque contratti nazionali (da cui restano esclusi Ccsl e Confimi) per oltre due milioni e mezzo di lavoratrici e lavoratori ed è questa la forza dei metalmeccanici, l'essere tutti insieme in una categoria fatta di tanti mestieri diversi: il contrattone dei metalmeccanici è esempio di confederalità, un patrimonio che dobbiamo tenerci ben stretto.
In questo senso l'aver confermato il Contratto nazionale rappresenta una garanzia per il futuro, tiene aperta la possibilità di difendere il potere d'acquisto del salario di base per tutti. E anche se nessuno vuole nascondere come l'aumento salariale sia stato minimo, abbiamo posto al riparo un principio fondamentale che dovremo agire nel prossimo rinnovo – e non sarà facile – perché noi crediamo che i salari reali debbano crescere per tutti nel Contratto nazionale, perché l'impoverimento del lavoro è una realtà che ci tocca da vicino. La questione salariale è posta, sapendo che nessuno ci regalerà nulla, che dovremo riconquistare un potere d'acquisto adeguato.
Il nostro Contratto nazionale prevede esplicitamente per la sua validazione – e quindi riconosciuto anche dalle controparti – il voto delle lavoratici e dei lavoratori in applicazione del Testo unico. È un contratto nazionale che non ha fatto scambi sul salario né in termini di orari e festività né creando doppi regimi o prevedendo restituzioni.
Sui contratti nazionali e di secondo livello – salari, diritti, orari, welfare – sarebbe molto utile aprire una discussione vera e documentata. Anzi, chiedo alla Confederazione di istruirla il prima possibile perché serve a tutti, magari al riparo dall’uso strumentale, bugiardo e poco dignitoso, che ne stanno facendo alcune categorie in chiave di battaglia congressuale. Ciò in assoluta sintonia con i nostri compagni del secondo documento. Noi per nostro conto abbiamo bisogno di portare a verifica il carattere sperimentale sul salario che c’eravamo dati. Infatti l’estensione della contrattazione di secondo livello, tranne che in alcuni casi virtuosi, non c’è stata, e anche i grandi gruppi resistono a redistribuire ai lavoratori una quota della ricchezza realizzata. Grandi gruppi, dove in questi anni abbiamo realizzato buoni e coraggiosi accordi di riorganizzazione anche legati all’innovazione che hanno garantito il lavoro (in ultimo l’accordo Whirlpool). La tendenza ad aumentare il salario individuale che cresce con il diffondersi del Wcm va contrastata, mentre invece ha retto la distinzione fra premio di risultato e welfare nel secondo livello. È inaccettabile la pretesa delle imprese di coinvolgere il sindacato per gestire i processi di ristrutturazione e contemporaneamente di negargli autorità salariale attraverso politiche di fidelizzazioni individuali all’azienda.
La riduzione dell’orario di lavoro è l’altra sfida. Non c’è salto tecnico e tecnologico nella storia che non abbia posto questo tema per redistribuire il lavoro che c’è e la ricchezza che si produce. Bisogna uscire dal paradosso dei tempi troppo saturi e tempi troppo vuoti. Ridurre e ridistribuire è un obiettivo centrale sia per affrontare l’innovazione che nelle crisi. Il nostro contratto ha riaffermato il ruolo dei delegati sugli orari di lavoro, e questo è un punto essenziale da tenere al centro.
Con il contratto abbiamo introdotto elementi normativi di grande valore sulla cui applicazione è necessario vigilare, come le 24 ore di formazione quale diritto soggettivo di tutti i lavoratori durante l’orario di lavoro e le norme su salute e sicurezza, break formativi e “quasi infortuni”.
Il contratto unitario dei metalmeccanici ha rinnovato la sanità integrativa portando la platea da 80/100 mila a 1.600.000 con un contributo totalmente a carico delle aziende e facendo uguaglianza fra i metalmeccanici di grandi gruppi dove già esisteva e quelli delle piccole aziende, fra lavoratori a tempo indeterminato e a termine, in cassa integrazione o che hanno perso il lavoro; un sistema aperto anche ai familiari.
La sanità rappresenta una sfida per tutti. E come il welfare aziendale, è frutto di una fiscalità di vantaggio iniziata dal governo Prodi, ai tempi dell’introduzione dell’euro, passata dalla decontribuzione e defiscalizzazione del secondo livello e dal taglio alla spesa pubblica: non ne scopriamo oggi gli effetti. Non a caso la Fiom da tempo sostiene la necessità di alleggerire il peso sugli aumenti derivanti dal contratto nazionale e tutti poniamo il tema della tassazione troppo elevata sul lavoro.
Il diritto universale alla salute è sottoposto da molti anni alle conseguenze dei tagli di spesa e al blocco del turn over. Generando così un sistema in cui funziona soprattutto la sanità a pagamento, dilata i tempi di attesa con un divario nord-sud che penalizza pesantemente il Mezzogiorno. Oggi ci troviamo in una condizione per cui cresce la parte di popolazione che sceglie di non curarsi per questioni economiche e la sanità integrativa interviene ad alleggerire questa condizione. Ma per garantire il diritto universale alla salute è necessaria una vertenza generale per aumentare le risorse a disposizione e rilanciare il lavoro pubblico. Va aperta contestualmente una vertenza che veda insieme le diverse categorie che hanno fondi sanitari e i lavoratori pubblici, perché le risorse possano essere utilizzate a rafforzamento della sanità universale.
Il nostro è un contratto nazionale che fa uguaglianza fra i metalmeccanici anche in tema di welfare aziendale, molto diffuso nelle grandi imprese di tutte le categorie, introducendo il “flexible benefit” e quindi una quota aggiuntiva defiscalizzata e decontribuita, come istituto autonomo dal salario e rivolto a tutti, perché non è accettabile che una cosa va bene per i più ricchi e non va bene se ne usufruiscono anche i meno forti, o far finta di non vedere quando le aziende lo usano per elargizioni unilaterali scegliendo chi e come premiare.
Il welfare aziendale va però sempre più qualificato. Oggi, supplendo al restringimento dello stato sociale, è in gran parte impiegato nelle rette scolastiche, nei libri di testo, nei fondi pensione e sanitari, per il trasporto pubblico. Ma può ad esempio diventare anche volano sul territorio a favore di aziende di servizi alle persone con lavoro regolare e contrattualmente definito, come può essere tradotto in riduzione di orario e comunque contrattato nella qualità sociale senza pensare di affidarsi semplicemente a piattaforme predefinite.
Quando si traggono dei bilanci o si fanno delle valutazioni complessive sulla contrattazione di questi anni, bisogna partire dalle condizioni storicamente date e dai rapporti di forza che in questo quadro siamo stati capaci di mettere in campo, non avviene in laboratorio, e noi siamo chiamati a guardarla da sindacalisti, non da studiosi asettici della materia. E in questi anni possiamo dire di aver fatto contrattazione di eccellenza confrontandoci positivamente con i processi di innovazione e insieme di aver affrontato crisi e ristrutturazioni conservando quasi sempre diritti e salari acquisiti, in un quadro legislativo che ci veniva contro. Anche questa è buona contrattazione. Dal 2008 al 2017 si sono persi infatti 250.000 posti di lavoro, mentre c’è stata una riduzione del 20% della capacità produttiva installata. Questi dati parlano anche della totale mancanza di strategie industriali da parte dei governi del nostro paese e di una classe imprenditoriale che non ha reagito alle sfide mondiali. Non a caso abbiamo perso la leadership di settori strategici, dall’informatica alla siderurgia ancora in fase di assestamento, e sono pochissime le multinazionali con testa italiana. Come sappiamo questi processi sono stati pagati in particolare dal sud. Sappiamo anche bene che oggi e nel prossimo periodo le imprese continueranno a puntare sulla riduzione del lavoro a fattore interno della propria competitività, cercando di limitarne le rivendicazioni.
È nella rappresentanza e nella contrattazione che va ricostruito ciò che la crisi e le imprese hanno frantumato e diviso e la storia del Contratto nazionale dei metalmeccanici ci insegna che questa unificazione è possibile, invertendo la rotta della moltiplicazione contrattuale che ha seguito passivamente la parcellizzazione dei processi produttivi facilitando così il controllo e il comando delle imprese sul lavoro, accettando passivamente l'espropriazione delle conoscenze e dei saperi delle lavoratrici e dei lavoratori. Non è vero che le differenze debbano per forza tradursi in divisioni contrattuali, la storia dei metalmeccanici – appunto – insegna. Perché se a guardarle “dall'alto” di un'organizzazione di rappresentanza sociale le differenze e le articolazioni di un processo produttivo possono sembrare inconciliabili, se rovesciamo il punto di vista e – come fatto nei momenti migliori della nostra storia – analizziamo i processi “dal basso” della condizione lavorativa, vedremo che l'intelligenza delle persone saprà trovare il filo conduttore che lega le diverse condizioni che si vivono dentro una stessa filiera o dentro uno stesso sito produttivo. L'alternativa è, come si è fatto in questi anni, pensare di poter semplificare la contrattazione dividendo sempre di più le lavoratrici e i lavoratori in tante caselle quante sono quelle costruite dalle imprese nei loro processi di riorganizzazione, di delocalizzazione, di appalti e subappalti. E moltiplicando così i contratti, anche creando sovrapposizioni e concorrenza all’interno della stessa confederazione. Qui non si tratta di dar vita a una gara tra le categorie per accrescere la propria rappresentanza, anche se i metalmeccanici in questi anni hanno subìto scelte poco comprensibili di frammentazione sindacale – basti pensare alle telecomunicazioni, ai multiservizi. Qui si tratta di ricostruire il ciclo produttivo prima di tutto nella comprensione delle lavoratrici e dei lavoratori, nei loro saperi, cosa sempre più importante e vera sfida del futuro per il sindacato che si vuole misurare con le innovazioni, le piattaforme, le filiere lunghe. Basta pensare all'industria 4.0, a cosa significa l'orario di lavoro nell'impresa del futuro con le capacità di controllo delle nuove tecnologie e la possibilità di dirigere centralmente flussi e attività produttive sparpagliate e divise sul territorio. Come pensiamo di poter “contrattare l'algoritmo” se non ricostruiamo l'unicità del ciclo produttivo e la nostra capacità di leggerlo? E chi è il soggetto che può proporsi questa operazione dentro un sindacato confederale, che si propone di tenere insieme le differenze, se non i delegati? Ma come possono farlo i delegati se non hanno un forte rapporto con i propri rappresentanti, in modo da rappresentarne la condizione sotto tutti gli aspetti, dal manuale al cognitivo? Ecco, noi crediamo che la confederalità del futuro sia quella che attraverso le Rsu ricostruisce il processo produttivo – la sua conoscenza – a partire dai coordinamenti degli eletti di sito o di filiera, anche se questi appartengono a categorie diverse o se sono lavoratori somministrati, per esercitare la contrattazione. Traducendola anche in accordi-quadro a partire dalle questioni su cui la condizione di lavoro è più esposta: occupazione – a partire dalla clausola sociale e dalle stabilizzazioni, salute e sicurezza, salario.
Crediamo che questo sia il modo giusto per recuperare la chiave comune, per riempire nuovamente la “nostra cassetta degli attrezzi” nella connessione fra lavoratori.
Il nostro obiettivo è allargare la contrattazione, affrontarne i nuovi nodi, partendo dalla rappresentanza della condizione e rivitalizzando attraverso la democrazia un rapporto empatico con le lavoratrici e i lavoratori. Solo così potremmo affrontare le sfide di oggi al loro livello, per rimettere in discussione come e cosa si produce, quale impatto ha sull'ambiente – emergenza che ci riguarda fino in fondo e che può trovare soluzione solo affrontando il problema “a monte”, nel modello produttivo, cioè dove siamo noi e i nostri rappresentati. O per affrontare il tema dell'orario di lavoro, della sua gestione, della pervasività che ha sui tempi della vita.
Come Fiom abbiamo sempre sostenuto che un sindacato per essere confederale ha bisogno che la confederalità parta dai luoghi di lavoro, dalla capacità delle categorie di esprimerla contro le disuguaglianze sulla condizione e quindi dalla costruzione dei rapporti di forza necessari per cambiare lo stato delle cose. Il nostro Congresso ha messo al centro il tema, ha parlato ai nostri iscritti e ai gruppi dirigenti diffusi chiedendo di contribuire a questa discussione.
Susanna Camusso, segretario generale, ha poi posto un tema: non c’è una parte di discussione che è per tutti e una parte sequestrata dal gruppo dirigente. E insieme alla maggioranza della segreteria ha avanzato il nome di Maurizio Landini come prossimo segretario generale, come proposta in grado di parlare fuori e dentro la Cgil, a chi rappresentiamo e a chi vogliamo rappresentare, in grado di cogliere nei contenuti e nei sentimenti il senso dei tempi spostando in avanti lo sguardo come, mi permetto di dire, le donne sanno fare.
Questa scelta per nulla scontata parla dell’autorevolezza, del coraggio di Susanna dimostrato anche con la sua difficilissima candidatura a presidente della Confederazione mondiale dei sindacati che di tanto cambiamento ha bisogno, e soprattutto di un’autonomia agita concretamente, vitale per la Cgil. Noi condividiamo la proposta, come già hanno mostrato di condividerla i delegati ai congressi che ci hanno preceduto. Naturalmente Maurizio sa che da segretario confederale troverà la Fiom che conosce, confederale nella dialettica che le è propria.
Pensare oggi di disconnettere la relazione tra lavoratori-iscritti-delegati-gruppo dirigente largo dei territori e delle categorie con il Congresso nazionale della Cgil, sarebbe una caduta nel politicismo che non meritiamo.
Vorrei concludere questa mia relazione con una proposta al Congresso e ai segretari generali di Fim e Uilm.
In questi mesi noi abbiamo reagito con iniziative e scioperi alle assurde morti sul lavoro che continuano a ripetersi nell’epoca 4.0 ma anche dello sfruttamento del lavoro; abbiamo manifestato sui territori contro il razzismo e per la dignità dei nostri compagni che arrivano dall’altra parte del mare; ci siamo mobilitati per rivendicare ammortizzatori sociali per gestire le crisi senza licenziamenti; abbiamo rivendicato la centralità di politiche industriali assenti da troppo tempo e di nuovo assenti in questa legge finanziaria, e la necessità dell’intervento pubblico come volano di un’industria e di un lavoro che tenga insieme Nord e Sud, diritti sociali e diritti ambientali, innovazione e benessere delle persone. Abbiamo condiviso il documento Cgil, Cisl e Uil sul Def che è una piattaforma verso il governo e offre elementi di discussione nei confronti delle imprese.
È il momento di connettere e riunificare le iniziative e le lotte dando la centralità che sempre hanno avuto nel nostro Paese le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici.
All’impoverimento e alla solitudine si reagisce dando una prospettiva comune, perciò vi propongo, mobilitiamoci. Costruiamo una grande manifestazione nazionale per dare valore e riconoscere centralità al lavoro industriale nel necessario e urgente cambiamento sociale e del lavoro.
Compagne e compagni, buon Congresso a tutti!
27 Congresso nazionale Fiom-Cgil. Relazione Introduttiva di Francesca Re David
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