«Al governo Renzi che vuole cambiare il Paese mi permetto di dire che è il momento di farlo davvero. Altrimenti, rischia di essere solo il soggetto che accompagna il processo di definitiva deindustrializzazione in Italia: qui non si tratta di limitare i danni, si tratta di cambiare verso sul serio, assumere un ruolo di orientamento, definizione delle priorità e trovare risorse per gli investimenti. Esattamente come accade in molti altri Paesi».
Il discorso di Maurizio Landini, segretario della Fiom Cgil, parte dalla Indesit appena ceduta agli americani di Whirlpool, ma comprende anche l’ormai apolide Fiat e la disastrata Ilva. Più in generale, l’intero tessuto manifatturiero massacrato sì dalla crisi globale, ma da una crisi potenziata dalla cronica assenza della politica da un lato, e da una classe imprenditoriale che ha rinunciato al proprio ruolo dall’altro.
Indesit ceduta alla Whirlpool: una scelta obbligata? Una soluzione che salva o che mette a rischio i dipendenti?
«Io so che un anno fa al ministero dello Sviluppo l’Indesit in crisi smentì l’ipotesi di voler andare alla vendita. Quello che emerge oggi è una classe imprenditoriale che cessa di esserlo, visto che non investe, non rischia, ma passa solo alla cassa, e già questo dovrebbe essere tema di dibattito politico. Inoltre, bisogna capire se Whirlpool confermerà gli impegni presi sul mantenimento di siti produttivi e occupazione. Non è scontato, la società ha già chiuso il proprio stabilimento di Trento, per dire. Il governo deve convocare le parti al più presto, in modo da chiarire tutte le questioni. Non è che possa limitarsi a fare da spettatore, da accompagnatore della desertificazione industriale».
Questo dell’assenza di politiche industriali è un nodo annoso mai risolto: che cosa chiede al governo?
«Che cambi radicalmente atteggiamento rispetto a quelli che l’hanno preceduto. Abbiamo un governo nuovo, che dice di voler mettere al centro lavoro e occupazione. Mi aspetto che lo faccia. Non è che decidere qualcosa in nome dell’interesse generale può voler dire solo tagliare le pensioni. Sugli 80 euro sono sempre stato d’accordo e credo che anche sull’intesa Electrolux, ad esempio, sia stato fatto un buon lavoro, ma purtroppo di problemi aperti ne abbiamo molti altri. L’intervento pubblico è necessario, come accade negli Usa di Obama, in Corea, in Giappone, com’è accaduto solo poche settimane fa in Francia: nell’accordo tra Alstom e General Electric lo Stato è diventato azionista al 20%, e ha chiesto di aumentare di mille unità i posti di lavoro, con tanto di sanzioni pecuniarie in caso contrario. Anche da noi, il governo dovrebbe chiedere ai gruppi industriali impegni precisi, vincolanti. In Germania si sta discutendo la produzione di auto elettriche: da noi per caso esiste una politica della mobilità, dei trasporti?
Senza contare che su ogni 100 auto vendute in Italia, solo 40 sono prodotte qui. Si tratta solo di prendere delle decisioni».
Quali decisioni?
«Scegliere su quali settori strategici indirizzare gli investimenti, chiamare gli imprenditori a fare il loro mestiere, trovare le risorse necessarie tra recupero dell’evasione fiscale, lotta alla corruzione, cambio di rotta nel sistema degli appalti, norme antiriciclaggio. Di sicuro, il punto non è rendere ancora più flessibile il lavoro. E questo, le politiche per il lavoro, intendo, è il tema da discutere».
La sede c’è: dopo il decreto su contratti a termine e apprendistato, adesso è in arrivo la legge delega.
«Certo che se dobbiamo parlare dell’abolizione dell’articolo 18, come vorrebbe qualcuno, siamo proprio fuori strada. Parliamo piuttosto del lavoro da difendere e di quello da creare. Abbiamo anche una situazione drammatica sulla cassa in deroga, che va assolutamente rifinanziata. E dovremmo discutere di come redistribuirlo, il lavoro che c’è: ancora oggi manteniamo le norme per la defiscalizzazione degli straordinari, ad esempio, poi però ci lamentiamo della disoccupazione giovanile troppo alta. Dovremmo incentivare i contratti di solidarietà, piuttosto, non fare in modo che chi lavora lo faccia sempre di più mentre tanti altri restano a secco. Intervenire sul mercato del lavoro significa farlo su questi temi».
La vicenda Fiat è un altro solare esempio di assenza della politica.
«Lì c’è stato il silenzio più assoluto. Così tra poco arriveremo al primo agosto, quando l’azienda lascerà definitivamente l’Italia. Il contratto firmato ora significa 10 euro lordi in più all’anno: doveva servire a portare i salari al livello di quelli tedeschi, e adesso siamo al di sotto dei contratti nazionali dei metalmeccanici. Per non dire della maggioranza dei lavoratori, che è in cassa integrazione, e del grosso degli investimenti, che è stato fatto fuori dall’Italia. E c’è chi vorrebbe fare di Fiat il modello contrattuale italiano».
Molti imprenditori si trincererebbero dietro alla crisi: o così - contratti al ribasso, delocalizzazioni, cessioni parziali o totali - o morte.
«È un alibi, una logica che mi ha stufato. Premetto che gli imprenditori non sono tutti uguali, ci mancherebbe: ma per uno bravissimo, quanti sono i Riva che scappano all’estero coi soldi? Quanti gli Agnelli che non hanno più investito in azienda? Quanti sono quelli che hanno accettato un sistema di corruttele e complicità, come ancora dimostrano i casi Mose e Expo? E ancora, chi ha deciso che la competizione internazionale si gioca sulla precarietà dei lavoratori e non, ad esempio, sull’innovazione? Trovo scandaloso che Confindustria presenti un documento a favore, tra l’altro, del superamento dei contratti nazionali e dell’articolo 18.
Credo che, proprio per dire basta a Confindustria, per noi non sia più sufficiente gestire caso per caso. È arrivato il momento di preparare la mobilitazione nei territori, a partire da settembre, per poi arrivare a quella nazionale a Roma».
l'Unità del 13 luglio 2014