In tutto questo ricordare l’anno, il 1969, che vide l’esplosione della soggettività operaia, quando gli “apache” della Fiat invasero piazza del Popolo e le lotte si allungarono al decennio successivo con lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, la legge che riconosceva l’obiezione di coscienza – altro che leggere tutto come gli “anni di piombo” – è comparsa un’altra memoria: quella delle lavoratrici.
Certo, questa memoria non ha un cantore, un “griot” come Nanni Balestrini per Alfonso, protagonista di «Vogliamo tutto», eppure, se si prova ad accostare tessere diverse, le figure femminili assumeranno profili sempre più precisi. Sempre più potenti perché sono un soggetto con un corpo.
All’inizio, negli anni Cinquanta, a parlare di loro era stata la polizia di sorveglianza interna alla Fiat. Ascoltate qualche esempio di “informativa”.
F.A (1952) […] impiegata Fiat Mirafiori simpatizza per il Pci […] risulta che all’atto del matrimonio era in stato di avanzata gravidanza […] seria, onesta di comune intelligenza e di buoni sentimenti. Però arrogante e piena di alterigia […] i familiari sono tutti di idee estremiste più o meno moderate […] di sentimenti poco religiosi tanto è vero che la sera del 31 maggio 1950, durante il passaggio della Madonna Pellegrina (che avviene ogni secolo) si rifiutarono di partecipare con gli altri inquilini all’illuminazione dello stabile. Consta inoltre che al nonno materno […] viene fatta sepoltura civile con conseguente cremazione.
G.A. (1955) La suocera è donna di pessima moralità, vive saltuariamente presso la figlia, o presso un amante, elemento di cattiva condotta, in un paese del vercellese.
L.M. (1970) Sua madre è passata a seconde nozze nel luglio scorso; durante la vedovanza ha lasciato a desiderare per la sua condotta morale e civile ed ha avuto anche un aborto.
Ma nel “lungo autunno” che trasforma la società italiana, che fa saltare l’organizzazione del lavoro fordista (ritmi, gerarchie, cottimo) pure la lavoratrice, in casa e in fabbrica, diventa protagonista. E se i rapporti di potere si ribaltano, saranno insieme operaie e femministe e poi femministe fuori e dentro la fabbrica, a mettere in luce il rapporto tra capitale e patriarcato.
Lo riportano riviste come Effe o Sottosopra. Sul Sottosopra del ’73 si muovono in tante, quelle “dell’autocoscienza” davanti ai cancelli della Feda (industria tessile di Cinisello), occupata dalle operaie. C’è la ragazza originaria della Puglia, combattiva, coraggiosa, presente nei momenti di scontro con il padrone e il controllore del tempo, con un orologio al posto del cervello. Ma la ragazza è, appunto, di sesso femminile. Una «figlia di suo padre. Non può restare fuori di sera allora… qui cominciano le contraddizioni specifiche proprio di noi donne. Sei operaia, compagna, vorresti dare quel che puoi e vuoi ma sei donna, la notte non sta bene per una ragazza stare fuori casa e poi fra tutti questi compagni maschi! Quindi una donna-compagna oltre contro i padroni di fabbrica deve vincere le battaglie in casa. Di più, la sua disponibilità alla lotta fuori è condizionata dai limiti interni in casa, dal rapporto, pregiudizi, proprietà di madre, padre, fratello, marito…».
Quanto ai compagni, beh non si sono nemmeno accorti che alla Feda sono donne a lavorarci. Dipenderà dal fatto che pochissime aprono bocca in pubblico, nelle assemblee? Probabilmente, a intimorirle è quel linguaggio astratto che pone questioni generali e “dimentica il concreto”, la materialità dell’esistenza.
Molte sono convinte che il loro salario sia «complemento a quello del marito, del capofamiglia». Così, viene contrabbandata la spiegazione – anche dal sindacato – e dal senso comune che la donna, poveretta, non è “politicizzata”. Tuttavia, questa non politicizzazione nasconde ragioni più concrete che rappresentano un reale impedimento alla lotta: dove lasci i bambini, chi fa da mangiare, come trovi il tempo per le riunioni?
Dicono di sé anche le impiegate (più di un migliaio e 600 operaie alla tappezzeria) dell’Alfa Romeo di Arese. Raccontano di battere a macchina il lavoro di un altro (uomo), di rispondere docilmente al telefono per passare poi la cornetta al capo, di girare le pagine del registro per non affaticare chi firma. Un lavoro dequalificato, isolato in mezzo a uomini (una donna ogni dieci maschi); un contratto a termine (80% per maternità).
A un certo punto, quello che firma come “gruppo donne Alfa Romeo” decide di confrontarsi non con il sindacalista ma con la sua simile. La scommessa consiste nel fare autocoscienza «senza dimenticare l’intervento di massa». Alle riunioni femministe hanno scoperto che predomina troppo «l’aspetto puramente analitico introspettivo e troppo poco quello di riuscire a concretizzare queste analisi».
Nel ’74, sempre sul Sottosopra, esce il resoconto di «Un anno di esperienza tra autocoscienza e lotta di fabbrica» a cura di “alcune compagne” della Face Standard (fabbrica elettronica che occupa 4.000 persone di cui circa 1.500 donne). Anche qui, dito puntato sul dualismo all’interno del gruppo tra autocoscienza e intervento di fabbrica. «Eravamo donne abbastanza sicure, con poca attenzione per il femminismo, anzi con una specie di avversione, perché noi facevamo politica».
Una politica in nome delle donne. Non dalle donne e con le donne. «Una pseudo-emancipazione» nella quale dai per scontato che «i tuoi casini sono già risolti» e invece no, i casini sei tu a determinarli, rompendo equilibri consolidati, addirittura secolari, che vigono tra le pareti domestiche.
Cambiano le forme di vita e la gerarchia interna alla famiglia. Scopri che il tuo corpo, il linguaggio, la rappresentazione che hai del mondo non sono quelli dell’operaio (che rappresenta anche l’operaia), del lavoratore (che esprime anche i bisogni della lavoratrice).
Il 28 novembre, al convegno Fiom si ricordava il contratto del 1969. Lia Cigarini, Libreria delle donne di Milano, ha parlato della contrattazione di secondo livello, una pratica (tra l’altro molto simile a quella che il movimento delle donne si è data, quella della relazione) che nei rapporti di lavoro «può far valere il di più che le donne sono, pensano e vogliono. Senza la contrattazione articolata si rischia di sottrarre competenza pratica e simbolica a quelle donne e uomini che per vivere devono mettersi sul mercato del lavoro».
Con un linguaggio vivo, in Dita di dama (prima edizione 2009, ora riedita da La nave di Teseo, 2019, con postfazione di Maurizio Landini, 12,00 euro) Chiara Ingrao ci riporta proprio a questo scambio, a questo incrocio di parole che tessono una rete solidale. Nel suo romanzo sfilano una Maria diciottenne e Paolona, Mammassunta, Aroscetta, operaie della romana Voxson che, nell’autunno del 1969, affrontano l’organizzazione del lavoro, le multe, la prova della paletta per andare in bagno. A Piazza del Popolo strilleranno anche loro: “Agnelli, Pirelli, ladri gemelli” accompagnate dalla colonna sonora dei bidoni di latta, percossi come tamburi. Da allora è risultato più difficile confondere i due sessi anche in un sindacato come quella Fiom in maggioranza maschile.
Ma, nonostante la presenza di tante nel mercato del lavoro e nonostante il rifiuto di separare produzione e riproduzione, opere e cura, prodotti e relazioni, quello che una volta si sarebbe chiamato “il padrone” tende a dimenticare l’affermarsi della soggettività femminile.
È successo a Melfi dove 400 operaie della carrozzeria nel 2015 hanno scelto di protestare contro l’imposizione di tute bianche che si macchiano facilmente di sangue mestruale. Il loro discorso è risuonato alle orecchie di alcune femministe. Clelia Mori ha preso le tute, le ha “ricamate”, cerchiate, segnate, esibite in una mostra (voluta dalle Vicine di casa di Mestre, Brescia, Reggio Emilia, Foggia, fino a Matera) sul «mistero del corpo che non tace» nominando così un corpo che non può essere neutralizzato. Anche questa “è la differenza, bellezza!