Vorrei partire da un tuo commento sul voto del 24 maggio scorso per il rinnovo del parlamento europeo. Possiamo dire che avanzano i sovranisti, pur con qualche sporadica eccezione, un po’ in tutta Europa?
Queste elezioni sono la dimostrazione più plastica e concreta di come, non da oggi, si sia rotto il contratto sociale fra lo stato e il lavoro, che era alla base del modello sociale europeo. I tagli allo stato sociale sono l’elemento che ha contraddistinto tutta l’Europa, con l’aumento delle disuguaglianze e la fine di qualsiasi ruolo politico nel governo del capitalismo finanziario globale. Le leggi nazionali e le direttive europee sono andate tutte nella direzione di dare mano libera alle imprese multinazionali, senza alcun vincolo con il territorio e con i lavoratori, a parte gli ammortizzatori sociali che vengono stanziati dai vari governi. La rottura di questo contratto sociale e l’assenza di risposte ha portato prima all’astensionismo e poi alla ricerca di una soluzione sovranista.
Questi sovranismi tendono a fare maggioranza e opposizione insieme, perché raccolgono il malessere sociale ma sostengono le imprese e il capitale. Questo mi fa venire in mente il fascismo che ha avuto un sostegno popolare forte me che faceva gli interessi del grande capitale. Diciamo che siamo in una situazione prefascista: c’è una rabbia popolare che prova a trovare risposte semplici ma, soprattutto, ci sono tante persone che non accettano più di stare male non si sa per il bene di chi.
I partiti socialdemocratici e le sinistra arrancano in tutta Europa. Pensi sia un problema in più per forze sindacali o il rapporto con questi partiti è ormai logorato definitivamente?
La sinistra politica è stata incapace di cogliere alcun nesso in tal senso e, anzi, come spesso accade, alla sinistra sono state fatte mettere in campo le cose più complicate. Ci troviamo, insomma, in una situazione di disorientamento totale. Basta pensare a cosa è successo nelle quattro nazioni più importanti d’Europa: in Francia il successo della Le Pen, in Italia quello di Salvini, in Inghilterra la Brexit e in Germania il crollo della Cdu della Merkel. In Italia oggi il partito più antico è la Lega. Nessuno dei partiti che hanno scritto la Carta costituzionale è più presente in Parlamento. Io penso che l’Italia spesso in politica abbia anticipato i fenomeni: un paese mai così a destra e con una rottura del contratto sociale mai così evidente non mi fa – purtroppo – sperare nulla di buono.
Allo stesso tempo trovo ci sia un’asincronia tra il piano sindacale e il piano politico. Perché il sindacato italiano è l’unico che può dire in Europa che esista ancora un contratto nazionale di lavoro che copre oltre l’85% del lavoro, nonostante la frammentazione. In Italia abbiamo una tenuta della rappresentanza sociale che non esiste negli altri paesi europei, pur con tutte le difficoltà che abbiamo di fronte. Perché non si va lontani senza una cultura e una rappresentanza politica, con una disintermediazione che passa anche attraverso una forte spinta all’individualismo povero - nel senso che si corre da soli e ci si accorge che esiste il sindacato solo quando ti licenziano - con spinte che vanno contro l’idea della coalizione dei lavoratori e, quindi, contro l’idea del sindacato confederale. Certo, il sindacato oggi ha ancora una struttura che gli ha consentito di reggere, ma dobbiamo capire come lavorare per estenderla e non farla implodere. Perché i rischi d’implosione possono essere di tanti tipi: può essere che ti sottraggono il contratto nazionale attraverso la frantumazione del lavoro, può essere la cultura della disintermediazione che sta andando avanti tantissimo, ma può essere anche un arretramento di tipo corporativo, che è sempre presente come elemento di possibilità all’interno del sindacato, perché quando devi difendere gli interessi di un gruppo di lavoratori questo aspetto può sempre venire avanti.
Veniamo alle politiche industriali o, meglio, alla tragica assenza di politiche industriali, come la Fiom ha denunciato a più riprese negli ultimi anni…
In Italia, più che negli altri paesi europei, è passata l’idea di uno stato che non interviene rispetto alle questioni che riguardano le imprese, il capitale e la finanza. L’idea della loro autoregolamentazione – che in realtà non esiste – è una purtroppo assodata ai massimi livelli. L’assenza della politica è assenza di politiche industriali nel paese, di una sua idea di sviluppo. Questo è stato un dato assolutamente evidente già dalla metà degli anni Novanta, con l’inizio delle privatizzazioni. Noi non abbiamo quasi più un capitalismo italiano – e non lo dico per nazionalismo – ma abbiamo un apparato industriale e produttivo, con capacità tecnologiche e tecniche molto avanzate, che non è stato salvaguardato. Il capitalismo italiano è in crisi di per sé, anche a livello familiare, ma dall’altro lato è venuta avanti questa idea che le multinazionali possono fare come gli pare, che non si possono dettare regole alle multinazionali: questo lo hanno pensato e praticato tutti i governi degli ultimi anni, di qualsiasi colore politico fossero. Non c’è un problema solo di siti produttivi ma manca un’idea di paese, che non ha più nessun elemento di programmazione e di visione strategica, perché siamo in completa balìa delle scelte che fanno le multinazionali. Loro decidono di aprire o chiudere, avendo però sussidi o ammortizzatori sociali in cambio. Perché in Italia gli ammortizzatori sociali sono una cosa importante – certo noi diciamo che non sono sufficienti e non sono modulati nel modo giusto – ma, rispetto al resto d’Europa, possiamo dire che rappresentano il solo modo con cui l’Italia fa politica industriale. Ovviamente, tutto di rimessa appunto. Dal punto di vista metalmeccanico abbiamo la siderurgia, che per fortuna ancora esiste, ma che è tutta in mano a multinazionali asiatiche; il settore dell’elettrodomestico, che ha molti stabilimenti, è in mano a due multinazionali non italiane; per non parlare del settore automotive che ormai è di fatto americano.
L’assenza totale di un piano industriale per il paese parla anche d’infrastrutture, di eco sostenibilità, della direzione produttiva che si prende, parla di Mezzogiorno. In questo senso l’Europa è una massa critica appena sufficiente nella concorrenza globale. Oggi troviamo normale che l’Italia sia divisa in due, perché la verità è che al Sud si sta dismettendo praticamente tutto. Tutto ciò mette le persone nella condizione di essere totalmente in balìa degli eventi e pone un problema democratico molto forte, perché non c’è più nessun elemento di determinazione. Nessun governo, nemmeno questo nonostante la propaganda, ha fatto nulla per invertire la rotta. Si parla tanto di Jobs Act ma a questo governo non gli è mica venuto in mente di ripristinare l’Articolo 18. Chi glielo avrebbe impedito? Allora è palese che c’è una condizione di totale sudditanza alle imprese. Il Ministero prende atto delle scelte di una multinazionale e, al massimo, vede come metterci una toppa se il sindacato si mobilita, ma non è che pensa sia compito del governo avere in testa un modello produttivo autonomo. L’elemento di sottrazione dei diritti dei lavoratori e di totale libertà delle imprese è un dato di fatto che non viene messo in discussione.
Mi stai descrivendo un Ministero che più che di sviluppo economico sembra occuparsi di gestioni delle crisi aziendali. È così tragica la situazione?
Sì è il Ministero delle crisi contingenti. Si attiva o quando le multinazionali chiedono soldi o quando la mobilitazione dei lavoratori impone un intervento. Ma non è un Ministero che si occupa di pianificare uno sviluppo economico per il paese. Questo è certo. La Fiom sta chiedendo da tempo tavoli di settore in cui il governo, insieme alle parti sociali e alle imprese, possa decidere cosa vuole fare di importanti settori produttivi. Penso solo all’automotive, che impatta 200mila lavoratori, che ha un peso politico internazionale, che ti permetterebbe di ragionare di eco sostenibilità e sviluppo del territorio. Ma penso anche all’informatica: l’Italia ha prodotto, con Olivetti, il primo computer e oggi siamo diventati subfornitori di subfornitori. Sono anni che non esistono tavoli e progetti di sviluppo ma s’interviene, invece, solo su ogni singola crisi aziendale, che poi magari è pure in concorrenza con un’altra. Questo dà proprio il senso di una mancanza di visione.
Veniamo al fronte sindacale. Nelle scorse settimane è stato posto, a partire dal segretario generale della Cgil Landini, il tema dell’unità. Quali sono le tue valutazioni in merito?
Il lavoro è sotto attacco in quanto soggetto collettivo e non esiste rappresentanza politica del lavoro, cioè è impedita la sua capacità di esprimere rapporti di forza politici. Se questo è vero allora è ancora più necessario dare forza alla coalizione, cioè riunificare tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori. È banale dire che l’unione fa la forza, ma è così. Scioperare tutti insieme è meglio che scioperare da soli. Davanti ad un fronte unito contro il lavoro, bisognerebbe avere un fronte unito sul lavoro. Questa è stata la più grande incapacità e inadeguatezza che ha dimostrato il movimento dei lavoratori, sia a livello nazionale che europeo. Mentre il capitale si globalizzava il lavoro si è frantumato e ha accettato di essere messo in concorrenza. C’è bisogno di un sindacato unitario – non unico – che di fronte ad un attacco di tale livello, se vuole rimanere un sindacato di rappresentanza dei lavoratori e non un sindacato di servizio alle imprese o ai lavoratori, si ponga seriamente il tema della riunificazione. L’unità sindacale è un’aspirazione necessaria. In Fiom bisogna conquistarla di volta in volta e non darla mai per scontata. Per la nostra storia, segnata negli ultimi anni anche dai contratti separati e dalla vicenda Fca, dobbiamo conquistarla di volta in volta con dei compromessi possibili, perché l’unità è sempre un compromesso. L’unità dei lavoratori è quella a cui dobbiamo tendere, a partire dai luoghi di lavoro e non solo tra le sigle sindacali. Trovo quindi giusto il messaggio all’unità e trovo che sarebbe una buona garanzia in tal senso, se i sindacati si accordassero sul fatto che, siccome rispondono ai lavoratori, quando in una piattaforma ci sono differenze siano i lavoratori a esprimersi per dire qual è l’elemento che fa unità.
A proposito di unità, sta proseguendo in forma unitaria anche la lotta dei metalmeccanici per il rinnovo contrattuale. Coma sta andando questo percorso comune?
Il 14 giugno abbiamo organizzato uno sciopero unitario, pur avendo ancora consistenti questioni in corso con Fim e Uilm, così come chiediamo un tavolo per Fca dove siano rappresentate tutte le sigle e chiediamo alle altre organizzazioni di farsi carico del fatto che, in tale situazione, sia necessario stare tutti insieme. Lo sciopero non si è fatto a trattativa aperta per il contratto ma per rimettere al centro del dibattito pubblico i lavoratori dell’industria, che sono una grande ricchezza di questo paese ma che sono spariti dal dibattito pubblico. È stato uno sciopero che ha parlato sia al governo che alle imprese. Perché io posso dire che questo governo non fa politiche industriali e non contrasta leggi tutte a favore delle imprese, ma chi spinge al massimo su quelle leggi e, anzi, le considera addirittura insufficienti rispetto alla precarizzazione e al comando sul lavoro, sono proprio le imprese stesse. Tutti e due –governo e imprese - puntano allora a fare del lavoro l’anello debole della rappresentanza collettiva. Per questo noi come sindacato abbiamo il dovere di lottare uniti.
Poco dopo la firma del CCNL del 2016 ti avevo intervistato proprio su Inchiesta. In quella occasione mi avevi parlato di un contratto che, dal un lato, salvava l’esistenza stessa del contratto nazionale e, dall’altro lato, di un contratto sperimentale e innovativo su molti punti. Quali valutazioni ne dai oggi? Cosa ha funzionato e cosa no?
Sì confermo. Noi nel 2016 abbiamo salvato l’esistenza stessa del contratto nazionale di lavoro e dei due livelli contrattuali, perché – e ne sono sicura – se fosse passata la linea che aveva in mente Federmeccanica, cioè che non esistevano più i due livelli e il contratto era un livello unico, quel modello si sarebbe allargato a macchia d’olio anche ad altri settori. Il contratto dei metalmeccanici riguarda 1,5 milioni di lavoratori ed un contratto “pesante”, perché siamo l’unica categoria che ha tenuto insieme tutto il lavoro industriale, dagli informatici ai siderurgici. Con gli elementi positivi che ci sono stati nel rinnovo del contratto precedente, noi abbiamo fatto anche una scommessa con le imprese, tant’è che abbiamo scritto che il salario è sperimentale. La scommessa era quella di chiedere solo l’inflazione – che per’altro non c’è stata – e chiedere, invece, altre punti come la formazione, la sanità integrativa, la salute e la sicurezza. La ridistribuzione sarebbe dovuta avvenire nel secondo livello, quello aziendale. Noi abbiamo mantenuto il patto ma le imprese no, perché non hanno ridistribuito nulla nel secondo livello. E noi invece questo tema lo vogliamo affrontare col prossimo rinnovo contrattuale: aumenti salariali; le 24 ore di formazione come diritto soggettivo nell’orario di lavoro, che le imprese non stanno rispettando; una verifica delle condizioni di lavoro, perché abbiamo un contratto che ha dato tanto in termine di salute e sicurezza ma aumentano i morti sul lavoro e questo ci dice che qualcosa non va, a partire dagli appalti e dai lavori somministrati, che devono invece essere riunificati. Noi speriamo che la costruzione della piattaforma sia unitaria, perché l’ultimo contratto lo abbiamo firmato unitariamente ma siamo partiti da piattaforme separate. Sono anni che non esiste una piattaforma unitaria nel contratto dei metalmeccanici ma, del resto, era dal 2007 che non si metteva in campo uno sciopero unitario della categoria.
Vorrei toccare con te, in chiusura, due aspetti del dibattito attuale che stanno vedendo la Fiom e i metalmeccanici in prima linea. Il primo è il rinnovato interesse per la questione ambientale, a partire dalle mobilitazioni internazionali dei Fridays for future. Cosa ne pensi?
È chiaro che bisogna tenere conto delle compatibilità umane e ambientali, perché io credo che le due cose siano logicamente insieme, per avere un altro modello di sviluppo. La Fiom è da anni che pone il tema di cosa e di come si produce. Per esempio, noi sulle grandi opere abbiamo una posizione precisa: le grandi opere utili sono la manutenzione del territorio e delle infrastrutture e restiamo contrari alle grandi opere inutili come la Tav. Certamente, per chi lavora nell’industria, questo non è un tema semplice, perché è innegabile che produce delle contraddizioni. O tu pensi che ci sia bisogno di energia o pensi che possiamo fare a meno dell’energia. Siccome io credo che nessuno in Fiom possa ritenere che si possa fare a ameno dell’energia, è chiaro che allora bisogna discutere di come la produci e con quale compromesso col territorio dove la produci. Io non sono per dire che la siderurgia si deve fare nel Terzo mondo, così se è brutto e cattivo nessuno lo vede e lo sente…tanto poi l’acciaio lo usiamo noi nel Primo mondo! Io sono per affrontare il tema, anche con le contraddizioni che questo comporta. Penso che sui temi ambientali, anche nella contrattazione di secondo livello, si possano fare cose importanti: dalla mensa a chilometro zero, al trasporto pubblico per raggiungere il luogo di lavoro. Questi sono elementi che hanno impatto anche sulle giovani generazioni, che si avvicinano più difficilmente al sindacato, sia perché sono ricattati ma anche perché vengono da un’assenza di cultura politica.
La seconda è la questione di genere e il protagonismo delle lotte delle donne, anche queste a livello internazionale. Come valuti queste mobilitazioni anche in rapporto allo sciopero femminista?
Le donne sono quelle che hanno pagato di più la crisi. Se guardo i dati degli iscritti tra i metalmeccanici vedo che, prima della crisi, il 22% dei nostri iscritti erano donne mentre oggi sono il 16%. Ciò significa due cose: sicuramente che la crisi ha colpito particolarmente le donne; ma forse, anche, che c’è stata una nostra incapacità di rappresentarle adeguatamente. Il ritorno in campo di un movimento delle donne, in grado di farsi sentire, credo sia un fatto fondamentale e importante. Noi abbiamo invitato al nostro Congresso le donne di Non una di meno, per discutere con loro. Sono anni che ci incontriamo e ci confrontiamo, anche con le delegate. Sono state proprio quest’ultime a spiegare loro che per noi lo sciopero è lo sciopero, non è una cosa simbolica. E se uno sciopero non riesce, oltre ad aver perso salario, il giorno dopo in fabbrica i lavoratori sono più deboli. A me non basta dichiarare uno sciopero politico. Se io dichiaro sciopero devo lavorare affinché riesca e se le delegate mi dicono che la condizione per lo sciopero generale della categoria non c’è, io trovo autoritario dichiararglielo sulla testa. Cosa diversa è che nei singoli luoghi di lavoro, dove ci sono le condizioni, si faccia lo sciopero. E questo elemento noi lo abbiamo sempre sostenuto e lo continueremo a sostenere.
*intervista in uscita su Inchiesta, n.204 aprile-giugno 2019