Negli Stati Uniti hanno fatto notizia i numerosi processi intentati contro Uber, con l’obiettivo di far luce sulle condizioni di lavoro degli autisti, per stabilire se si tratti di lavoratori autonomi o no. Nell’estate 2016 a Londra hanno scioperato i lavoratori di Deliveroo e UberEats, per contrastare il tentativo delle aziende di passare da una retribuzione oraria al cottimo.
Le stesse ragioni sono state alla base delle proteste dei lavoratori di Foodora Italia, che inizialmente hanno avviato un contenzioso sulle biciclette, a loro carico come smartphone e costi telefonici. Successivamente il contenzioso è stato esteso alla retribuzione oraria, passata da 5,40 euro all’ora al cottimo (2,70 euro per consegna), che l’azienda ha introdotto per tutti i neo assunti, fino a estenderla progressivamente all’intera forza lavoro.
Non a caso c’è chi rivendica, e in taluni casi definisce per legge (come in Gran Bretagna), uno status apposito per i lavoratori della gig economy (lavoratori on demand), con ferie pagate, paghe minime e più poteri in sede di dibattimento. In particolare, si supera la dicotomia tra “lavoro dipendente” e “autonomo” verso la figura del “dependent contractor”, “dipendente a contratto” o “autonomo-dipendente”, ossia chi è idoneo a ricevere le tutele dei lavoratori pur non essendo dipendente.
Tuttavia nella maggior parte dei casi le norme non si sono ancora adeguate e le aziende ne approfittano, giocando anche su un linguaggio ambiguo e oscuro.
Ecco dunque che il fattorino diventa un rider. Già, perché gig economy e “retorica del lavoretto” vanno a braccetto con un vocabolario tanto “smart” quanto mistificatorio.
Tutto deve essere “cool”, come le pettorine fuksia. Perché se la busta paga deve assomigliare a una fattura, allora anche il turno diventa una “disponibilità”, essere assunti è “salire a bordo”, lavorare “per” si trasforma in lavorare “con”.
Ma la scomposizione del lavoro, dei suoi diritti e delle parole per nominarli sembra essere senza confini.
Oltre alla nuova frontiera del lavoro a chiamata (“on demand”) e del ritorno del cottimo, da tempo ha fatto la sua comparsa un altro incubo: il lavoro gratuito. Come ricorda Francesca Coin in “Salari Rubati, “il riferimento esplicito era all’accordo sindacale che ha consentito a Expo 2015 di sostituire il rapporto di lavoro contrattualizzato con una prestazione lavorativa non remunerata”.
Come per i fattorini di Foodora, “per i volontari di Expo c’era un immaginario linguistico che trasformava la grande esposizione in un’occasione di net-working, un modo per acquisire competenze e visibilità. La promessa è il miraggio di un futuro migliore, che legittima l’erogazione di lavoro gratuito come strumento di occupabilità in posizioni qualificate”.
È questa la logica che induce al lavoro gratuito tirocinanti e freelance, artisti ed editori, autori e curatori o banalmente tutti coloro che scrivono gratuitamente progetti e grant, nell’illusione che tutto ciò porti a una posizione remunerata.
Insomma, prima ti convincono che è normale fare “lavoretti”, che se non vuoi essere “choosy” devi accontentarti, poi arrivano gli stage, i tirocini, il lavoro gratuito e infine paghi per lavorare. Sì, si è visto anche questo, per esempio due anni fa con l’annuncio di una casa di produzione cinematografica che proponeva di partecipare all’”avventura” della realizzazione di un film in qualità di assistente alla regia, fotografo, scenografo, truccatore, per 500 euro.
Credo sia innegabile che, non esistendo forme di reddito minimo di autonomia per disoccupati, inoccupati, precariamente occupati e sottoccupati, questa escalation sia stata ancora più inarrestabile.
Un dato su tutti: in Italia il numero dei Neet è sempre stato del 60-70 per cento superiore alla media Ue, intorno a un livello del 20% rispetto alla forza lavoro complessiva. La media europea è dell’11%. Si tratta soprattutto di giovani che hanno bisogno di lavorare perché hanno bisogno di reddito. Non sono quindi disoccupati volontari, ma non rientrano nemmeno tra i disoccupati. I Neet sono il bacino degli scoraggiati, oltre che del lavoro nero e grigio.
L’Italia, di fronte a questi fenomeni, è davvero maglia nera in Europa, uno stato carogna (“rogue state”), insieme alla Grecia l’unico a non avere un sistema minimo di tutela garantito dal reddito universale, come la Ue non ha mancato di ricordare più volte.
Eppure, come hanno sostenuto Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”.
Non solo: a gennaio di quest’anno il Parlamento europeo si è espresso con un’importantissima Risoluzione sul “pilastro europeo dei diritti sociali”, in cui emergono in particolare proprio i due temi della predisposizione di tutele e garanzie anche per il nuovo “lavoro digitale” sulle piattaforme e la centralità del reddito minimo garantito nel rilancio del “modello sociale europeo”.
*Sbilanciamoci.info